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VIII



Anche per quella sera, l’intervista con Biagi andò benissimo. Fino a quel momento, il noto giornalista aveva accuratamente evitato di farmi domande troppo provocatorie. Del resto io avevo solo difeso gli Americani, ma avevo evitato di calcare troppo la mano. Quando rientrai in albergo non volli fermarmi nella hall e decisi di recarmi direttamente in camera. Ero stanco, ma Leandro, con mio grande stupore, era ancora sveglio. Mi chiesi se l’indomani i giornali avrebbero ancora scritto su di me.

Il giorno seguente mi alzai, anche Leandro era sveglio. Mi feci la barba, dopo di che, disse:

«Gli Americani fanno troppo chiasso», e si mise a ridere. Poi proseguì: «Il tuo Remington è distribuito in Italia, ma è prodotto nel Connecticut. L’ho visto sulla custodia». Capii allora che era il mio rasoio a fare così tanto chiasso.

Gli risposi: «Se tu fossi un poeta, apparterresti alla scuola degli Ermetici».

Lui volle ribattere: «Quando hai parlato del 1970 ti sei dimenticato di far riferimento alla morte di Giuseppe Ungaretti».

«Come si vede che sei stato distratto! Ne ho parlato, non ricordi?».

«Hai ragione, hai anche citato Iva Zanicchi».

Poi scendemmo a fare colazione.

«Ah», disse Jack, «dovrei farle una tiratina di orecchie. Lei ha dimenticato di parlare di Carosello. Per le canzoni, nulla da dire, perché ha buona memoria. Ma forse qualche canzone poteva essere tralasciata per dare spazio, ad esempio, a Carosello, ad Anna Magnani – che, mi pare, morì proprio in quell’anno – e, soprattutto, al grande Alighiero Noschese. Povero Alighiero, che brutta fine che fece, probabilmente lei era ancora un bambino e, anche se si ricorda tante canzoni di quell’epoca, non è possibile che ricordi tutto».

Jack si era seduto al nostro tavolo, anche la signora Nina vi si era seduta a sua volta. Il tavolo era da otto ed ora noi eravamo sette e non più cinque come prima. Poi Nina riprese:

«Posso sedermi qui, di fronte a lei?».

«Oh, sì, certo».

«E io, se permette, mi siedo qui, alla sua sinistra. Posso?».

Glielo concessi di buon grado, invitando i due a sedersi sempre con noi, se lo avessero gradito.

«Tornando alla sua osservazione», dissi, «le dico questo: lei ha perfettamente ragione sul fatto che non si può ricordare tutto, ma occorre che le rinfreschi un pochino la memoria; è vero che nel 1970 avevo sei anni, ma voglio proprio vedere come non ci si possa ricordare di Carosello. La Magnani morì il 26 settembre del 1973. In effetti della Magnani non so nulla; ricordo però quando morì. Noschese, invece, morì il 3 dicembre del 1979, evadendo da una clinica psichiatrica. Tornato a casa prese la pistola (Noschese infatti era un collezionista d’armi) e si sparò. Non ce la faceva più. Insomma, evase da quella clinica per morire a casa sua. Aveva 47 anni ed era un grande imitatore.

Sapeva mimetizzarsi talmente bene che se si accendeva la televisione all’improvviso, lo si poteva facilmente scambiare per il personaggio vero».

Lui ricominciò:

«Lei, purtroppo, non ci vede ma, come si suol dire, la Magnani era una gran bella gnocca!».

Nina si mise a ridere.

«Non usi questo linguaggio così sconcio, qualcuno potrebbe scandalizzarsi». «Beh», disse Leandro, «parla come noi giovani. Ho qui il mio portatile. Come ha detto che si chiamava?».

«Anna Magnani».

«Ecco. Mi sto collegando ad internet».

Leandro in pochi secondi trovò subito quello che cercava. Poi riprese: «Beh, da giovane era davvero bella, eppure, anche invecchiata, non era così brutta».

A questo punto, Tony pensò bene di cambiare discorso. Disse: «Nella trasmissione di ieri sera hai parlato davvero bene, hai spiegato come funziona il sistema Braille, hai parlato di musica; e poi, mi sei piaciuto davvero quando hai parlato degli anni Settanta. Spero che il discorso su questo argomento continui».

Lisa continuò:

«Io sono nata nel 1979, ma tu hai raccontato queste cose talmente bene che è come se io fossi nata negli anni di cui hai parlato. Scommetto che, con la memoria che ti ritrovi, mi sapresti dire ciò che è accaduto nell’anno in cui sono nata».

«Sì, certo. Alan Sorrenti cantò e vinse il Festivalbar con Tu sei l’unica donna per me, papa Wojtyla era eletto da un anno, Umberto Tozzi cantò Gloria, ma il Festival di Sanremo fece davvero “schifo”, se posso dirlo. E poi, scusami, ma se io ti continuassi a parlare di tutto ciò, non sarebbe più una sorpresa per chi ascolterà la trasmissione di Biagi».

«Hai ragione», rispose Laura. «Sai, io ti ascolto molto volentieri, mi fai tornare indietro di tanti anni».

«Sì, davvero», continuò Tony, «anch’io ricordo tante cose di quell’epoca. Vorrei essere lì con te ad ascoltarti in diretta».

Gli dissi di non preoccuparsi, perché forse un altr’anno avrebbero intervistato anche lui, poi gli diedi il mio indirizzo di posta elettronica, perché una volta che avesse imparato ad usare il computer avrebbe potuto scrivermi e, anzi, qualcosa avrei potuto insegnarglielo anch’io.

Poi venne un cameriere che ci portò la colazione. Gli chiesi di portarmi un bicchiere di succo di pompelmo e due toast con pancetta affumicata leggermente abbrustolita ed abbondante miele.

«Mangiate pure», disse Leandro, «poi ci incontreremo nella sala qui di fianco per la lettura dei giornali, proprio come ieri».

Tony propose di sederci nella hall dell’albergo, tanto i giornali li leggevano tutti. Leandro acconsentì. In quel momento venne Clementina.

«Allora come sta il nostro illustre signore? Da questo momento in poi mi sa che dovrò darti del lei».

«No, devi continuare a darmi del tu».

«Vedo che il tuo amico ha in mano alcuni giornali. Li ho presi anch’io. Posso sedermi qui con voi?». Le dissi di sì.

Poi Leandro disse:

«Sentite cosa c’è scritto qui. “Enea Galetti presenta Hiiiiiit Paraaaaaade”. Vorrei tanto sapere perché lo scrivono così. Forse per dare più enfasi, ma non ne capisco il motivo».

«Te lo spiego io», disse Tony. «Questo era il grido di Lelio Luttazzi. La sigla sembrava quasi una sigla da circo. Non so se avete presente quando si urla nei circhi per presentare il proprio numero. Allo stesso modo faceva Luttazzi, proprio come un imbonitore, dopo la sigla ed urlava (all’inizio e alla fine del programma) esattamente com’è scritto su quel giornale».

Poi Leandro lesse l’articolo, dove si descriveva ciò che avevo detto a proposito delle classifiche.

Un altro giornale, quello stesso in cui, il giorno prima, vi era pubblicato quel terribile articolo, proprio sotto la scritta “Editoriale”, riportava il titolo: «Enea Galetti si difende così».

Dopo una piccola nota di cronaca, venne riportato integralmente ciò che avevo mandato per posta elettronica il giorno prima, e a seguire vi fu l’editoriale vero e proprio del direttore, nel quale, in sostanza, si diceva che bisognava smentire le voci di chi calunniava la stampa, ma bisognava anche saper scrivere senza insultare, perché l’insulto scritto, spesso, può avere tragiche conseguenze. Ora mi sentivo un po’ più sollevato.

Soprattutto, Biagi veniva considerato quasi un eroe, il mio nome non veniva citato, se non nel titolo, e nella nota iniziale; quello di Biagi non si fece neppure una volta, ma si capiva che i suoi colleghi ne avevano stima. Dunque, fu una scelta di calcolo, ma io ne fui ugualmente contento.

Su un altro giornale ancora si poteva leggere un articolo intitolato: “Bravo Enea, bravo Biagi”.

Mi figurai quella frase come venisse cantata da una folla da stadio. Sotto quel titolo vi era un commento di elogio per la trasmissione, per la mia persona, e per quella di Biagi.

Poi chiamai mia madre. Lei mi disse:

«Ieri sera è andato tutto bene, niente frasi pesanti, salvo, forse, quella sulla canzone di Celentano. Mi sei piaciuto quando hai parlato di Fin che la barca va. Bravo, è andata bene!».

Chiesi a mia madre come fosse la Magnani, sia da giovane sia da vecchia. Lei volle sapere il perché, ma mi guardai bene dal dirle quella parola sconcia che Jack aveva pronunciato. Eppure, quella parola era un complimento, per dire che la trovava davvero bella. Lei mi disse che non la trovava un gran che. Infine mi comunicò che quella sera sarebbe venuta da lei una giornalista del Corriere della Sera per intervistarla.

«Bene», dissi io, «anche tu diventerai famosa!».

Subito dopo ricevetti la telefonata di Sergio. Disse:

«Non so se te l’han detto, ma su alcuni giornali, soprattutto su quelli usciti ieri, c’è la tua foto. Ma ora ti faccio la stessa domanda che ti ha fatto Biagi. Hai mai pensato di scrivere un libro?».

«L’ho già detto in trasmissione. Per il momento no, anche se qualche idea ci sarebbe, ma al momento non ci penso nemmeno».

«Ho voglia di vederti. Quando ritorni a casa, fammelo sapere».

«Posso fartelo sapere fin da adesso, rientro a casa mercoledì prossimo, nel pomeriggio».

«Va bene, boss. Ci sentiamo».

Dopo aver riagganciato, discesi nella hall, che cominciava a riempirsi di gente che si intrattenne a parlare un po’ con me. Poi venne Leandro. Anche Jack e Nina uscirono e andarono a passeggiare per Roma.

«Ma quei due, neanche si conoscono e vanno insieme?» disse Tony.

«Ti sembrerà strano, ma è così», gli spiegai. «I due, ieri, si sono anche un po’ scontrati. Lui è vedovo, lei – come ho avuto modo di scoprire – non si è mai sposata, ma, si sa, non bisogna mai porre limiti alla provvidenza. Lui ripartirà dopodomani, credo, ma non ne sono tanto sicuro. In ogni caso, se avrò modo di conversare con loro, glielo posso chiedere. So soltanto che lui dovrà tornarsene a casa, perché sua figlia diventerà mamma, non so se per la prima o seconda volta».

Laura disse: «Beh, la tipa non è poi così brutta, non dico eccezionalmente bella, ma, insomma, una bellezza normale non esagerata. Deve essere anche piuttosto fine».

«Io penso», riprese Tony, «che due anziani – voglio dire un uomo ed una donna – possono sentire l’esigenza di stare insieme, anche quando non si ha più la possibilità di fare sesso. Insomma, non c’è più sesso, ma c’è la semplice voglia o desiderio di farsi compagnia».

Questa conversazione si svolgeva sull’auto di Leandro. A un certo punto disse:

«Non c’è più solo la voglia di stare insieme, oggi c’è anche il viagra. Si dice che faccia miracoli».

«Sì», risposi, «ma se a quell’età sei un po’ debole di cuore, c’è anche il rischio di rimanerci secco».

Vi furono altri commenti vivaci e risate, mentre giravamo per Roma, seguendo alcuni itinerari turistici. Poi rientrammo un quarto d’ora prima del pranzo. I due vecchi arrivarono a tavola con sette minuti di ritardo. «Ecco i nostri giovanotti» disse Leandro mentre li vide arrivare. «Allora, vi siete divertiti?» disse Laura.

«Oh, tantissimo» fece Nina. «Avremo ancora un po’ per stare insieme. Il nostro amico riparte sabato e sono contento per lui che diventa nonno. Io non ho avuto mai questa gioia, perché non mi sono mai sposata. Non ho trovato la persona giusta. Ricordo che quasi cinquant’anni or sono, mi innamorai di un uomo. Dopo un mese di corteggiamento gli chiesi che lavoro facesse e se guadagnasse molto. Anziché dirmi che vendeva dischi, per essere più fine, mi disse che faceva il venditore di 45 giri. Non sapevo cosa fossero, mi spiegò che erano dischi. Poi gli chiesi cosa ci trovasse di interessante nel vendere i dischi. Mi rispose: “La stessa cosa che c’è nelle donne: il solco!”».

A quella frase, tutta la sala si mise a ridere, perché aveva udito la conversazione di Nina.

Sempre ridendo dissi: «Non vi sarete lasciati per questo, spero?».

«Oh, no. Un giorno disse che si sarebbe recato a Brooklyn per aprire una casa discografica. Disse che in qualità di produttore discografico, avrebbe guadagnato molto denaro. Mi disse se volevo seguirlo, ma io dissi che non me la sentivo. Da quel momento non ho mai più avuto sue notizie».

«E non ha mai pensato di rintracciarlo?», si informò Tony. «Quanto tempo siete stati insieme?».

«Un anno e due mesi», disse Nina. «Ci conoscemmo nel 1947, quando avevo 19 anni. Ricordo ancora il suo nome, si chiamava Edoardo. Quando ci fidanzammo mi regalò un 45 giri di Rabagliati, Mattinata fiorentina. Pensi, lo conservo ancora oggi».

«Beh», disse Leandro, «perché non va alla trasmissione di Maria de Filippi? Vederlo anche una sola volta potrebbe farle bene, voglio dire, sarà un piacere per lei».

«Per me non c’è problema; io sono signorina e perciò non mi sono mai sposata, ma lui, chissà!».

Mentre si parlava di ciò – e di tant’altro – consumammo il nostro pranzo. Tutti parteciparono alla conversazione, di tanto in tanto vi furono altri interventi di persone che non conoscevo. Insomma, ognuno disse la sua. Io, poi dissi a Nina che nonostante si fosse rivolta a Jack dicendogli di stare zitto (a proposito del fascismo), tutto si era sistemato, perché lei si era scusata. Insomma, i due cominciarono a farsi compagnia e questo fu un bene per loro. Poi, terminato il pranzo, Jack mi prese in disparte e mi disse:

«Ecco, signor Enea, sediamoci pure qui, che non c’è nessuno».

Ma perché? Cosa c’era di tanto importante che dovevo sapere? Lui, evidentemente, aveva voglia di sfogarsi un po’. Mia madre, più di una volta, mi aveva detto che spesso gli anziani hanno bisogno di compagnia e spesso sentono il desiderio di parlarsi tra loro e, soprattutto, di parlare con i giovani. Allora proseguì:

«Le giuro, signor Enea, che oggi non mi sono mai divertito così tanto. Intendo dire, durante il giro con Nina, e soprattutto mi ha fatto tanto ridere quando ha parlato del solco. Anche lei rideva e, anzi, avrà notato che parlava a voce alta. Così, hanno sentito tutti e, com’è naturale, si sono spanciati dalle risate.

Dunque, ora mi ascolti bene. Ieri io le ho raccontato quanto la sorte sia stata molto crudele con me. Ora, lei deve sapere che nel 1942, poco prima dell’episodio che mi vide protagonista (ricorda, quello in cui io e mio padre riuscimmo a vendicarci), alcuni fascisti mi fecero una cicatrice sul braccio sinistro con un ferro rovente. Ecco, osservi».

Così dicendo si rimboccò la manica e mi fece toccare quella cicatrice.

«Come vede», proseguì, «io porto addosso i segni della guerra e, soprattutto, della sofferenza. Durante la guerra mi nascosi più volte e con me nascosi anche la mia identità, facendomi chiamare Giacomo, trasformato in Jack, il nome che usavo da combattente. Poi, nel 1946, aprii un negozio di oggettistica varia. In seguito mi venne l’idea di aggiungervi anche i dischi. All’epoca c’erano i 78 giri, poi vennero anche i 45.

Mio padre mi dava una mano in quell’attività. Non avevamo molti soldi e, nonostante il dolore della guerra e della perdita di due persone care, tutto andava bene. Alla fine della guerra non fummo neppure processati e non se ne parlò più. Tuttavia, sentivo che la vita continuava, e, nonostante tutto, mi avrebbe regalato anche tanti momenti di gioia.

Così sentii il bisogno di conoscere qualche donna, la prima delle quali fu proprio Nina, di cui poc’anzi ha sentito la storia».

«Non vorrà dire che...».

«Sì, come avrà capito, io non mi chiamo Giacomo, io sono Edoardo. Con Nina ci mettemmo subito insieme, e, soprattutto, ci capimmo al volo. Lei capì la mia sofferenza; quattro mesi più tardi eravamo fidanzati. Trascorsero altri quattro mesi, e un giorno le dissi di aver visto un annuncio sul giornale, dove vi si leggeva che a Brooklyn si poteva trovare lavoro. Anzi, mi correggo. Non fu un annuncio, ma un trafiletto. Si diceva anche che comprare una casa fosse particolarmente vantaggioso. Non ci pensai due volte. La decisione fu presa immediatamente.

Parlai a lungo con Nina sull’opportunità di trovare un lavoro lontano dall’Italia, lei mi disse che non potevo abbandonarla, perché aspettava un bambino da me. La sera stessa che ci fidanzammo, decidemmo di festeggiare con una cena. Subito dopo facemmo l’amore, ed ora che dovevo partire per Brooklyn mi disse che non potevo. Naturalmente sapevo che era incinta. Ma ugualmente le dissi che dovevo partire e che, se la gravidanza le impediva una partenza troppo frettolosa, avrebbe potuto raggiungermi in seguito. Lei si rifiutò, non poteva lasciare l’Italia, così su due piedi. La capii, sia pure soffrendo in silenzio. Lei si mise a piangere, ma mi supplicò di non dimenticarla e di scriverle spesso. Glielo promisi. Inizialmente ci scrivemmo abbastanza spesso. Lei, fra l’altro, mi scriveva dicendomi più volte che non si sarebbe mai sposata.

Un giorno mi scrisse di aver partorito una splendida creatura. Inizialmente, pensò di chiamarla Edoarda, poi ci ripensò e la chiamò Edda. Io le scrissi dicendole che anch’io, come padre, volevo assumermi tutte le responsabilità del caso, tanto che ogni mese le mandavo un assegno.

Anche se eravamo lontani, non ebbi difficoltà a riconoscerla come figlia legittima, affinché con gli anni a venire potesse dire di avere un padre, lontano, è vero, dagli occhi, ma non certo dal cuore.

Poi un giorno le scrissi di essermi fidanzato con Helen. Mi sposai nel 1954, e, tre anni dopo, nacque Alan, poi, nel 1972, fu la volta di Antonia, detta Nina (io, infatti, la chiamavo sempre col diminutivo, perché, come si sa, il primo amore non si scorda mai). Fu dopo la nascita del primo figlio che i contatti con Nina (intendiamoci, voglio dire la mamma di Edda), si interruppero. Di nascosto, però, prendevo ogni tanto la foto di Edda per cercare di capire a chi di noi due somigliasse. Infatti vidi che, almeno un pochino, mi somigliava. Fu 1982 quando Helen morì.

Naturalmente fu un grande dolore, specialmente per Antonia, che aveva solo dieci anni. Di tanto in tanto pensavo di risposarmi, soprattutto per alleviare la sofferenza della povera piccola: volevo che avesse un’altra mamma, ma non mi fu possibile. Certo è che, anche durante il matrimonio con Helen, pensavo alla mia prima fiamma. Poi mi dissi, una volta avuto il mio primogenito, che ormai, alla mia prima fiamma non dovevo pensarci più.

Ma poi, cinque mesi dopo la morte di Helen, i ricordi riaffiorarono. Ecco in che modo.

Io ero consumato dal dolore. Un giorno aprii un cassetto dove pensai di trovare una Luger, della quale mi ero impossessato durante la guerra. Lei, infatti, deve sapere che sei mesi prima della morte di mia moglie, morì mio padre, il quale era venuto a vivere con me a Brooklyn. Certo, gli affari andavano bene, perché nel frattempo ero riuscito a mettere in piedi una casa discografica che mi fece guadagnare molto, ma io, che avevo avuto due lutti in undici mesi, non ce la facevo più. Il lavoro mi distraeva, perché mi ha sempre aperto nuovi orizzonti, ma, rincasando, sentivo un enorme peso che quasi mi soffocava.

Dunque, cinque mesi dopo la morte di Helen avevo aperto quel cassetto, e solo in quel momento capii che a volte il dolore è un grande maestro di vita. Cercai la pistola per uccidermi. Ironia della sorte, la notte prima, sognai mio padre (il quale era ormai morto da meno di un anno), che mi disse che la pistola l’aveva buttata via lui, a guerra ormai finita. Eppure, svegliandomi, ricordavo con precisione che quando andai ad abitare a Brooklyn ce l’avevo ancora. Ricordai anche che mio padre mi aiutò a riordinare tutti i miei oggetti e ciò lo faceva anche durante le mie assenze fuori casa. Ero ormai sveglio e io aprii quel bauletto che non aprivo più da anni. Nel dolore, dunque, cercai il revolver e subito mi resi conto che non c’era. Misi all’aria il cassetto, ma, nulla da fare. Nel sogno, mio padre aveva ragione. Doveva essere stato lui a buttar via quella pistola.

Poi, in mezzo a quel disordine, sentii cadere a terra un oggetto metallico. Era un Ronson, uno di quegli accendini a benzina che si usavano fino a non molti anni fa. Ma perché le parlo di quell’accendisigari in modo così concitato? Ecco. Prenda in mano un momento questo accendino. Che cosa sente sotto le dita?».

«Beh», dissi, «sento qualcosa in rilievo, il metallo è un po’ graffiato; anche se conosco il Braille, non riesco a capire cosa sia quella scritta così piccola. Sembra quasi un graffio».

«Orbene, quello che lei chiama graffio sono le iniziali del suo nome e cognome. Un giorno Nina – non si sa come – aveva trovato uno scalpellino fra gli attrezzi da lavoro di suo padre. Lui le spiegò che serviva per fare i buchi. Ciò avvenne circa dieci giorni prima della mia partenza. Alcune settimane prima, con la punta di quello scalpello aveva fatto una graffiatura su un pezzo di metallo, così per gioco. Poi, la sera prima della mia partenza, lei mi consegnò quel regalo. Con lo scalpello, aveva inciso il mio ed il suo nome con tanto di data a regola d’arte, come se quello scalpello fosse una matita.

Io la ringraziai; le raccomandai di conservare lo splendido anello che le avevo regalato, come pure il 45 giri di Rabagliati, e che stesse attenta a non usurarlo troppo perché la puntina non lo rovinasse e che, se mai le fosse venuta la voglia di ascoltarlo, si sarebbe ricordata di me.

Lei mi raccomandò di fare altrettanto con la catenina d’oro e con quell’accendino, sul quale era stata tanto abile in quel suo piccolo capolavoro d’iniziali. Mi disse che non avrei mai dovuto disfarmene. Dunque, volevo una pistola ed ho trovato un accendino. Cercai di rintracciare Nina, le scrissi, ma, evidentemente, aveva cambiato indirizzo, perché la lettera ritornò al mittente.

Poi scrissi a Portobello, per la rubrica del “Dove sei”. Inviai una raccomandata; passato qualche tempo telefonai per un sollecito: volevo rivederla. Loro continuavano a ripetermi che mi avrebbero ricontattato. Poi ebbe termine la stagione.

La mia speranza cominciò a riaccendersi nel 1983 con le nuove puntate, ma lei saprà certamente come andò a finire. Tortora venne arrestato innocentemente; saprà anche che se Tortora fu poi, dopo anni, prosciolto da ogni accusa, questa assoluzione arrivò troppo tardi. Oggi mi chiedo cosa valga la libertà di un uomo, quando questi è divorato da un male incurabile e sa di dover morire tra poco.

Devo aggiungere che a me è sempre piaciuto viaggiare. Così, tre settimane fa, giunsi a Roma. Per un giorno fui ospitato in casa di un amico. Ora, il giorno seguente girai presso alcuni alberghi senza trovare un posto. Poi entrai in una grande profumeria, dove acquistai una boccetta di vetiver. Nel negozio non c’era nessuno, tranne la commessa. Fui subito colpito da quel viso. Acquistai un’acqua di Colonia, poi la fissai. Lei se ne accorse e con voce un po’ nervosa, quasi spaventata, mi chiese cosa avessi da fissarla in quel modo; io ero così pensieroso che non le risposi e lei mi fece cenno di andarmene. Fu allora che mi misi a piangere come un bambino; cominciai a tremare dalla commozione e lei si impietosì. Le dissi che il suo viso l’avevo già visto e, quando le raccontai questa storia dicendole nome e cognome della mia prima fiamma, lei mi disse che si trattava di sua nonna.

Era la figlia di Edda e io non mi ero sbagliato, perché nei suoi lineamenti del viso ritrovai quelli della donna che avevo amato da giovane. Io non le dissi il mio vero nome, mi limitai a dirle che la conoscevo. Lei rispose che, visto che mi trovavo in vacanza (guardi un po’ com’è piccolo il mondo) potevo incontrare sua nonna presso questo albergo, dove sarebbe arrivata di lì a pochi giorni. La mia sorpresa fu grande, io la riconobbi subito, mentre lei no. Quando le feci notare di averla già vista, lei mi guardò da estraneo. Io allora decisi di presentarmi con il mio nome da combattente, rimandando la sorpresa a più tardi. Anzi, all’inizio mi guardò piuttosto male. Ha visto come mi ha trattato ieri! Ma poi, si sa, una parola tira l’altra. Poi è arrivato lei, ed è per questo che mi sto confidando, perché mi possa aiutare a rivelare a Nina la mia vera identità... Certo non le dirò: “Ciao, Nina. Sono Edoardo. Mi riconosci?”».

«Quindi, lei non le ha ancora raccontato la sua storia».

«No. A volte, però, mi chiedo se la mia faccia sia tanto cambiata al punto che non mi riconosca più. Può darsi che se io le dicessi il mio vero nome, non mi riconosca lo stesso».

«Beh, la prossima volta che le vien voglia di fumare, tiri fuori l’accendino con le iniziali».

«Non posso. Se lo tirassi fuori e lei non mi riconoscesse, mi incalzerebbe di domande e mi chiederebbe di certo come io ne sia venuto in possesso».

«I suoi figli sono al corrente di questa storia? Voglio dire, della sua storia con Nina?».

«Sì, ma, ripeto, Nina non mi riconoscerà nemmeno se le facessi vedere l’accendino con le sue iniziali. Mi scambierebbe per un ladro, o un approfittatore! Lei, che è giovane e più saggio di me, cosa mi consiglia?». «Beh, a proposito di saggezza, anche lei lo è. Sappia che io ho un gran rispetto per le persone anziane. Nessuno di voi due sembra essere fuori di testa. Comunque, da quel che ho ascoltato e capito, questa è una storia molto intrecciata. Se fossi in lei, alla prima occasione glielo direi. Visto che lei fuma, accenda la sigaretta, e anche se Nina la incalzasse di domande, le dica la verità, così sarà finita una volta per tutte. Oppure, se non ha voglia di fumare, si scopra il braccio con la cicatrice. Forse la sua donna l’avrà vista nel periodo in cui eravate fidanzati». «Certo che sì».

«Sua figlia Edda sa che lei è suo padre?».

«Credo di no».

«Beh, certe cose ad un estraneo come lei non si dicono, ma forse Nina prima o poi si sfogherà. Ad esempio, Nina sa che lei è vedovo?».

«No».

«Ecco, conversando di quell’argomento, può darsi che la sua ex le dirà di avere avuto una figlia e quindi di non essere signorina. Può darsi che ancora una volta parlerà di Edoardo e, se anche non le rivelasse chi sia il padre di Edda, lei può scoprire le carte; ad esempio, potrà farle vedere la famosa cicatrice sul braccio».

Lui ci pensò un po’, poi disse che avrebbe voluto farle una sorpresa. Bisognava prima scoprire se Edda avesse un padre, ma per ciò che riguardava la sorpresa, era a corto di idee. Forse, si era rivolto a me proprio per questo. Così gli dissi:

«Al momento non so che consigli darle ed ho bisogno di tempo per riflettere. Lei, intanto, si faccia raccontare qualcosa della sua vita. Al resto, ci penso io, ma, come ripeto, devo pensarci su. A me le idee non mancano e sono convinto che ci sarà proprio una bella sorpresa!»

«Allora, posso fidarmi? »

«Come io di lei».