Vite dei filosofi/Libro Sesto/Vita di Crate

Libro Sesto - Vita di Crate

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Diogene Laerzio - Vite dei filosofi (III secolo)
Traduzione dal greco di Luigi Lechi (1842)
Libro Sesto - Vita di Crate
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CAPO V.


Crate.


I. Crate tebano, figlio di Asconda, fu anch’esso tra i celebri discepoli del Cane. Afferma Ippoboto per altro che non di Diogene, ma fu scolaro di Brisone l’achivo.

II. Si riferiscono questi suoi versi scherzosi:

     Bisaccia è una città che al nero fasto
     Sta in meno; bella e pingue; d’immondezze
     Ricinta; nulla possidente; in cui
     Alcun non entra, navigando, stolto
     Parassito, nè ghiotto di puttana
     Piantatrice di chiappe: ma cipolle
     Produce, ed aglio, e fichi, e pane; quindi
     Nessun fa guerra all’altro, o per tai cose
     Si procurano brandi, o per danaro,
     O per gloria.

È suo anche quel tanto decantato giornale che dice così:

     Poni; da darsi al cuoco: dieci mine.
     — Al medico: una dramma. — Al piaggiatore:
     Cinque talenti. — Al consigliere: fumo.
     — Alla puttana: un talento. — Al filosofo
     Un triobolo. —

[p. 43 modifica]— Era appellato anche l’apriporte, perchè entrava in ogni casa per fare ammonizioni. — È suo anche questo:

     Tant’ho, quanto ho studiato, e meditato,
     E apparato di santo dalle Muse:
     Ma portossi l’orgoglio il molto e il ricco.

E che dalla filosofia egli aveva avuto:

     Di lupini una chinice, e il non darsi
     Briga di nulla.

Di suo si riporta anche questo:

     La fame, o almeno il tempo, attuta amore,
     E se questi giovar non sanno, il laccio.

III. Fiorì nella centredicesima olimpiade.

IV. Racconta Antistene nelle Successioni che in una tragedia avendo veduto Telefo con una sporta, e in tutto il resto mendico, si gettasse a dirittura alla filosofia cinica, e che, convertita la sua sostanza in danaro (era tra gli illustri) e riuniti più di trecento talenti, li lasciasse a’ suoi cittadini e si desse fortemente a filosofare, per lo che ebbe a far menzione di esso anche Filemone il comico. Dice adunque:

     E portava l’estate il mantel grave.
     Per esser sofferente, e lieve il verno.

— Narra Diocle che Diogene lo persuadesse abbandonare [p. 44 modifica]i suoi beni a pascolo, e se aveva danaro, a gettarlo. E dice poi che fu della casa di Crate sotto Alessandro, come di quella di Ipparchia sotto Filippo; e che spesse volte col suo bastone scacciò alcuni parenti che gli s’accostavano, e lo dissuadevano del suo proposito, ma ch’egli era fermo.

V. Narra Demetrio magnesio ch’ei pose il suo danaro in deposito presso un certo banchiere, a patto, che se i suoi figli erano idioti, si desse a quelli; se filosofi, si distribuisse al popolo, poichè non avrebbero abbisognato di nulla, coltivando la filosofia. — Racconta Eratostene, che natogli da Ipparchia, della quale parleremo, un figliuolo, per nome Pasicle, quando fu uscito di pubertà lo condusse in camera di una fanticella, e gli disse che queste erano per lui le nozze paterne; che tragiche erano quelle degli adulteri, i quali hanno per premio esilii e morti; comiche quelle di chi frequenta le cortigiane, producendosi la pazzia dalle libidini e dall’ubbriachezza.

VI. Fu suo fratello Pasicle discepolo di Euclide.

VII. Favorino nel secondo dei Memorabili riferisce un suo tratto grazioso. Narra, che pregando di qualche cosa il ginnasiarca, gli toccava le cosce, e che inquietandosene quello, gli disse: E che? non sono tue anche queste come le ginocchia? — Diceva essere impossibile trovare uno senza difetto, al pari delle melagrane, che hanno qualche grano marcio. — Nicodromo, il suonatore di cetra, da lui provocato gli percosse la faccia; applicatosi un pezzo di cerotto alla fronte, vi scrisse sopra Nicodromo faceva. — Ingiuriava a bella posta le prostitute per esercitarsi con loro a tollerare le ingiurie. — [p. 45 modifica]Rinfacciò a Demetrio falereo di avergli mandato del pane e del vino, dicendo: Oh se le fonti portassero anche pane! È chiaro adunque ch’ei bevea acqua. — Dagli astinomi di Atene ripreso perchè vestivasi di tela, disse: Io vi farò vedere involto di tela anche Teofrasto. E non credendolo essi, li condusse ad una barbieria, e lo mostrò loro che si faceva tosare. — Flagellato in Tebe dal ginnasiarca — secondo altri in Corinto da Eulicrate — e strascinato da esso per un piede, tranquillamente recitava:

     Presol da un piè per la divina il trasse
     Soglia d’Olimpo.


Ma afferma Diocle ch’ei fu trascinato da Menedemo d’Eretria; poichè essendo costui di bell’aspetto e avendo nome di stare a’ comodi di Asclepiade fliasio, Crate toccogli le cosce, dicendo: Dentro Asclepiade. E soggiugne, che questo Menedemo mal comportandolo, il trascinò, ed egli applicò ad esso quel motto.

VIII. Zenone il cizico racconta inoltre nelle Crie ch’egli una volta cucisse nel mantello, senza vergognarsene, anche una pelle di pecora. — Era di aspetto deforme, e si rideva di lui negli esercizi ginnastici. Egli per altro solea dire, alzando le mani: Crate, rassicurati, per riguardo agli occhi ed al resto del corpo. Questi dileggiatori li vedrai ben presto rattratti dal male chiamar te felice, rimproverando a se stessi l’ignavia.

IX. Diceva che si dovea filosofare finchè i capitani paressero asinai. — Soli chiamava coloro che [p. 46 modifica]stavano cogli adulatori; non altrimenti che i vitelli quando sono in compagnia dei lupi, poichè nè quelli nè questi hanno vicino chi ad essi convenga, ma chi medita insidia contro di loro.

X. Sentendosi morire, disse, sovra sè stesso, cantando:

                 — Dunque vai, caro gobbo,
     E scendi, per vecchiezza, a casa Pluto.


— Era curvo dall’età.

XI. Ad Alessandro che lo interrogò, se voleva che si rifabbricasse la sua patria? rispose: Qual pro? se forse un altro Alessandro la distruggerà di nuovo.

               — E per patria doversi
     Aver la vita povera ed oscura
     Invano tocca da fortuna.


E di Diogene:

                   — Cittadino esser egli
     Che dell’invidia non paventa insidie.


— Fa menzione di lui anche Menandro, ne’ Gemelli, in questo modo:

     Però che meco in lacero mantello
     A passeggiare andrai, come la donna
     Un dì di Crate il cinico.

XII. Lasciò anche in mano a’ suoi scolari la figlia, siccome dice egli medesimo, ad essi

     Dando, per esperienza, trenta giorni.