Vita (Alfieri, 1804)/Epoca I./Cap. III.

Cap. III. Primi sintomi di un carattere appassionato

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Cap. III. Primi sintomi di un carattere appassionato
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CAPITOLO TERZO.


Primi sintomi di un carattere appassionato


Ma qui mi occorre di notare un’altra particolarità 1755assai strana, quanto allo sviluppo delle mie facoltà amatorie. La privazione della sorella mi avea lasciato addolorato per lungo tempo, e molto più serio in appresso. Le mie visite a quell' amata sorella erano sempre andate diradando, perchè essendo sotto il maestro, e dovendo attendere allo studio, mi si concedeano solamente nei giorni di vacanza o di festa, e non sempre. Una tal quale consolazione di quella mia solitudine mi si era andata facendo sentire a poco a poco nell’assuefarmi ad andare ogni giorno alla Chiesa del Carmine attigua alla nostra casa; e di sentirvi spesso della musica, e di vedervi uffiziare quei Frati, e far tutte le ceremonie della messa cantata, processione, e simili. In capo a più mesi non pensavo più tanto alla sorella; ed in capo a più altri, non ci pensava quasi più niente, e non desiderava altro che di essere condotto mattina e giorno al Carmine. Ed eccone la [p. 20 modifica]
1755 ragione. Dal viso di mia sorella in poi, la quale avea circa nov’anni quando usci di casa, io non aveva più veduto usualmente altro viso di ragazza nè di giovane, fuorchè certi Fraticelli novizj del Carmine, che potevano avere tra i quattordici e sedici anni all’incirca, i quali coi loro roccetti assistevano alle diverse funzioni di Chiesa. Questi loro visi giovenili, e non dissimili dà’visi donneschi, aveano lasciato nel mio tenero ed inesperto cuore a un di presso quella stessa traccia e quel medesimo desiderio di loro, che mi vi avea già impresso il viso della sorella. E questo in somma, sotto tanti e si diversi aspetti, era amore; come poi pienamente conobbi e me ne accertai parecchi anni dopo, riflettendovi su; perchè di quanto io allora sentissi o facessi nulla affatto sapeva, ed obbediva al puro istinto animale. Ma questo mio innocente amore per que’Novizj, giunse tant’oltre, che io sempre pensava ad essi ed alle loro diverse funzioni; Ora mi si rappresentavano nella fantasia coi loro devoti ceri in mano, servienti la Messa con viso compunto ed angelico; ora coi turiboli incensando l’altare; e tutto assorto in codeste imagini, trascurava i miei studj ed ogni occupazione, o compagnia mi nojava. Un giorno fra gli altri, stando fuori di casa [p. 21 modifica]
il maestro, trovatomi solo in camera, cercai 1755 ne’due Vocabolari Latino e Italiano l’articolo Frati; e cassata in ambidue quella parola, vi scrissi Padri; così credendomi di nobilitare, o che so io d’altro, quei Novizietti ch’io vedeva ogni giorno, con nessun dei quali avea però mai favellato, e da cui non sapeva assolutamente quello ch’io mi volessi. L’aver sentito alcune volte con qualche disprezzo articolare la parola Frate, e con rispetto ed amore quella di Padre, erano le sole cagioni per cui m’indussi a correggere quei Dizionarj; e codeste correzioni fatte anche grossolanamente col temperino e la penna, le nascosi poi sempre con gran sollecitudine e timore al maestro, il quale non se ne dubitando, nè a tal cosa certamente pensando, non se n’avvide poi mai. Chiunque vorrà riflettere alquanto su quest’inezia, e rintracciarvi il seme delle passioni dell’uomo, non la troverà forse nè tanto risibile nè tanto puerile, quanto ella pare.

Da questi si fatti effetti d’Amore ignoto 1756 intieramente a me stesso, ma pure tanto operante nella mia fantasia, nasceva, per quanto ora credo, quell’ umor malinconico, che a poco a poco si insignoriva di me, e dominava poi sempre su tutte le altre qualità dell’indole mia.

Alfieri, Vita. Vol. I [p. 22 modifica]
1756 Tra i sette ed ott’anni, trovandomi un giorno in queste disposizioni malinconiche, occasionate forse anche dalla salute che era gracile anzi che no, visto uscire il maestro, e il servitore, corsi fuori del mio salotto che posto a terreno riusciva in un secondo cortile dove eravi intorno intorno molt’erba. E tosto mi posi a strapparne colle mani quanta ne veniva, e ponendomela in bocca a masticarne e ingojarne quanta più ne poteva, malgrado il sapore ostico ed amarissimo. Io avea sentito dire non so da chi, nè come, nè quando, che v’era un’erba detta cicuta che avvelenava e faceva morire; io non avea mai fatto pensiero di voler morire, e poco sapea quel che il morire si fosse; eppure seguendo così un non so quale istinto naturale misto di un dolore di cui m’era ignota la fonte, mi spinsi avidissimamente a mangiar di quell'erba, figurandomi che in essa vi dovesse anco essere della cicuta. Ma ributtato poi dalla insopportabile amarezza e crudità di un tal pascolo, e sentendomi provocato a dare di stomaco, fuggii nell’annesso giardino,dove non veduto da chi che sia mi liberai quasi interamente da tutta l’erba ingojata; e tornatomene in camera me ne rimasi soletto e tacito con qualche doloruzzo di stomaco e di corpo. [p. 23 modifica] Tornò frattanto il maestro, che di nulla si avvide, 1756 ed io nulla dissi. Poco dopo si dovè andar in tavola, e mia madre vedendomi gli occhi gonfi e rossi, come sogliono rimanere-dopo gli sforzi del vomito, domandò, insistendo, e volle assolutamente saper quel che fosse; ed oltre i comandi della madre mi andavano anche sempre più punzecchiando i dolori di corpo, si ch’io non potea punto mangiare, e parlar non voleva. Onde io sempre duro a tacere,.ed a vedere di non mi scontorcere, la madre sempre dura ad interrogare e minacciarmi; finalmente osservandomi essa ben bene, e vedeudonii in atto di patire, e poi le labbra verdicce, che io non avea pensato di risciacquarmele, spaventatasi molto ad un tratto si alza, si approssima a me, mi parla dell’insolito color delle labbra, m’incalza e sforza a rispondere, finché vinto dal timore e dolore io tutto con, fesso piangendo. Mi vien dato subito un qualche leggiero rimedio, e nessun altro male ne segue, fuorché per più giorni fui rinchiuso in camera per gastigo; e quipdi nuovo pascolo e fomento all’umor malinconico.