È la fine
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Fratello legno
Fratello legno, trucioli
sopravvissuti all’albero,
amorosamente composti ai piedi d’una scala
per lo spazzino di domani;
fratelli trucioli, cuore
di un albero che tese le mani di foglia
sulla sua ombra, creature sfuggite
al regolo e alla pialla,
domani all’alba sarete gettate,
così nude così graziosamente ondulate,
nel carcere immondo dei rifiuti.
Meglio certo per voi restare chiuse
nella casa dell’uomo,
dopo il tempo delle stagioni e dei frutti,
che morire, creature,
orrendamente confuse.
Io così vivo, che vorrei talvolta
essere scelto da regolo e pialla
per una casa, e non vivere
tutta questa notte ai piedi d’una scala
che non posso salire,
ad aspettare l’alba.
Al nuovo Dio
Una cosa i robots non faranno,
l’aritmetica della miseria:
calcoleranno spazi intergalattici
e code di comete, il plasma d’Elios
e gli spettri di Sirio, ma una cosa
non faranno, beati veramente
come dei: vegliare incolonnando
cifre di sangue, comporre nel buio
speranze di pareggio, l’aritmetica
che infiamma la memoria, accende rossi
di pericolo, eccita sonerie,
numeri che diventano vampiri,
albe temute, giorni rossi. i robots
veramente tranquilli come dei
partoriscono numeri perfetti,
somme astratte: negli agili transistors
non si registra il male della vita,
il conto che non torna.
O tu felice veramente, ignaro
come un dio, mentre corrono le luci
sulla tua fronte e mille sonerie
rintoccano nel tuo petto di fili,
bambola della scienza, io ti invidio;
medici mai così pronti e solerti
avrò io, cui non tornano le somme, e ho il petto
selva di sputi e di vecchi deliri.
Lucidamente
Un momento di sole e tornerà
il buio dopo il giorno grigio (come
a mia madre il sorriso, che moriva).
Ha rossori di febbre il cielo: un nome,
agonia, a questo lucido crepuscolo,
la porta viola della notte. E sento
gridare l’uomo giovane che aveva
visto il sorriso sulla bocca viva,
e la morte veniva in quel sorriso.
E anche questo momento è nel ricordo.
L’ultima brace si consuma lenta
soffocata in un cielo di foschia.
E sento il grido ritto sui cipressi
impassibili: l’uomo che voleva, io,
fermare il tempo, e la morte rideva.
Bar di notte
L’una di notte: due giovani
eleganti si scambiano sigarette,
una ragazza spaventata è sola
con un bicchiere azzurro.
La musica del juke-box
restituisce un’antica visione del mare.
Questa notte non tornerà:
lo sanno i giovani ebbri,
la ragazza, l’uomo del bar,
la coppia che si disfà
in un languore di sguardi.
Mai più saremo legati
così, pronti per un dio
sconosciuto, improvvisamente
liberi da ogni colpa.
Non ci incontreremo mai più.
Gli ultimi
A Sbarbaro
E l’ora è vicina:
nell’inganno del tempo
l’orologio cammina.
Il sangue è già vinto.
Né cavalli né diluvi
né spettacoli divini:
ma cenere che scende lentamente,
la morte viene dalle vene. Siamo
gli ultimi dopo la speranza,
assistiamo alla fine.
(1962)
Il telegramma
“Tuo padre deceduto sei et trenta
Ospedale Civile. Ti aspettiamo”.
Sono due endecasillabi: tuo padre
è il mio, l’Ospedale Civile
è la fine di un viaggio – ancora all’alba
ho attraversato un giardino sfiorito
e l’ho veduto lungo, verde, antico,
come avevo da tanto desiderio,
aquila e lupo, un vecchio.
Tutta la vita l’ho aspettato: eccolo,
la porta chiusa della camera è socchiusa:
garofani, corone, uno sgabello:
guarda in alto, neppure ora mi guarda.
Così disteso, è bello.
La pazzia degli orologi
Orologi Rologi Ologi!
Io non so fare orologi
Bisogna fare orologi per vivere
Io so cantare e sognare
Io sono libero io vivo
Ti piegherai Orologi Rologi
Amici io andrò dove il tempo non conti
Amico ritornerai a fabbricare orologi
Gli orologi vi ingannano nere
Frecce
Non ci interessa Orologi rologi ologi
Io fuggirò andrò lontano dal tempo
Orologi rologi perfino ai confini del mondo
Orologi sul mare Orologi nel sole
Orologi legati agli steli Orologi al silenzio
Il tempo non chiede orologi soltanto
Non ci interessa Orologi Rologi
Fuggì tra foreste di quadranti
Fuggì su mari di tic tac
I cieli eran pendoli antichi
Le notti sveglie assalite
Orologi Rologi Ologi soltanto
E morì
Come un orologio d’argento
Spezzato
(1951)