Voci di campanili/Santa Maria delle Grazie

Santa Maria delle Grazie

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San Simpliciano La Torre di Massimiano e il monastero maggiore
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SANTA MARIA DELLE GRAZIE




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LL
e Grazie, la chiama semplicemente il popolo di Milano: nome armonioso che richiama subito alla mente l’apparire improvviso e delizioso dell’abside e della cupola nel largo Corso deserto; e la bassa piazza per la quale s’entra nel tranquillo refettorio dove, rôsa dal salnitro, la Cena di Leonardo ancora attrae i devoti dell’arte da ogni parte del mondo.

Come rimane nitida e vivace nella memoria la cesellata architettura della chiesa! colla sua cupola colorata, frastagliata di archi, di colonne di bianco marmo, colla eleganza delle sue rosse [p. 38 modifica]medaglie, de’ suoi rosoni, de’ suoi stemmi, delle finissime fascie in terra cotta, che la fanno sembrare più che una chiesa, un immenso scrigno gemmato ove stian racchiuse delle perle rare.

E lo doveva essere infatti per Lodovico il Moro, quando sotto la tribuna, ch’era stato un sogno suo e di Beatrice d’Este, là nel coro, sopra «le due mensole in similitudine di due leoni» depose la bara coperta di velluto e ornata d’oro, che racchiudeva la sua giovane sposa morta nel dar la luce a un bimbo. Erano spenti quegli occhi in cui forse brillò la prima fiammella d’ambizione che accese nel cuore di lui l’inestinguibile incendio che doveva accecarlo.

La magnifica chiesa delle Grazie, come un fiore in un camposanto, induce a un senso di profonda malinconia, quegli che sa ch’essa sta incompiuta da quattro secoli, a ricordo di un’epoca sfolgorante d’arte, folleggiante di sfarzo, delirante di divozione, finita in una ruina obbrobriosa.

La sfrenata ambizione di un solo uomo doveva chiamare al di qua delle Alpi, a sfogo di una personale offesa, tanto più pungente perchè meritata, quel tozzo e rozzo re francese che appena varcato il confine diede un saggio di ciò che [p. 39 modifica]doveva essere quell’invasione straniera per il nostro paese.

La duchessa di Savoia e la marchesa di Monferrato, in ricchi abiti, ornate de’ loro più preziosi gioielli, gli s’inchinano offerendo con iperbolica cortesia tutto ciò che possiedono: le guarda, sono brutte ed egli le spoglia de’ loro gioielli, che impegna.

Lodovico Sforza gli manda incontro le più allegre fanciulle milanesi; egli le guarda, sono belle e se le prende, simbolo dell’infamia che lo Sforza commetteva offerendogli l’Italia, dandogli in balìa, vergognosamente, la libertà del suo paese. Sfinito dalle orgie, piagato da malattia schifosa, Carlo VIII, ancora alle porte d’Italia, vorrebbe rivarcarle per tornarsene in patria, ed è Lodovico che lo sprona a proseguire nella gloriosa impresa di portar intorno per l’Italia il veleno del suo sangue e l’orrore de’ suoi saccheggi e delle sue stragi.

La notte prima di fuggire in Germania, quando già ha fatto partire i suoi bambini, e, salutati i famigliari, ha dato tutti i suoi ordini, lo Sforza, non più illuso sull’errore commesso, tradito e punito, venne per l’ultima volta nella chiesa delle Grazie a salutare la tomba di sua moglie presso [p. 40 modifica]la quale aveva sognato di prepararsi il ricco mausoleo.

Sotto l’alta cupola, in quella lugubre notte, devono essere risonate alla sua superstiziosa fantasia eccitata, strane voci sghignazzanti, devono essere usciti dagli angoli bui, paurosi spettri gridanti vendetta, e quello di suo nipote Galeazzo deve averlo afferrato alla gola, maledicendolo.



Nessuno più mise mano alla chiesa di Santa Maria delle Grazie: essa rimase come gioiello buttato nel fango, calpestato da cento piedi, logorato dalle intemperie, ma sempre sfolgorante sotto i raggi del sole.

I frati di San Domenico devono aver meditato lungamente sulla vanità delle umane cose, essi che avrebbero voluto un’umile chiesa dal severo e semplice tetto di legno, essi che invano avevano lottato contro la divozione dei duchi, pei quali la Madonna era divenuta quasi un idolo pagano, che abbagliavano cogli ori e gli splendori perchè i puri occhi non vedessero le turpitudini nascoste di sotto. Invano si erano opposti [p. 41 modifica]alle seduzioni di un’arte che dava al sentimento religioso tutte le armonie e gli incanti di una poesia alla quale il loro animo — chiuso fra le pareti delle celle, mortificato dalle penitenze, mirante sempre al teschio umano e alle piaghe divine — non sapeva elevarsi. Dai cortili del loro ampio chiostro, dove più non lavorava Leonardo, mirando la ricca cupola allora che dal Castello sventolavano le insegne del re francese, avranno presentito il futuro tramutarsi della patria loro e dell’umana società, essi che già avevano assistito a quello del loro mite e pietoso ordine.

Anche quel loro convento, sorto sopra i quartieri d’inverno delle milizie ducali, doveva risonare più tardi dei lamenti e delle grida strazianti dei torturati dell’Inquisizione, poi dello scalpitìo e delle trombe di armati usurpatori, francesi, spagnuoli, austriaci; finchè la trattenuta fiumana della libertà, prorompendo non spazzò via tutti gl’ingombranti ciottoli, e non si fermò, quieta e limpida, a lasciar udire la musica intonante inni patriottici davanti al tempio, dalle cui porte spalancate esce la musica solenne dell’organo e il profumo dell’incenso. [p. 42 modifica]



Dimentichiamo che Lodovico il Moro cacciò l’Italia nella lunga sventura della schiavitù, e non pensiamo che alla corte splendida ove egli adunava, in quell’epoca in cui l’Italia «era tutta un maggio» una gloriosa schiera di architetti ch’erano scultori e pittori, di pittori ch’erano musici e poeti. Leonardo vi sonava il liuto, Bramante vi recitava i suoi versi, il Corio vi leggeva le sue istorie.

Guardando Santa Maria delle Grazie in un giorno sereno di primavera, quando la cupola così vagamente colorata si disegna sul cielo azzurro e le rondini le volano intorno stridendo, non è più possibile tormentarsi per indovinare chi l’abbia architettata: ci piace di pensare che il genio di Leonardo e la genialità di Bramante si siano dato la mano lassù, per dirci che al di sopra degli errori della politica, delle vergogne della brutalità, delle bassezze della cupidigia, e delle crudeltà del fanatismo, aleggia, come bianca colomba di pace, l’arte.

Essa è l’orgoglio e l’umiltà dell’ingegno umano, poichè l’arte del passato è un freno alla superbia [p. 43 modifica]del presente. Nella sua rapida corsa sulla complicata macchina del progresso, l’umanità vede elevarsi nel lontano passato, nitida e splendente una vetta, alla quale nè il vapore nè l’elettricità non la possano portare — fors’anche l’allontanano sempre più.

Quel mozzicone di campanile che s’addossava vergognoso alla cupola delle Grazie, sembrava l’arte del nostro secolo che tentasse inutilmente di rizzarsi accanto a quella del quattrocento. Ora lo hanno sapientemente abbassato, in modo da lasciarci vedere l’intiero mirabile loggiato. Perchè non l’hanno levato completamente? L’alta cupola non ha bisogno di campane per far udire la sua voce: canta essa il salmo del re d’Israele: «Tutti gl’iddii dei popoli sono idoli, ma il Signore ha fatto i cieli. Magnificenza e maestà sono davanti a lui; forza e gloria nel suo Santuario.»