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Prefazione II

I



Non c’è maggiore soddisfazione per me che sono non vedente, che quella di mettersi davanti al computer a pensare mentre scrivo. Tanto, anche se le idee vengono alla rinfusa, posso sempre rielaborarle. Ho sempre sognato di scrivere un libro e finalmente, ecco l’eccezionale avvenimento, per il quale provo una grande gioia ancora oggi. Penso con emozione alla storia che sto per raccontare, nella quale alcuni nomi e località verranno usati in senso proprio e come nomi reali; altre volte, invece, verranno indicati dalla sola iniziale. Per un po’ credetti di sognare ad occhi aperti e invece... Adesso, senza prolungare oltremodo l’attesa del lettore, è arrivato il momento di raccontare questa storia.

Tutto ebbe inizio il 3 settembre del 2004, un venerdì. Quella sera tornai a casa con mia madre venuta come suo solito a prendermi alla fermata del pullman che da Milano mi trasportava a R. Mia madre, dunque, mi raggiunse appena sceso.

«Beh», le dissi mentre con lei stavo tornandomene a casa, «cos’è questa cosa che non potevi dirmi al telefono questa mattina?».

«Oh», fece lei, «nulla di grave. Hai preso i giorni di permesso?».

«Sì».

«Ebbene, devo comunicarti una cosa che ha davvero dell’incredibile. Spero soltanto che non si tratti di uno scherzo. Se vorrai, lunedì mattina, partirai per Roma per qualche settimana. Pare che l’Unione Italiana Ciechi della sede centrale ti abbia sorteggiato per un’intervista in televisione. Tra poco riceverai una telefonata e, per ciò che riguarda l’intero soggiorno, avrai anche un accompagnatore».

Non fece in tempo a dirmi ciò che giunti a casa squillò il telefono. Lo feci squillare quattro volte prima di rispondere, in modo da poterne identificare in seguito la chiamata.

La centralinista della Rai mi disse che mi avrebbe inoltrato alla responsabile dell’Ufficio Interviste. Una voce altrettanto gradevole mi disse: «Signor Galetti, lei è stato sorteggiato dalla sede centrale dell’Unione, perché Enzo Biagi vuole intervistarla in eurovisione. Si tratta di una ricerca sui non vedenti e – non mi chieda come – lei è stato sorteggiato. Se vuole, può anche rifiutare ma, chissà perché, sono quasi sicura che lei non si rifiuterà. Per quanto riguarda il servizio di accompagnamento non ci son problemi. Avrà il soggiorno a nostre spese. Anche l’accompagnatore verrà pagato da noi e...».

«Va bene, accetto. Solo uno stupido rifiuterebbe una simile occasione e sputerebbe nello stesso piatto in cui mangia».

«Allora d’accordo. Domenica verrà il suo accompagnatore. Mi dia tutti i suoi dati». La responsabile si trattenne con me al telefono ancora una mezz’ora, mi fece molte domande; poi mi disse che domenica sarebbe venuto a trovarmi l’accompagnatore, un volontario civile di 26 anni di nome Leandro.

«Ancora una cosa», mi disse, «lunedì pomeriggio alle quindici e trenta passi da me».

Poi raccontai a mia madre che lunedì mattina sarei partito per Roma. Mi aiutò a preparare le valige. Vi misi dentro l’abbigliamento necessario, il mio lettore cd, il rasoio elettrico (un Remington con doppia retina comprato alcuni anni prima), un dopobarba, una boccetta di cologna, tutto l’occorrente per fumare e pulire la pipa, e – cosa assai incredibile per un non vedente – la macchina fotografica e la mia nuova telecamera che avevo comprato proprio in occasione del mio quarantesimo compleanno. “Tanto” pensai “potrò chiedere a qualcuno di scattare le foto, girare i filmini e descrivermeli successivamente”. Certo è che tre mesi prima avevo compiuto quarant’anni, e ancora non sapevo dell’occasione che mi veniva offerta di lì a poco.

Passai uno splendido weekend di sole, quando, verso le due di quella domenica sentii suonare. Non potevo sbagliare. Era Leandro. Feci le presentazioni e fummo molto soddisfatti. Poi mi ricordò che l’indomani saremmo partiti e che l’aereo avrebbe decollato alle dieci e mezza.

«Chissà come sarà contento, signor Galetti!».

«Sarei ancora più contento se ci dessimo del tu», dissi sorridendo.

Leandro acconsentì; poi mi raccontò di avere 26 anni e che da due mesi si era laureato in filosofia, ma – strano a dirsi – fare il professore non lo interessava gran che. Mi disse che di professori in filosofia ce n’erano fin troppi, quindi aggiunse che lo studio di quella materia era solo un fatto di cultura e che, anzi, aveva già un lavoro. Aveva investito parte dei suoi soldi per acquistare un grosso stabile, dove aveva impiantato una azienda di assistenza tecnica per computer e componenti elettronici.

Per la verità, aveva fatto domanda per diventare assistente di qualche professore (lui, ironicamente, diceva “professorone”), ma non ci sperava.

«Pazienza, andrò avanti con l’elettronica».

«L’importante è fare ciò che piace».

Poi mia madre preparò il caffè, quindi Leandro chiese se poteva fumare. Gli dissi di sì, lui – lo capii dal rumore – aprì la busta del tabacco e si arrotolò una cartina. «Ah, non sapevo che i filosofi arrotolassero le cartine. Pensavo che comprassero le sigarette già pronte». Si mise a ridere, risi anch’io, anche mia madre rise.

Anch’io gli feci compagnia e accesi la pipa. Lui, di rimando fece: «E io non sapevo che i centralinisti fumassero la pipa».

Ridemmo di nuovo.

Poi, terminato di bere e di fumare, disse: «Ora devo proprio andare, mi cercherò un albergo fino a domani». «Visto che tutt’e due dovrete alzarvi presto domani mattina, dormirai qui» fece mia madre. «Beh, io...».

«Tu dormirai in camera con Enea» gli replicò. Leandro acconsentì dopo numerose insistenze, quindi, dal momento che doveva restare, gli preparammo la camera, poi gli proposi una lunghissima passeggiata. La gente ci salutava, perché essendo del mio stesso paese mi conosceva bene. Qualcuno mi chiese chi fosse la persona che mi accompagnava. Replicai loro che veniva da Roma.

Durante la passeggiata e alcune soste che facemmo, Leandro fumò qualche altra sigaretta. Gli chiesi di insegnarmi a fare le cartine, io gli avrei insegnato a fumare la pipa. Disse che ciò andava bene e che avremmo avuto tutto il tempo per poterlo fare a nostro agio.

Tornammo a casa con una gran voglia di mangiare. In cucina veniva un profumino di aglio, mia madre, infatti, aveva preparato gli spaghetti con aglio, olio e peperoncino. Mi chiese se sulla pasta bisognava mettere il formaggio, io le dissi di no.

Poi arrivarono le polpette con alcune crocchette di patate. Dissi a mia madre che l’indomani non avrei fatto colazione, avrei semplicemente bevuto un caffè.

Leandro sentì la voglia di uscire, e, questa volta, fu lui a propormelo. Prima di cena, durante la passeggiata pomeridiana, ci eravamo anche fermati in un bar a consumare una birra. «Offro io», disse, «siete così buoni con me».

Gli risposi che non era necessario, ma poiché insisteva gli dissi che la prossima volta avrei offerto io. Ed ora avevamo finito di cenare ed eravamo di nuovo fuori, se non altro, per una boccata d’aria, che ci desse il tempo per digerire, per non andare a letto a stomaco pieno. «Ho visto che in casa hai il computer» fece lui. Gli spiegai a cosa mi servisse e come funzionava. Poi aggiunsi che se al nostro ritorno si fosse trattenuto da me una mezz’ora, gliel’avrei potuto spiegare facendogli vedere come lo utilizzavo. «Ma stasera no», gli dissi, «perché è troppo tardi e il computer è in cucina, proprio dove dorme mia madre».

«Beh, con calma! Vedrò di trattenermi fino al nostro ritorno, se mi sarà possibile». Poi ci mettemmo a letto, scambiammo qualche parola, quindi dopo alcuni minuti ci addormentammo profondamente.

«Non sapevo che russassi», disse mia madre il mattino seguente, «non avete sentito nemmeno la sveglia, tanto russavate di gusto». Fu in questo modo che ci svegliammo, ma rimanemmo ancora a letto per una decina di minuti, mia madre ci portò il caffè.

«Io no», le dissi. «Lo prenderò in cucina più tardi».

Solo Leandro bevve il caffè a letto, poi fumò una sigaretta. Mia madre vide che se la stava accendendo, così gli porse il portacenere. Pensai intensamente a mio padre che era morto da anni, anche lui era solito bere il caffè a letto e fumare qualche sigaretta e rivissi quell’abitudine che avevo preso di infilarmi in quello che io chiamavo “il letto grande”, dove mi mettevo sotto le coperte vicino a mio padre, una volta che mia madre si fosse alzata.

Mi alzai, mi feci la barba con un altro rasoio elettrico che avevo in casa. Per la verità, sapevo anche adoperare la lametta, ma quel mattino ero così ansioso di voler partire, che ebbi perfino paura di tagliarmi dalla troppa fretta che avevo.

Anche Leandro volle radersi, con quella che pensai fosse una lametta, ma mi spiegò che quello era uno di quei rasoi che andavano affilati con l’affilarasoio, come i barbieri erano soliti fare molto tempo fa.

«E non hai paura di tagliarti?», gli dissi. «Io tremo solo al pensiero di poterlo toccare. Beh, proprio non avrei immaginato...».

«...che i laureati in filosofia usassero il rasoio a mano libera. Non bisogna essere dei geni, ti pare?», mi interruppe lui.

«Vedo che ormai hai imparato, ma ora non distrarti, altrimenti ti tagli» feci io.

Poi ci preparammo, quindi mi misi il dopobarba, dopo essermi vestito. Poi bevvi il caffè, mia madre ne offrì un altro goccio al mio accompagnatore.

«A buon rendere, signora».

«Allora, buon viaggio, e cercate anche di svagarvi».

Ci recammo all’aeroporto in macchina. Il giorno prima, infatti, durante quella lunga passeggiata, avevo incontrato Sergio, un mio vecchio amico. Questi mi chiese da dove venisse Leandro e se fosse un mio parente. Gli raccontai che faceva il volontario civile a Roma per conto dell’Unione Italiana Ciechi. Lui disse che ciò era curioso. «Che bisogno c’è», disse, «che un accompagnatore venga qui, si fermi con te un giorno e una notte, ti porti a Roma con te, ti riaccompagni qua e ritorni indietro? Io, scherzando con te, ti chiamavo “boss”, ma ora penso che non mi sbagliavo affatto».

Allora dovetti raccontargli ciò che mi era stato detto per telefono. Rimase sbalordito, poi disse che, essendo in ferie il giorno seguente, ci avrebbe ben volentieri accompagnato in macchina fino all’aeroporto di Linate. «Ma dimmi», aggiunse, «io non conosco bene Biagi, ma so di certo che è di sinistra, e tu sei di destra, la persona che ti ha telefonato lo sa?».

«Cosa», fece Leandro, «sei di destra? Io invece no. Sono di sinistra, ma cercheremo ugualmente di andare d’accordo». «Sì, Sergio, la persona lo sa e, pur essendo anche lei di sinistra, mi ha detto che non c’è nulla da temere, perché anzi avevano bisogno di intervistare una persona con idee diametralmente opposte a quelle dell’intervistatore».

Poi lo congedammo con una mancia, che lui non volle, ma alla fine, lo costringemmo ad accettare.

L’aereo partì alle dieci e ventotto, due minuti prima dell’orario previsto. Arrivammo a Roma alle undici e sette minuti. Poi dovemmo attendere circa un quarto d’ora per le valigie. Quindi prendemmo un taxi, che, in otto minuti, ci portò all’albergo. Erano le undici e trentadue minuti quando arrivammo.

Entrati, fummo ricevuti da un impiegato che ci assegnò una magnifica stanza al secondo piano, e ciò dopo che, naturalmente, ebbe controllato i nostri documenti. Proprio nel momento in cui ci accingevamo a posare le valigie sul letto e mentre io stavo esplorando la stanza a noi assegnataci, udii un annuncio che diceva: “Attenzione, alle undici e quarantacinque, tutti i nostri clienti sono pregati di portarsi nella sala ricevimenti”. Erano le undici e quarantadue. Dissi a Leandro che dovevamo scendere, tanto avremmo potuto sistemare il tutto a fine pranzo. Appena scesi, fummo accolti da un applauso e da un gradevole cocktail di benvenuto a base di pizzette, salatini ed altre delizie.

Dissi che in altri posti avevo assistito ad alcuni cocktail party, ma era la prima volta che gente estranea mi applaudisse una volta entrati nella hall. L’unica volta che mi avevano applaudito, fu molti anni prima, quando assieme ai miei genitori, fummo trasportati in carrozzella dalla stazione di Rimini presso l’albergo delle Suore Domenicane. Non essendoci taxi alla stazione, qualcuno consigliò ai miei genitori di trovare una carrozzella tirata da alcuni cavalli, io ero seduto in mezzo e, una volta raggiunto il ponte fummo applauditi da molte persone che ci videro passare di lì. Io, all’epoca, avevo sei anni. Era il mese di settembre del 1970, e da allora erano passati trentaquattro anni e questo episodio – sia pure in modo diverso – si ripeteva a distanza di così tanto tempo.

Il direttore, il signor Bardi, mi disse che all’arrivo di un nuovo cliente, lo si accoglie in questo modo, coinvolgendo, naturalmente, tutti coloro che vi risiedono, con tanto di annuncio la sera prima.