Vita di Dante/Libro I/Capitolo VI

Capo Sesto - L'anno 1289; Ugolino, Carlo Martello di Napoli, la battaglia di Campaldino, la presa di Caprona; Francesca.

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Capo Sesto - L'anno 1289; Ugolino, Carlo Martello di Napoli, la battaglia di Campaldino, la presa di Caprona; Francesca.
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CAPO VI.




l’anno 1289, ugolino, carlo martello di napoli, la battaglia di campaldino, la presa di caprona, francesca.

(1289)


Le donne, i cavalier, gli affanni e gli agi109
     Che ne ’nvogliava amore e cortesia.



Adunque, in questi studi severi, proseguiti nelle scuole più famose d’Italia, in quegli altri tutto geniali della sorgente poesia, tra i compagni e le socievoli brigate, nella sua, rispetto all’altre, tranquilla e lieta città, e con in cuore quel gentile amore, che fu sempre il primo de’ suoi pensieri, e non gli dava per anco se non dolcissimi affanni, traeva Dante gli anni suoi giovanili. “Con tutto che di grandissima ricchezza non fosse, nientedimeno non fu povero; ma ebbe patrimonio mediocre, e [p. 130 modifica]sufficiente al vivere onoratamente.... Case in Firenze ebbe assai decenti, congiunte con le case di Gieri di Messer Bello suo consorto; possessioni in Camerata, e nella Piacentina, e in Piano di Ripoli; suppellettile abbondante e preziosa, secondo egli scrive. Fu uomo molto pulito, di statura decente, e di grato aspetto e pieno di gravità; parlatore rado e tardo, ma nelle sue risposte molto sottile1. Nè per gli studii si racchiuse in ozio, nè privossi del secolo; ma vivendo e conversando con gli altri giovani di sua età, costumato ed accorto e valoroso ad ogni servizio giovanile si trovava2. Niente tralasciò delle conversazioni urbane e civili. E era mirabil cosa, che studiando continuamente, a niuna persona sarebbe paruto ch’egli studiasse, per l’usanza lieta e conversazione giovanile. Per la qual cosa mi giova riprender l’errore di molti ignoranti: i quali credono, niuno essere studiante se non quelli che si nascondono in solitudine ed in ozio; ed io non vidi mai niuno di questi camuffati, e rimossi [p. 131 modifica]dalle conversazioni delli huomini, che sapessero tre lettere. L’ingegno grande ed alto non ha bisogno di tali tormenti; anzi è verissima conclusione e certissima, che quelli che non apparano tosto, non apparano mai; sicchè stranarsi, e levarsi dalla conversazione è al tutto di quelli che niente sono atti col loro basso ingegno ad imprendere"3. Ed osservisi quì ciò che avremo ad avvertir poi fino al fine; come Dante sapesse sempre meravigliosamente passar dalla vita contemplativa all’attiva, ed all’incontro. Ed ora già s’appressavano per lui gli anni virili dell’azione; anzi gli anni fatali de’ dolori; quegli anni che toccano a tutti forse, più o meno per tempo nella vita, e ne determinano qualunque sia il rimanente. A Dante furon tali il 1289 e 1290, ventiquattresimo e venticinquesimo della vita di lui.
Durante quel tempo, che non solo Firenze ma quasi tutta Toscana s’era fatta più e più Guelfa, Pisa era rimasta ferma in sua fedeltà Ghibellina. Ma sostenuta una lunga ed aspra guerra contro a Genova, antica e guelfa emula [p. 132 modifica]sua, n’aveva avuta a’ 6 di agosto 1284 quella famosa rotta alla Meloria, che fu la maggior battaglia navale del medio evo, e dalla quale in poi precipitò senza rialzarsi più mai la potenza Pisana. Passò questa allora, in mare alla vincitrice Genova, in Toscana alle vicine Lucca e Firenze; le quali Guelfe amendue si rivolsero contro la vinta e Ghibellina. Finì poi la guerra, come finivano le più allora, con un cambiamento di parte della città più debole, alla parte più forte all’intorno, ajutata dai proprii cittadini già esuli ed oppressi. Nel 1285 il conte Ugolino della Gherardesca, di quelle famiglie di signori feudatarii divenuti cittadini potenti, già Ghibellino, ma ora da alcuni anni Guelfo, fece tumulto nella città, rivolsela alla nuova parte vittoriosa; e, cedute le migliori castella del territorio alle nemiche Lucca e Firenze, strinse pace con queste4 Quindi rimase egli capo indisputato del suo Comune, egli podestà, egli capitano delle masnade, egli ogni cosa entro la sua città; e per mezzo di questa , egli uno dei principali capi di parte [p. 133 modifica]Guelfa in Toscana. Ma corsi cosi alcuni anni, dividevansi tra loro i guelfi Pisani, anzi la stessa famiglia di Ugolino. Nino Visconti figlio della figlia di lui, e giudice di Gallura in Sardegna (si sa che i giudicati erano provincie Pisane in quell’isola), si rivolse contro all’avo, traendo seco, come pare, i Guelfi più esagerati. Ugolino, di nome già Ghibellino or Guelfo, ma in cuore, probabilmente, nè l’ uno nè l’ altro, si riaccostò ai Ghibellini, fra cui erano principali

Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi,

INF. XXXIII. 32.

e coll’Arcivescovo Ruggeri degli Ubaldini di Mugello. Nino di Gallura e la sua suddivisione di Guelfi puri, furono cacciati dalla città. Ugolino fu gridato signore di Pisa. Ma in breve, come succede a chi si vuole accostare a una parte di che non è, Ugolino diventò o sospetto od odioso all’Arcivescovo, alle tre famiglie potenti, e a tutta la parte Ghibellina; e fu a furia di popolo assalito nella sua casa, sforzatovi, fatto prigione, e rinchiuso nella torre de’ Gualandi alle sette [p. 134 modifica]vie, con due figliuoli suoi, Gaddo ed Uguccione, e con tre nipoti, Ugolino detto il Brigata ed Arrigo, ambi figliuoli di Guelfo altro figliuol suo e d’Elena di Svevia figlia di Enzo re di Sardegna (tanto era lo splendore e la potenza de’ Gherardeschi ), ed Anselmuccio figlio di Lotto, altro figliuol suo prigione in Genova dopo la Meloria. Bimase quindi l’Arcivescovo capo del Comune con titolo di podestà per cinque mesi; passati i quali rassegnò 1’ufficio a Gualtieri di Branforte, e questi a Guido da Montefeltro, un potente signor Ghibellino di Bomagna, cacciatone da’ Guelfi, ed allora a confino in Asti. Giunto appena con ira di fuoruscitoli nuovo podestà, subito, addi 12 marzo 1289, fu chiavato l’uscio di sotto, e gittata in Arno la chiave dell’orribil torre, entro la quale giacevano da nove mesi il vecchio e i cinque giovani. E così morivano essi poi un’orribile e ignota morte di fame. "Di questa crudeltà furono i Pisani per lo universo mondo ove si seppe, fortemente, ripresi e biasimati; non tanto per lo Conte, che per li suoi difetti e tradimenti, [p. 135 modifica]era per avventura degno di siffatta morte; ma per li figliuoli e nipoti, ch’erano piccoli garzoni ed innocenti." Così il Villani quasi contemporaneo; ma uno storico più diligente, e quantunque posteriore di cinque secoli più informato, scopri l’errore di lui e di Dante in fare piccoli garzoni e d’ età novella quei figli e nipoti. Temo poi non abbia riuscito del paro a tòr l’odio del misfatto dall’Arcivescovo; il quale, podestà o no, era certo potentissimo tuttavia in Pisa, e fu poi chiamato in Curia Romana a renderne conto, e non si sa se ne fosse condannato od assolto. Ad ogni modo, con questa più o meno grande esattezza di particolari, Dante il giovane poeta riceveva dalle voci dell’Italia indegnata, e di Firenze che presto si mosse a vendetta, questo fatto scandaloso anche a quei tempi; e ricevevalo nell’animo guelfo, epperciò pietoso verso [p. 136 modifica]Ugolino, inasprito contra l’Arcivescovo. Ogni uomo sa come maturata tale impressione si manifestasse poi in quella narrazione immortale , la più distesa e la più terribile fra quante facesse nel Poema. Ma per ciò appunto, che ella è saputa a memoria da tutti in Italia, noi qui la ometteremo.
E s’affollavano allora intorno a Dante i personaggi de’ suoi canti futuri. Morto fin dal 1285 Carlo I d’Angiò re di Puglia, eragli succeduto di nome il figliuol suo Carlo Novello, o il Secondo; ma non di fatto, sendo egli da più anni prigione del suo rivale, il re di Aragona. Seguirono negoziati varii, per cui finalmente ei fu liberato alla fine del 1288; e passando per Parigi, s’avviò quindi a Italia, e fu a Firenze addì 2 di maggio di quest’anno 1289. Era con esso il figliuolo primogenito di lui e di Maria d’Ungheria, Carlo Martello, che ebbe poi per eredità della madre il regno d’Ungheria, ma non giunse, morendo prima, a redar quello del padre. Con questo [p. 137 modifica]giovane, quantunque brevissimamente fermatosi in Firenze, pare che fin d’allora strignesse Dante una amicizia, che cresciuta poi probabilmente nelle sue ambascerie a Napoli, fu ad ogni modo più tenera e più costante, che non suole tra principi e privati. E spento il principe poi, era cantato dal Poeta con un amore, un rincrescimento, e una fiducia negli sperati benefizj, che onorano amendue, e infuturano il giovane principe più che non fanno la potenza e le imprese politiche di lui. Colloca Dante l’amico in Paradiso tra gli spiriti innamorati, e cantanti l’Osanna nel cielo di Venere; e così a sè stesso là giunto l’introduce, con questi versi pieni di serenità celestiale:

Indi si fece l’un più presso a noi,
E solo incominciò: tutti sem presti
Al tuo piacer, perchè di noi li gioi.

Noi ci volgiam co’ Principi celesti,
D’un giro e d’un girare e d’una sete,
A’ quali tu nel mondo già dicesti:

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Voi che intendendo il terzo ciel movete;
E sem si pien d’ amor, che per piacerti
Non fia men dolce un poco di quiete.

Ma, a malgrado dell’antica famigliarità, non riconosciuto da Dante, e dimandato chi sia, continua:

il mondo m’ebbe

Giù poco tempo; e se più fosse stato,
Molto sarà di mal che non sarebbe.

La mia letizia mi ti tien celato,
Che mi raggia d’intorno e mi nasconde,
Quasi animai di sua seta fasciato.

Assai m’amasti, ed avesti ben onde;
Che s’io fossi giù stato, io ti mostrava
Di mio amor più oltre che le fronde.

Quella sinistra riva che si lava
Di Rodano, poi ch’è misto con Sorga,
Per suo signore a tempo m’ aspettava;

E quel corno d’ Ausonia che s’imborga
Di Bari, di Gaeta e di Crotona,
Da onde Tronto e Verde in mare sgorga.

Fulgeami già in fronte la corona

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Di quella terra che ’l Danubio riga
Poi che le ripe tedesche abbandona;

E la bella Trinacria, che caliga,
Tra Pachino e Pelero, sopra ’l golfo
Che riceve da Euro maggior briga,

Non per Tifeo, ma per nascente solfo,
Attesi avrebbe li suoi regi ancora
Nati per me di Carlo e di Ridolfo;

Se mala signoria, che sempre accora ec.:

PARAD, VIII. 31-73.

e segue quel cenno che recammo de’ Vespri di Sicilia. Giovane gentile e di liete speranze, quale ci è qui dipinto Carlo Martello, non è meraviglia che cercasse a conoscere, nè che conosciuto amasse Dante, giovane non dissimile da lui, e certo allora dei primi di Firenze. Di tre soli giorni fuvvi allora la dimora dei due Angioini. Ma partitine appena, venne nuova in città, apparecchiarsi i Ghibellini d’Arezzo a troncar loro la via in sulle terre di Siena; onde che i Fiorentini accorsero con ottocento cavalli e tremila pedoni ad accompagnarli, nè quei d’Arezzo ardirono più uscire all’incontro. Ebbe [p. 140 modifica]il Re molto per bene questo così subito e non richiesto soccorso de’ Fiorentini; e proseguendo suo cammino al Papa, da cui poscia fu incoronato, lasciò loro Amerigo da Narbona, un suo cavaliero, per capitano all’impresa che stavano per fare contro Arezzo. Che Dante fosse a quella scórta del principe, suo amico nuovo, è molto probabile; e tanto più, che ei fu certo all’impresa che seguì immediatamente.
Arezzo, Guelfa come il rimanente di Toscana fino al 1287, s’era in quell’anno rivolta a Ghibellina, per opera anche essa del suo vescovo Guglielmino di Ubertino de’ Pazzi, il quale v’avea fatto capitano di guerra Buonconte di Montefeltro, figlio di quel Guido che vedemmo Podestà Ghibellino di Pisa. Arezzo n’era diventata capo di parte Ghibellina in quel lato di Toscana, e fino in Romagna; e, secondo il costume, i Guelfi uscitine, eran venuti per ajuti a Firenze. Dove assai deliberòssi prima, se avesse a farsi l’impresa; [p. 141 modifica]poi, per qual via; e si vinse per quella del Casentino. "Fatta tal deliberazione, i Fiorentini accolsono l’amistà, che feciono i Bolognesi con dugento cavalli; Lucchesi con dugento; Pistojesi con dugento: de’ quali fu capitano messer Corso Donati cavaliere fiorentino; o Mainatilo da Susinana con venti cavalli, e trecento fanti a pie; messere Malpiglio Ciccioni con venticinque; e messere Barone Mangiadori da San Miniato gli Squarcialupi, e i Colligiani, e altre castella di Valdelsa: si che fu il numero cavalli mille trecento, e assai pedoni.
"Mossono le insegne al giorno ordinato i Fiorentini, per andare in terra di nimici; e passarono per Casentino per male vie, ove se avessono trovati i nimici, arebbono ricevuto assai danno. Ma non volle Dio; e giunsono presso a Bibbiena, a uno luogo si chiama Campaldino, dove erano i nimici; e quivi si fermarono e faciono una schiera. I capitani della guerra misono i feditori alla fronte della schiera; e i Palvesi, col campo bianco e giglio vermiglio, furono attellati dinanzi. Allora il Vescovo, che avea [p. 142 modifica]corta vista, domandò: Quelle, che mura sono? fugli risposto: i Palvesi de’ nimici."
"Messer Barone de’ Mangiadori da Samminiato, franco et esperto cavaliere in fatti d’arme, raunati gli uomini d’arme, disse loro: Signori! le guerre di Toscana si solevano vincere per bene assalire, e non duravano, e pochi huomini vi moriano, ché non era in uso di ucciderli. Ora è mutato modo, e vinconsi per stare bene fermi; il perché io vi consiglio, che voi stiate forti, e lasciateli assalire. E cosi disposono di fare. Gli Aretini assalirono il campo sì vigorosamente e con tanta forza, che la schiera de’ Fiorentini forte rinculò. La battaglia fu molto aspra e dura. Cavalieri novelli vi s’erano fatti dall’una parte e dall’altra. Messer Corso Donati con la brigata de’ Pistoiesi fedì i nimici per costa. Le quadrella piovevano. Gli Aretini n’avean poche, et erano fediti per costa, onde erano scoperti. L’aria era coperta di nuvoli, la polvere era grandissima. I pedoni degli Aretini si mettevano carpone sotto i ventri de’ cavalli con le coltella in mano , e sbudellavangli: e de’ loro feditori trascorsono tanto, che [p. 143 modifica]nel mezzo della schiera furono morti molti di ciascuna parte, e molti quel dì, che erano stimati di grande prodezza, furono vili; e molti, di cui non si parlava, furono stimati. Assai pregio v’ebbe il Balio del Capitano, e fuvvi morto. Fu ferito messer Bindo del Baschiera Tosinghi; e così tornò a Firenze, ma fra pochi dì morì. Della parte de’nimici fu morto il Vescovo, e messer Guglielmo de’ Pazzi franco cavaliere, Bonconte e Loccio da Montefeltri, e altri valenti uomimi. Il conte Guido non aspettò il fine, ma senza dare colpo di spada, si partì. Molto bene provò messer Vieri de’Cerchi, e uno suo figliuolo cavaliere alla costa di sè. Furono rotti gli Aretini, non per viltà nè per poca prodezza; ma per lo soperchio de’ nimici furono messi in caccia, uccidendoli. I soldati fiorentini, che erano usi alle sconfitte, gli ammazzavano; i villani non aveano pietà. Messer Talano Adimari e i suoi si tornarono presto a loro stanza. Molti popolani di Firenze che aveano cavallate, stettono fermi; molti niente seppono, se non quando i nimici furon rotti. Non corsono ad Arezzo con la vittoria, che si sperava con poca fatica l’arebbono avuta. Al [p. 144 modifica]Capitano, e a’ giovani cavalieri, che aveano bisogno di riposo, parve avere assai fatto di vincere, sanza perseguitarli. Più insegne ebbono di loro nimici, e molti prigioni; e molti n’uccisono, che ne fu danno per tutta Toscana. Fu la detta rotta a di 11 di giugno 1289, il dì di San Barnaba, in uno luogo, che si chiama Campaldino presso a Poppi.5"
Spero che i miei lettori non mi sapranno mal grado, trattandosi del primo o maggior fatto d’arme ove siasi mai trovato Dante, d’aver loro recata la descrizione cosi viva del Compagni. 11 Villani narra in modo concorde questa battaglia, e la dice la più ordinatamente combattuta, che sia stata a quei tempi in Italia. E su messer Vieri de’ Cerchi, e messer Corso Donati, che pur in Dino si vedono aver portato il vanto della giornata, aggiungne altri particolari importanti per il séguito di nostra storia, di che questi due sono, dopo Dante, le persone principali. Era costume di quelle osti, dove il valor personale potea tanto più che non ora, fare ingaggiar la battaglia da alcuni guerrieri, che dicevansi feditori, ed erano scelti [p. 145 modifica]da’ Capitani d’ogni sesto della città. Centocinquanta se ne fecero, "Ed essendo messer Vieri de’ Cerchi de’ Capitani, et malato di sua gamba, non lasciò però, che non fosse de’ feditori. a Et convenendoli eleggere per lo suo sesto, nullo volle di ciò gravare più che volesse di sua volontà; ma elesse sé e ’l fogliuolo e’ nepoti. La qual cosa li fu messa in grande pregio; et per suo bono esemplo, et per vergogna molti altri nobili cittadini si missono tra’ feditori6. Messer Corso Donati poi, che era allora podestà di Pistoja, avea sotto di sé, oltre i Pislojesi, anche i Lucchesi, ed altri forestieri in riserva, e con "comandamento di star fermo e non fedire, sotto pena della testa". Ma "a quando vide cominciata la battaglia, disse, come valente cavaliere: Se noi perdiamo, io voglio morire nella battaglia co’miei cittadini; et se noi vinciamo, chi mi vuole, vegna a noi a Pistoia per la condannazione; et francamente si mosse con sua schiera, et fedio i nimici per costa, et fu [p. 146 modifica]grave cagione della loro rotta"20. Certo, ad ogni buon estimatore parrà qui il fatto di messer Vieri militarmente e civilmente più virtuoso, che non quello di messer Corso. Ma notinsi i due, come primo segno d’una emulazione, bella allora ed utile, in breve viziosa e perniciosissima alla patria, e per colpa principalmente della medesima tracotanza di messer Corso. Qual parte poi prendesse Dante in questa battaglia, è accennato da Leonardo Aretino; il quale, narrato quel conversare e vivere di Dante negli esercizi giovanili, continua dicendo: "Intantochè, in quella battaglia memorabile che fu a Campaldino, lui giovane e bene stimato si trovò nell’armi, combattendo vigorosamente a cavallo nella prima schiera, dove portò gravissimo pericolo. Perocché la prima battaglia fu delle schiere equestri; nella quale i cavalieri che erano dalla parte delli Aretini, con tanta tempesta vinsero e superchiarono la schiera de’ cavalieri Fiorentini, che, sbarattati e rotti, bisognò fuggire alla schiera pedestre. Questa rotta fu quella che

(20) Vill. ibi [p. 147 modifica]perdere la battaglia alii Aretini, perché i loro cavalieri vincitori perseguitando quelli che fuggivano, per grande distanza lasciarono addietro la loro pedestre schiera; sicché da quindi innanzi in niun luogo interi combatterono, ma i cavalieri soli e di per sé senza sussidio di pedoni, e i pedoni poi di per sé senza sussidio de’cavalieri. Ma dalla » parte de’ Fiorentini addivenne il contrario; che, per essere fuggiti i loro cavalieri alla schiera pedestre, si ferono » tutti un corpo, e agevolmente vinsero prima i cavalieri, e poi i pedoni. Questa battaglia racconta Dante in una » sua epistola, e dice esservi stato a combattere, e disegna la forma della battaglia. E più giù reca le parole stesse di Dante in questa o in altra epistola, dove, parlando del suo priorato dell’anno 1300, dice: "Dieci anni erano già passati dalla battaglia di Campaldino, nella quale la parte Ghibellina fu quasi al tutto morta e disfatta; dove mi trovai non fanciullo nell’armi, e dove ebbi temenza molta, e nella fine grandissima allegrezza per li varii casi di quella battaglia". [p. 148 modifica]Dove è a notare, che se la epistola certamente latina di Dante è qui ben tradotta, chiaro è, che non fu’ questo il primo fatto d’arme in che si trovasse. Ad ogni modo, vedesi che Dante fu della schiera di messer Vieri de’Cerchi, cioè di quei feditori che questi non volle disegnare, ma s’offerirono eglino volontarii. E dopo tal atto, tanto più bella parrà quella confessione così semplice della temenza molta che ebbe al principio, e della allegrezza in fine della giornata. Gran differenza, per vero dire (e fu già osservato), tra Orazio e Dante poeti. Benché, ingiurioso è ogni paragone tra quel poeta cortigiano e racconciator di sua vita epicurea appresso al vincitore, e il poeta cittadino,

Ben tetragono ai colpi di ventura,

PARAD. XVII. 24.

ed alle prepotenze della patria ingrata.
Una reminiscenza di questa battaglia trovasi nel Purgatorio. Vedemmo ucciso il capitano degli Aretini Buonconte di Montefeltro. Caduto trafitto in Arno, il corpo di lui non si trovò più; e come ciò avvenisse, lo fa Dante immaginosamente narrare da Buonconte stesso. Dante [p. 149 modifica]interroga prima:

Qual forza o qual ventura
Ti traviò si fuor di Campaldino,
Che non si seppe mai tua sepoltura?

Oh, rispos’egli, appiè del Casentine
Traversa un’ acqua eh’ ha nome l’Archiano,
Che sovra l’Ermo nasce in Apennino.

Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano,
Arriva’ io, forato nella gola,
Fuggendo a piedi, e sanguinando ’l piano.

Quivi perdei la vista, e la parola
Nel nome di Maria finì; e quivi
Caddi, e rimase la mia carne sola.

Io dirò ’l vero, e tu ’l ridi’ tra i vivi:
L’Angel di Dio mi prese, e quel d’Inferno
Gridava: o tu dal Ciel, perché mi privi?

Tu te ne porti di costui l’eterno,
Per una lagrimetta che ’l mi toglie;
Ma io farò dell’altro altro governo.

Ben sai come nell’aere si raccoglie
Quell’umido vapor che in acqua riede,
Tosto che sale dove ’l freddo il coglie.

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Giunse quel, mal voler, che pur mal chiede,
Con lo ’ntelletto, e mosse ’l fumo e ’l vento
Per la virtù che sua natura diede.

Indi la valle, come ’l di fu spento,
Da Pratomagno al gran giogo coperse
Di nebbia, e ’l ciel di sopra fece intento

Sì, che ’l pregno aere in acqua si converse:
La pioggia cadde, e ai fossati venne
Di lei ciò che la terra non sofferse:

E come ai rivi grandi si convenne,
Ver lo fiume real, tanto veloce
Si ruinò, che nulla la ritenne.

Lo corpo mio gelato in su la foce
Trovò l’Archian rubesto, e quel sospinse
Nell’Arno, e sciolse al mio petto la croce

Ch’io fei di me7 quando ’l dolor mi vinse:
Voltòmmi per le coste, e per lo fondo;
Poi di sua preda mi coperse e cinse.

PURG. V. 91-130.

Tornati i Fiorentini a casa, secondo la condizione di quei tempi, che non concedevano guari di profittare della vittoria, si rivolsero [p. 151 modifica]in agosto del medesimo anno, insieme co’ Lucchesi, e con tutta la Taglia o lega de’ Guelfi di Toscana, contro a Pisa. Erano 400 cavalli e 2000 pedoni; guastarono le terre; furono fino alle mura della città; fécervi correr un pallio il di di San Regolo, festa de’ Lucchesi; e stativi 25 dì, si ritrassero poi assalendo e prendendo, solo frutto dell’impresa, il castello di Caprona8. E Dante fu a ciò pure; e rammenta l’uscita del presidio vinto e sbigottito tra’ vincitori, in quel luogo dell’Inferno dove trovandosi egli in mezzo ai demonii, e di essi temendo, aggiugne:

E cosi vid’io già temer li fanti,
Ch’uscivan patteggiati di Caprona,
Veggendo sé tra nemici cotanti9.

INF. XXI. 94-97. [p. 152 modifica]


Né questi furono forse i soli versi ispirati a Dante da quell’impresa di tutti i vicini Toscani còntra Pisa fumante ancor del sangue de’ Gherardeschi. Già fu osservato da altri10: tutto il canto di Ugolino sembra quasi un canto di guerra; ed è certo d’imprecazioni contro a quella città, concepito o durante quell’impresa còntra essa, o per isdegno, al vedervi ir lenti e contentarvisi di sì poco frutto i collegati Toscani. Ma, o non fu scritto allora, o il fu in altra lingua ed altra forma. Ragunavansi nell’animo giovanile i soggetti di poesia; ma vi rimasero taciti probabilmente allora ed a lungo, per uscirne poi tanto più fortemente espressi. E pochi mesi dopo la morte d’Ugolino, pochi giorni dopo la presa di Caprona, gli fu dato il secondo dei due tèmi rimasti più popolari fra quanti ei ne cantò poi.
Nell’oste fiorentina, all’impresa contro Arezzo, e cosi forse anche a quella che segui immediatamente contra Pisa, era Bernardino da Polenta, cognito cosi certamente a Dante11. Bernardino [p. 153 modifica]era figliuolo di Guido da Polenta, cittadino principale, signore o tiranno di Ravenna. E figliuola pure a Guido, sorella a Bernardino, era la gentile Francesca, data dodici anni prima in isposa a Giovanni figliuol primogenito di Malatesta da Verrucchio, un potente signor Guelfo, già vicario di re Carlo a Firenze, e allora podestà di Rimini. Ma Giovanni era di que’ giovani più buoni tra uomini che tra donne; ardito ed attivo in quelle parti e quelle ambizioni, onde spera vasi succedesse alla potenza paterna; ma zoppo, mal concio e mal curante della persona, onde chiamato Giovanni lo zoppo, Gian-Ciotto, e Giovanni lo sciancato, sembra che mai non piacesse alla fanciulla. A farlo piacere anche meno, s’aggiungeva l’aver esso un fratello, chiamato Paolo, giovane, dice Benvenuto, bello della persona, e pulito, e più dato all’ozio, che alla fatica; tutto l’opposto, come si vede, del fratello. Presersi quindi d’amore i due cognati, o dopo, o forse anche prima delle nozze; trovandosi narrato dal Boccaccio, essere [p. 154 modifica]stato mandato il bel Paolo invece dello sciancato Giovanni a corteggiar Francesca novizza, ed ignara dello scambio fino al mattino dopo le nozze compiute12. Ad ogni modo, moglie ora da dodici anni, madre già di un figliuolo perduto e di una figlia sopravvivente, era Francesca, nel 1289, col marito Gianciotto e il bel cognato e lo suocero, da due anni cacciati tutti da Rimini, a Pesaro. Ed ivi, ajutata dagli ozii dell’esilio, o incominciava o continuava la dimestichezza de’ due cognati, che Boccaccio sembra voler iscusare dall’ultimo fallo. Ma rinchiusi insieme una volta, furono traditi da un servo, che condusse a spiarli il marito. Il quale, sforzato l’uscio, e insieme trovandoli, insieme gli ammazzò (addi 4 settembre 1289). Ed insieme poscia, restituiti in Rimini i Malatesta, furono i due corpi là riportati, insieme sepolti, insieme due secoli dopo ritrovati, intere ancora le loro seriche vesti; e insieme cantati e immortalati da Dante. Per la medesima ragione, poi, che di Ugolino, non metteremo qui il canto di Francesca, pur [p. 155 modifica]saputo in cuore da tutti. Né guasteremo le poetiche incertezze, le mezz’ombre ivi lasciate da Dante, o colla narrazione minuta (sia storia o novella) del Boccaccio, o colle discussioni di esso e d’altrui intorno alla colpa dei due amanti; né anche meno colle dispute cronologiche, troncate dal diligente e pur elegante autor del Veltro. "Ed ecco, dice questi, in sei soli mesi la sorte offerì a Dante il doppio argomento su cui poggia si alto il pregio dell’ italica lingua, e presso tutte le nazioni suonano Ugolino e Francesca13". Ma la sorte gli offerì altre volte altri argomenti non minori forse che questi due: onde si vuoi aggiugnere, che più apparecchiato fosse allor l’animo di Dante a riceverne profonde impressioni; od anzi, che le impressioni allora ricevute si facessero tanto più vive per quelle che seguirono. Che se i grandi eventi della vita tolgono talora la memoria de’più discosti, così avvivano quella dei più vicini. E già pendeva su Dante la grande sventura della vita sua.


Note

  1. Leon. Aret., p.59
  2. Id., pag.50
  3. Id., pag.52
  4. Veltro Alleg. , pp. 26, 27; Leo IV, 38.
  5. Dino Comp., Rer. It., pp. 473, 474.
  6. Vill., p. 327.
  7. Componendo le braccia in croce sul petto. - Ogni verso è immagine.
  8. G. Villani, p. 333.
  9. Chi voglia veder una interpretazione imbrogliata per trascuranza di ricerche storiche, vegga il commento del Landino ai versi presenti. L’editore della Minerva corregge sì il Landino col Venturi; ma perchè correggerlo? meglio era non metterlo - Non è a dire quanto si accorcerebbero i commenti, se invece di combattere, si scartassero gli errori evidenti; se invece di voler far pompa di fatica e d’erudizione, si ponesse solo ciò che può giovare a piacere ai leggitori, se, in somma, a questi, anzichè a sè, si pensasse.
  10. Veltro Alleg.
  11. Veltro, pag.32, dove Bernardino è detto Capitano de’ Pistojesi. Che se così fu, ei dovette partecipare al comando di questi, che gli storici fiorentini danno tutto a messer Corso Donati Podestà.
  12. Ed. Min., Tom. I., p. 125.
  13. Veltro, p.33; - Ed. Minerva, Tom. I, p. 127. - E si vegga Teofilo Betti, Memorie inedite per la Storia Pesarese.

Note