Vita (Alfieri, 1804)/Epoca II./Cap. II.

Cap. II. Primi Studj pedanteschi, e mal fatti

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Cap. II. Primi Studj pedanteschi, e mal fatti
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[p. 45 modifica] la sfrenata e insultante libertà di quegli altri; 1758 durissimo paragone colla severità del nostro sistema, che chiamavamo andantemente Galera. Chi fece quella distribuzione era uno stolido, e non conosceva punto il cuore dell’uomo; non si accorgendo della funesta influenza che doveva avere in quei giovani animi quella continua vista di tanti proibiti pomi.


CAPITOLO SECONDO.


Primi studj, pedanteschi, e mal fatti.


Io era dunque collocato nel Terzo Appartamento, 1759 nella Camerata detta di mezzo; affi-, dato alla guardia di quel servitore Andrea, che trovatosi così padrone di me senza avere nè la madre, nè lo zio, nè altro mio parente che Io frenasse, diventò un diavolo scatenato. Costui dunque mi tiranneggiava per tutte le cose domestiche a suo pieno arbitrio. E così l’Assistente poi faceva di me, come degli altri tutti, nelle cose dello studio, e della condotta usuale. Il giorno dopo il mio ingresso nell’Accademia, venne da quei Professori esaminata la ia capacità negli studj, e fui giudicato per i forte Quartano, da poter facilmente in tre [p. 46 modifica]
1759 mesi di assidua applicazione entrare in Terza. Ed in fatti mi vi accinsi di assai buon animo, e conosciuta ivi per la prima volta l’utilissima gara dell’emulazione, a competenza di alcuni altri anche maggiori di me per età, ricevuto poi un nuovo esame nel Novembre, fui assunto alla Classe di Terza. Era il maestro di quella un certo Don Degiovanni; Prete, di forse minor dottrina del mio buono Ivaldi; e che aveva inoltre assai minore affetto e sollecitudine per i fatti miei, dovendo egli badare alla meglio, e badandovi alla peggio, a quindici, o sedici suoi scuolari, che tanti ne avea.

Tirandomi così innanzi in quella scoluccia, asino, fra asini, e sotto un asino,io vi spiegava il Cornelio Nipote, alcune Egloghe di Virgilio, e simili: vi si facevano certi temi sguajati e sciocchissimi; talché in ogni altro Collegio di scuole ben dirette, quella sarebbe stata al più più una pessima Quarta. Io non era mai l’ultimo fra i compagni; l’emulazione mi spronava finché avessi o superato o agguagliato quel giovine che passava per il primo; ma pervenuto poi io al primato, tosto mi rintiepidivaecadea nel torpore. Ed era io forse scu sabile, in quanto nulla poteva agguagliarsi alh noja e insipidità di così fatti studj. Si [p. 47 modifica]
traducevano le Vite di Cornelio Nipote, ma nessuno 1759 di noi, e forse neppure il maestro, sapeva chi si fossero stati quegli Uomini di cui si traducevan le Vite, nè dove fossero i loro paesi,nè in quali tempi nè in quali governi vivessero, nè rosa si fosse un governo qualunque. Tutte le idee erano 0 circoscritte, o false, o confuse; nessuno scopo in chi insegnava; nessunissimo allettamento in dii imparava. Erano in somma dei vergognosissimi perdigiorni; non c’invigilando nessuno; 0 chi lo faceva, nulla intendendovi. Ed ecco in qual modo si viene a tradire senza rimedio la gioventù.

Passato quasi che tutto l’anno 1759 in simili studj, verso il Novembre fui promosso all’Umanità. Il maestro di essa. Don Amatis, era un Prete di molto ingegno e sagacità, e di sufficiente dottrina. Sotto di questo, io feci assai maggior profitto; e per quanto quel metodo di mal intesi studj lo comportasse,mi rinforzai bastantemente nella lingua Latina. L’emulazione misi accrebbe, per l’incontro di un giovine che competeva con me nel fare il Tema, ed alcuna volta mi superava; ipa vieppiù >oi mi vinceva sempre negli esercizi della meloria, recitando egli sino a 600 versi delle ieorgichedi Virgilio d’un fiato,senza

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1759 sbagliare una sillaba, e non potendo io arrivare nep pure a 400, ed anche non bene; cosa, di cui mi angustiava moltissimo. E per quanto mi vo ora ricordando dei moti del mio animo in quelle battaglie puerili,mi pare che la mia indole non fosse di cattiva natura;perchè nell’atto dell’esser vinto da quei dugento versi di più, io mi sentiva bensì soffocar dalla collera, e spesso prorompeva in un dirottissimo pianto, e talvolta anche in atrocissime ingiurie contro al rivale; ma pure poi, o sia ch’egli si fosse migliore di me, o ch’io mi placassi non so come, essendo noi di forza di mano uguali all’incirca, non ci disputavamo però quasi mai, e sul totale eramo quasi amici. Io credo, che la mia non piccola ambizioncella ritrovasse consolazione e compenso dell’inferiorità della memoria, nel premio del Tema, che quasi sempre era mio; ed inoltre, io non gli poteva portar odio, perchè egli era bellissimo; ed io,anche senza secondi fini, sempre sono stato assai propenso per la bellezza, si degli animali che degli uomini, e d’ogni cosa; a segno che la bellezza per alcun tempo nella mia mente preoccupa il giudizio, e pregiudica spesso al vero.

In tutto quell’anno dell’Umanità,! miei costumi si conservarono’ ancora innocenti e [p. 49 modifica]
purissimi; se non in quanto la Natura da se 1759 stessa, senza ch’io nulla sapessi, me li andava pure sturbando. Mi capitò in quell’anno alle mani, e non mi posso ricordare il come, un Ariosto, ropere tutte in quattro tometti. Non Io comprai certo, perchè danari non avea; non lo rubai, perchè delle cose rubate ho conservata memoria vivissima:ho un certo barlume, che lo acquistassi ad un tomo per volta per via di baratto da un altro compagno, che Io scambiasse meco col pollo che ci era dato per lo più ogni Domenica, un mezzo a ciascunp; sicché il mio primo Ariosto mi sarebbe costalo la privazione di un par di polli in quattro settimane. Ma tutto questo non Io posso accertare a me stesso per l’appunto. E mi spiace; perchè avrei caro di sapere se io ho bevuto i primi primi sorsi di Poesia a spese dello stomaco, digiunando del miglior boccone che ci toccasse mai. E non era questo il solo baratto ch’io mi facessi, perchè quel benedetto semipollo Domenicale, io mi ricordo benissimo di nonio aver mangiato mai perdei se’mesi continui, perchè lo avea pattuito in iscambio di certe ~ rie che ci raccontava un certo Lignana, il le essendo un divoratore, aguzzavasi l’indo per ritondarei la pancia; e non [p. 50 modifica]
1759 ammetteva ascoltatori dei suoi racconti, se non se a retribuzione di vettovaglie. Comunque accadesse dunque questa mia acquisizione, io m’ebbi un Ariosto. Lo andava leggendo quà e là senza metodo, e non intendeva neppur per metà quel ch’io leggeva. Si giudichi da ciò quali dovessero essere quegli studj da me fatti fino’a quel punto; poiché io, il principe di codesti Umanisti, che traduceva pur le Georgiche, assai più difficili dell’Eneide, in prosa Italiana, era imbrogliato d’intendere il più facile dei nostri Poeti. Sempre mi ricor’derò, che nel Canto d’Alcina, a quei bellissimi passi che descrivono la di lei bellezza io mi andava facendo tutto intelletto per capir bene; ma troppi dati mi mancavano di ogni genere per arrivarci. Onde i due ultimi versi di quella Stanza,

          „Non così strettamente edera preme,”

non mi era mai possibile d’intenderli; e tenevamo consiglio col mio competitore di scuola, che non li penetrava niente più di me, e ci perdevamo in un mare di congetture. Questa furtiva lettura e commento su l’Ariosto finì, che l’Assistente essendosi avvisto che andava per le mani nostre un libruccio il quale veniva immediatamente occultato al di lui apparire,