Verona illustrata/Parte prima/Libro sesto

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DELL’ISTORIA

DI

VERONA




LIBRO SESTO


Il compimento della perfetta cittadinanza Romana consistea nel gius degli onori. Furon popoli ch’ebbero anche il gius di dar voto; ma non però furono ammessi alle dignità, nè fatti capaci di sostenere in Roma i Magistrati. Che tal diritto a queste nostre città e colonie comunicato fosse, e che dentro l’ottavo secolo di Roma già lo godessero, si riconosce in Tacito (Ann. lib. 11: primores Galliae, quae Comata appellatur); poichè desiderando alcuni principali uomini della Gallia Chiomata, che avean già la cittadinanza, anche il gius degli onori e l’accesso in Senato, si opposero alcuni Senatori, dicendo esser ben bastante che la Curia fosse stata invasa da’ Veneti e dagl’Insubri, e non doversi ora accomunare anche agli stranieri l’insegne de’ Padri, e lo splendore de’ Magistrati (quod Veneti, et Insubres Curiani inruperint, nisi caetus alienigenarum, ec.). Fu allora che l’Imperador Claudio perorando a favor de’ Galli, gli fece ottenere [p. 185 modifica]quanto bramavano, col rappresentare in Senato, per testimonio di Tacito, che da’ suoi antenati di Sabina origine, e aggregati a’ Patrizj Romani, egli avea appreso di trasportare a Roma gli uomini insigni ed eccellenti dell’altre parti; che ruina de’ lacedemoni e degli Ateniesi fu l’allontanare dalle lor Republiche i vinti, come forastieri, e salute della Romana l’esempio dato già fin da Romolo d’aver gli stessi in un giorno prima nimici, poi cittadini; che i lor Maggiori avean prima comunicato il Senato a molti d’ogni parte d’Italia fino all’Alpi, e fatto in modo che non già le persone in particolare, ma le intere genti diventassero una cosa sola co’ Romani: e finalmente che la quiete interna non fu mai stabile, nè te forze contra gli esterni ben floride, se non quando alla cittadinanza ammessi furono i Traspadani. Questi sentimenti, degni d’esser perpetua norma ai più gloriosi e meglio regolati dominii, espresse il Politico a modo suo e col suo stile: ma buona parte dell’istessa orazione allor pronunziata, e ristesse parole dell’Imperadore si conservano pur ancora intagliate in metallo, e si posson leggere in Grutero. Espone l’Imperadore fra l’altre cose, non doversi rigettare tale aggregazione per esser cosa nuova, poichè molte novità erano anche ne’ passati secoli state abbracciate di tempo in tempo (pag. 502: ne quasi novam istam rem introduci exhorrescatis). D’un certo solamente si duole, il quale irregolarmente avea trovato modo di tirare in casa il consolato, avanti che dalla sua patria [p. 186 modifica]l’intera cittadinanza, che vuol dire con l’adito alle dignità, conseguito si fosse (solidum civitatis Romanae beneficium). Ma ciò che più fa al proposito nostro, ricorda Claudio che Tiberio avea già introdotto in Senato tutto il fiore delle Colonie e de’ Municipj, cioè degli uomini buoni e ricchi (omnem florem Coloniarum ac Municipiorim, bonorum scilicet virorum et locupletum): donde parrebbe essersi in tempo suo esteso il gius degli onori alle città di tal condizione, e per conseguenza a Verona.

Quel metallo che ci ha per rara sorte conservala l’orazion di Claudio in Senato, begl’insegnamenti ha reso perenni della prudenza politica dei Romani. Ne’ tempi della Republica con chiamare a Roma i migliori delle prossime città, un mirabile aggregato composero di virtù e di prudenza. Senza questa massima non potrebbe tra gli altri vantar Roma il gran Cicerone, che basta da se a illustrar l’antichità tutta, e che fu il più appassionato per la libertà, e salvò la Republica dall’eccidio nella congiura di Catilina. Com’egli era nativo del municipio Arpino, così erano d’altri luoghi la maggior parte di coloro che amministravano i Magistrati; la qual cosa disse egli stesso a’ Giudici nella terza Filippica. Non credeano ancora i Romani, fuor delle massime generali, dover nell’ordine del governo servar regole inalterabili e fisse; onde non ricusarono di far qualche mutazione di tempo in tempo, adattandosi alle emergenze, perchè variando le circostanze, stimaron necessario variar condotta. Ne’ secoli [p. 187 modifica]della Republica ammisero bensì in Senato i meritevoli venuti da’ Municipi Italici, ma non però vi ammisero gli esterni ed i provinciali. Per testimonio di Plinio (lib. 5, c. 5; lib. 7, c. 43) primi degli esterni furono i due Cornelii Balbi, venuti fin dall’Oceano, siccome Gaditani, l’uno a vestire la consolar trabea, l’altro a risplendere nel cocchio trionfale per aver soggiogali i Garamanti. Però nella sua concione disse Claudio presso Tacito: ci abbiam forse a pentire che passassero qua i Balbi dalla Spagna (num poenitet Balbos ex Hispania, ec.)? In Senato cominciò Cesare ad ammetter qualche straniero. Mecenate consigliò ad Augusto, fatto capo e Principe della Republica, di tirare a Roma e di far Senatori i miglior soggetti ed i più illustri non d’Italia solamente, ma ancora de’ sozii e de’ soggetti, perchè in tal modo e si sarebbe assicuralo di coloro che poteano a’ popoli esser Capi in occasion di rivolta, e avrebbe guadagnato l’amor di tutti, participando a tutti il governo (Dio. l. 52). Suggerimento aggiunse di far cittadini generalmente i soggetti popoli; e ciò per levar loro il sospetto di volergli come servi, e perchè invigilassero alla custodia dell’Imperio come di cosa anche propria, ed acciocchè compagni veramente fedeli divenissero, e Roma riguardassero come la vera e sola città, le patrie loro quasi villaggi riputando [ὅπως ὡς οἰκείην αὐτὴν σπουδάζωσι — καὶ ταύτην μὲν ὄντως πόλιν τὰ δὲ δὴ σφέτερα ἀγροὺς καὶ κώμεις]1. [p. 188 modifica]

Il consiglio di Mecenate di far capaci anelli gli esterni del Senato, abbiam or veduto posto in pratica sotto Claudio rispetto a’ Galli. Non è da credere che senza ragionevol motivo tal novità fosse introdotta. Le nazioni barbare confinanti con l’Imperio non lasciavano d’agguerrirsi continuamente, e moltiplicando a dismisura, di andarsi rendendo ogni giorno più formidabili e più feroci. Videsi da’ più saggi, quanto coll’andar del tempo dovessero temerne i Romani. Nel mutar positura le cose, e nell'aumentar di potenza i vicini, conobbero la necessità inevitabile di crescer di forze per mantenersi. Non essendo in pronto di far conquiste, e queste ancora poco utili a ciò conoscendosi, fu pensato che si potea crescer di forze senza crescer di Stato: e ciò con interessar tutti, e con fare che non de’ nati a Roma solamente, ma fosse ugual premura di tutti il conservare a Roma l’Imperio. Considerarono che in occasion di guerra non sarebbe stato possibile difender da tanta moltitudine e conservar provincie in cui si tenessero i popoli indifferenti, e pronti ugualmente a pagar a pigione a chiunque della casa fosse per rimaner signore. Fecero però acquisto di lutti i cuori con poca spesa, ammettendo a cittadinanza i paesi in corpo; e non solamente gl’italiani, ma facendo gli esterni ancora capaci delle dignità, resero l’Imperio tutto per se [p. 189 modifica]impenetrabile, se non avessero poi reso inutile si bel trovato i disordini sopra venuti e gli errori.

In virtù del sudetto civil sistema Veronesi non mancarono che salissero in Roma ai supremi gradi. Veronese fu l’insigne poeta tragico Lucio Pomponio Secondo, come si mostrerà, ove tratteremo de’ nostri Scrittori. Questi, imperando Tiberio, fu Console sostituito; ma dopo il consolato fu da lui fatto cacciare in prigione, dove stette sett’anni interi, liberatone da Caligola subito dopo la morte di Tiberio, come s’impara da Dione (lib. 59: Κύιντος Πομπον. ἑπτὰ ὅλοις ἔτεσιν μεθ᾽ ὑπατείαν. ec.). Pare potersi ricavar da ciò, che il suo consolato cadesse nell’anno di Roma 782, anno sopra tutt’altri memorabile per la morte del Salvator nostro, secondo l’autorità di Tertulliano, di Lattanzio e di S. Agostino, in esso accaduta, e che all’un dei gemini Consoli ordinarj sostituito fosse: poichè Caligola cominciò il suo imperio nel marzo del 790, e però i sett’anni interi cominciaron nel marzo del 783. Dunque nell’anno avanti, principiato dalle feste Palilie d’aprile, avea Secondo sostenuto il consolato, terminato il quale fu messo in carcere; anzi l’avea sostenuto ne’ mesi anteriori al gennaio, deputato secondo l’uso agli ordinarj Consoli che succedettero. Vera cosa è che contrasta in quanto al tempo l’autorità di Tacito, il quale motivo della prigionia scrive fosse l’accusa d’aver Pomponio dato ne’ suoi orti ricovero ad un amico di Seiano caduto in disgrazia; per lo che di diverso parere furono in [p. 190 modifica]questa parte i Duumviri della Consolar Cronologia Panvinio e Noris, il quale ancora in una lapida si fondò, che non so quanto sia sicura: ma così fatte questioni al proposito nostro non servono. Sfuggì Pomponio la capital condanna per la costante insistenza d’un fratello che si fece suo mallevadore. Dell’equanimità con cui tollerò la fortuna aversa, e per cui sopravisse a Tiberio, e di gran pulitezza ne’ costumi, e d’illustre ingegno, dall’Istorico fu commendato (Ann. lib. 5: multa morum elegantia, et ingenio illustri). Il fratello per trattener Tiberio dall’infierire in lui, andò conciliandosi la sua grazia con le accuse, inquieto però e torbido anche per se stesso (Ann. l. 6: moribus inquietus, ec.). D’una cena data dal nostro Secondo all’Imperadore fa menzion Plinio (lib. 14, c. 4). A tempo della morte di Caligola egli era Console di nuovo, sostituito all’Imperador medesimo, che il consolato per cinque soli giorni ritenne, come Svetonio insegna (c. 17: usque in VII idus, ec.). Avanti la morte di Caligola, che fu trucidate il dì 24 gennaio, Pomponio era certamente Console, affermandolo Dione (lib. 59); il quale dice ancora, come in quell’ultimo convito ei giacea prossimo all’Imperadore. Ucciso Caligola, abbiam da Gioseffo (Bell. lib. 2, c. 10) che i Consoli Senzio, Saturnino e Pomponio Secondo suggerirono al Senato di deputar tre coorti urbane alla custodia della città; e raguuatolo in Campidoglio, presero a persuadere fortemente di non far altri Principi, ma di rimetter l’antico governo: un’orazione in tal proposito mette [p. 191 modifica]lo stesso Storico in bocca di Saturnino (Aut. lib. 19, c. 2). Anche dopo rimaso superiore il partito di Claudio, non cessava Pomponio d’accusare i soldati, e di raccomandare la libertà del Senato, per lo che ne sarebbe stato da’ soldati ucciso, se non l’avesse Claudio impedito (cap. 4). Alcuni anni dopo per l’ufizio suo di Censore riprese Claudio la popolar licenza nel teatro, essendovi stata detta villania ad alcune illustri donne, e al nostro Pomponio Consolar Poeta, che dava tragedie e versi alla scena (Tac. Ann. lib. 11, c. 13). L’ultima menzione che di questo personaggio si abbia, ce lo fa vedere nell’803 Legato Consolare della Germania superiore, e vittorioso dei Catti, che l’aveano invasa; nella qual occasione furon liberati da servitù alcuni Romani, che quarant’anni avanti nella strage di Quintilio Varo erano stati presi (lib. 12, c. 27). Furon decretati a Secondo gli onori trionfali, il che equivaleva al trionfo, dopo gl’Imperadori non più vedutosi concedere a’ cittadini. Aggiunge Tacito, come con tutto ciò più che per altro ci fu noto a’ posteri per la gloria della poesia. Ma in somma egli meritò che Plinio Secondo il vecchio ne scrivesse a lungo la vita. Qualche confusione nelle menzioni che fanno di questo soggetto gli Autori potrebbe generare l’incostanza de’ prenomi, trovandosi ora Lucio, ora Publio, ora Quinto; onde ancora dubitar si potrebbe che talvolta dovesse intendersi del fratello: ma in questo più caso è da far degli Scrittori Greci, che non in abbreviatura, ma scrivono a disteso i prenomi: leggendosi però [p. 192 modifica]Quinto non meno in Dione (lib. 59) ove mentova il primo Consolato, che in Gioseffo (Ant. lib. 19), ove tocca del secondo, sembra rimaner comprovato che l’uno e l’altro debbano attribuirsi all’istesso. Ora non Pomponio solamente arrivò fra’ nostri a’ primi onori. Plinio il vecchio tra gli altri ufizj, che grandissimi ottenne, come il nipote attesta (lib. 3, ep. 5), fu Prefetto d’un’Ala, Procuratore nella Spagna, e quando morì, reggeva con supremo comando 1 armata navale del Miseno. Plinio il giovane nato in Como, ma fatto Veronese per adozione, e passato nella patria e nella famiglia del zio materno, fu Console in Roma, Proconsole in Bitinia, e Tribuno della plebe, durante la qual dignità non istimò decente trattar cause, come far solea, per le ragioni che adduce scrivendo a Falcone (lib. 1, ep. 23). Il Panvinio (Aut. Ver. p. 168) fa Veronese anche Gavio Massimo Console e Prefetto del Pretorio, ma non c’è fondamento bastante per asserirlo.

Toccammo già, come una delle conseguenze della cittadinanza Romana era il poter militare ne’ corpi più nobili. Molti soldati Veronesi a varie legioni ascritti, ovvero alle coorti Pretorie ed Urbane, si veggon pero ne’ latercoli militali che abbiam ne’ marmi e in molte lapide sepolcrali. Riconosconsi facilmente, perchè a’ nomi de’ soldati uso era d’accompagnar la patria: quattro Veronesi tiene un solo prezioso frammento, trascritto già da noi nella bellissima raccolta Corsini in Firenze. Non sarebbe d’alcuna utilità il raccogliergli qui tutti, ma di due, [p. 193 modifica]che furono graduati, i monumenti riferiremo, usciti a rivedere il sole non ha gran tempo. A poche miglia da Roma fuor di porta Salara si scavò anni sono grand’iscrizione di Sesto Nevio Verecondo della tribù Publicia, Signifero, o sia Portainsegna della coorte decimaquarta (v. Ins. XXX), il quale non professa la patria con la solita formola del solo nome di essa, ma si dichiara nato in Verona. Seguono appresso un verso intero, ed un altro o due dimezzati e imperfetti, ne’ quali s’esprime, come riposavan quivi le ceneri, ma l’ossa erano state riportate alla patria, e che gli eredi avean fatto il titolo sepolcrale, ma un Cornelio i versi all’Eroe defonto suo collega ed amico. Raro fu anticamente che l’ossa di chi moriva tanto dalla patria lontano vi fossero pur riportate; ma non men raro modernamente che a traverso di molle difficoltà vi si sia finalmente trasportata la gran lapida sepolcrale ancora, quale al presente abbiam nel Museo. Altro Portainsegna ci abbiam parimente della legione decimaquarta. Ma l’effigie al naturale in alto rilevo a un Centurione della legione undecima, abbiam posta nella serie delle Iscrizioni, (v. Ins. XXXI), la cui gran pietra si disotterrò nel passato secolo a sette miglia dalla città nel letto d’un torrente. È inciso a piedi il nome, cioè Quinto Sertorio Festo, che dalla tribù Pobilia, e dall’aversi qui più altri monumenti dell’istessa gente Sertoria, viene indicato per Veronese. Molte osservazioni si posson fare su l’armatura, e su gli ornamenti di essa, delle quali non è questo il luogo. Le [p. 194 modifica]due corone, che tien sul petto, mostrano ch’ei le avea conseguite per premj in guerra, del qual uso molte iscrizioni fanno memoria. Dalla lorica intera, e dall’ocree, o sia gambiere, può congetturarsi fosse de’ Catafratti, diremmo in oggi Corazzieri. In mano ha la vite, che tenea luogo delle moderne canne o mazze (Plin. l. 14., c. 1: Centurionum in manu vitis. V. Plut. in Galba): con essa battevano i soldati quando delinquessero, ed era la propria insegna de’ Centurioni, talchè da essa tal carica si denominava, leggendosi in Eusebio (Hist. lib. 7: τιμή τις, ec.) che Vite era dignità presso Romani, qual chi avea, diceasi Centurione). Per ultimo d’un altro de’ nostri cittadini risusciteremo il nome, cioè di Quarto Annio Saturnino, che fu Prefetto de’ Vigili (v. Ins. XXXII). Era questo un corpo di milizia molto distinto, composto di sette coorti, ognuna delle quali divisa in sette centurie, quali erano la notte di guardia a tutta Roma. Intorno all’ufizio del loro supremo comandante chiamato Prefetto veggasi nel primo libro de’ Digesti il suo titolo: il nostro Saturnino e la tribù Publicia professa nell’iscrizione, e il nome della patria aggiunge.

La più bella forse ed util parte della grand’opera del nostro Plinio è la descrizion geografica ch’ei ci diede del mondo allor conosciuto. Grandissimo danno è che maltrattata in più luoghi, e anche mal divisa ci appaia quella dell’Italia nel libro terzo, quale non sia chi speri di risarcir del tutto, se qualche esimio codice non dà fuori. Nuova division dell’Italia [p. 195 modifica]ei mette quivi innanzi, non per popoli o genti, ma in undici regioni; taunto più autorevole ed apprezzabile, quanto che venne in gran parte da Augusto stesso, così cominciando Plinio (l. 3, c. 5: descriptionemque ab eo factum, ec.) è necessario premettere che noi seguiteremo per autore Augusto Divo, e la descrizione da lui fatta dell’Italia tutta in regioni undici. Confini dell’Italia furono allora nella maggior lunghezza Reggio ed Aosta; nella maggior larghezza il Varo e l’Arsa. Anche Tolomeo chiamò termine dell’Italia la città di Nesazio alle foci dell’Arsa. Bella lapida si conserva tuttora in Boarno nell’alto delle montagne Bresciane, in cui si accenna, come quivi fosse allora da quella parte il confin d’Italia (v. Ins. XXXIII). Secondo questa divisione Verona restava nella region decima, che avrebbe compreso non solamente la Venezia tutta (Plin. lib. 2, c. 72), ma alcune grand’appendici di parte e d’altra. Nomina Plinio in questa regione, prima secondo la situazione i luoghi maritimi, o adiacenti al mare, Altino, Concordia, Aquileia e Trieste: d’Aquileia nota ch’era a dodici miglia dal mare, e ch’era nei Carni: nomina ancora, in grazia del suo vino, Pucino castello de’ Japidi prossimi ai Carni e al Timavo. Segue descrivendo l’Istria; indi facendosi dal capo di qua e dai luoghi mediterranei, nomina Cremona, e Brescia nel distretto de’ Cenomani; nel tener de’ Veneti Este, Asolo, Padova, Oderzo, Belluno, Vicenza e Mantova: par credibile che dal testo di Plinio sia qui sfuggita Adria; forse era in vece della voce [p. 196 modifica]oppida, che nelle stampe è dopo Ateste, e si conosce fuor di luogo. Strabone (lib. 5: καὶ ἄλλα τοιαῦτα πολισμάτια) mentova Oderzo, Concordia, Adria e Vicenza tra le piccole città ch’erano manco offese dalle paludi. Nel tener dei Reti nomina Plinio Feltrini, Trentini e Bernesi; mette Verona, come di ragion di due genti, cioè Reti ed Euganei; e per ultimo nomina Giulio nei Carni, quasi dimenticato prima. Alquante piccole popolazioni registra poi, quali dice non esser necessario di ricercar minutamente (quos scrupulose dicere non attineat); tra queste i Taurisani, i Forogiuliesi e i Venidati: in quest’ultimo nome pare celarsi quel degli Udinati, e di Udine, diventata poi città ne’ bassi tempi, trasposte le lettere, come abbiamo osservato era uso frequente della pronunzia popolare, ove parlammo de’ Vardacatesi. De’ Taurisani resta in dubbio se fosse luogo ne’ monti di tal nome da Plinio mentovati innanzi, o se fosse borgo passato poi in città col nome di Treviso. Si vede Treviso due volte nel latercolo militare citato poc’anzi, ch’è de’ tempi d’Antonin Pio (v. Grut. p. 301). De’ Forogiuliesi abbiam fatta menzione parlando dei Fori, e si riconosce qui, come non erano ancora città, mentovandosi tra’ piccoli luoghi ed ignoti. Nelle stampe di Tolomeo veramente si legge Forogiulio Colonia, ma in quell’istessa pagina che osservammo tutta coperta d’errori. Da alcuni è stata confusa con la Colonia Forogiuliese mentovata da Tacito, ch’è Frejus in Provenza. Qualche lapida si adduce, che a Cividale, dove fu il Forogiulio, conservasi con [p. 197 modifica]la tribù Scapzia; ma potrebbe esserci stata portata d’altronde, poichè della Scapzia era Altino. Tuttavia non siamo in ciò per fissar parere, ma per lasciare ognuno col suo: certo bensì è che città diversa fu Giulio Carnico, di cui scrisse Tolomeo, trovarsi tra l’Italia e ’l Norico (lib. 2, c. 14), e di cui rimanere il nome anche oggi giorno, e qualche reliquia nella Carnia montana, vien detto. Ricorda Plinio per fine le città che in tal tratto erano già state, ma eran poi perite. Son tra queste Celina, Segesta e Norea; ma poichè a tempo di Plinio eran già distrutte, non pare a proposito di cercarne conto nelle posteriori ch’ebbero simil nome: di Celina addusse una Romana iscrizione Enrico Palladio, che non solamente è falsa, ma ridicola. Parrà strano che Plinio non registrasse la città di Ceneda, a chi avrà osservata l’iscrizione de’ tempi di Tiberio, recitala dal Grutero (228, 8), ed approvata non che da più altri, ma fin dal Noris e dal Cellario, in cui si legge Decuriones et Populus Cen. ovvero Cenet., interpretato per Ccnetensis; ma l’insigne lapida veduta da noi in Firenze porta chiaramente cenarent, e così doversi leggere conferma il contesto. E notabile che in tutta questa regione colonie non chiama Plinio se non Brescia, Cremona, Concordia, Aquileia, Trieste e Pola, perchè in queste sole aveano i Romani ne’ tempi della Republica mandati da Roma coloni ad occupar buona parte de’ terreni e delle case, ed a tener quelle genti in dovere, e non chiama colonie Verona, nè Padova, nè altre città de’ Veneti, perchè [p. 198 modifica]queste; come dicemmo, s’incorporarono per volontaria dedizione, onde diventarmi poi colonie solamente per privilegio e per comunicazione del gius, lasciando le militari, che furon poscia condotte per tutto. Non meno d’Aquileia si vede da Plinio che fu colonia Concordia, perchè l’una e l’altra fur de’ Carni, e non de’ Veneti, com’anche s’impara da Tolomeo. Di tutti i principali luoghi annoverati in questa regione da Plinio, ignoto ci resta solamente il nominato Bernenses, ascritto a’ Reti. In vano è stata da’ diligenti Geografi ricercata Berna in queste parti; e malamente altri ha creduto doversi intender di Belluno, cui l’Autore nomina distintamente dai Bernesi. Sembra però a noi indubitato doversi legger Breunenses, e intender di que’ medesimi che Orazio (l. 3, od. 14 Breunosque veloces) chiama Breuni, ove tocca dei Reti vinti ne’ lor monti a tempo d’Augusto. Breuni son detti anche nell’iscrizion delle genti Alpine sotto Augusto soggiogate; e Breuni par si chiamassero da Tolomeo, bench’ora si legga Becuni. Il lor primo luogo ci par quasi certo fosse quello che in oggi si chiama Brè, ed è su l’Olio nell’alto della Valcamonica, poche miglia lontano dal Trentino, essendo già anche per altro noto, come que’ monti furon tenuti da’ Reti. La comune immaginazione del Re Brenno ha ora fatto che nel Toscaneggiar tal nome scrivendo, si sia ridotto Brè in Breno. Questa grossa Terra è in oggi capitale della Valcamonica; ma anticamente è certissimo che corpo differente dai Camuni faceano i Breuni, quali abitavano la parte più alla e più [p. 199 modifica]prossima a‘ Reti interiori. Abbiam nel distretto nostro Brentino a piè del Montebaldo, e Breonio nell’alto della Valpulicella, qual fu dei Reti: tali nomi sembrano venir da’ Breuni, detti Breoni da Venanzio Fortunato (Vit. S. Mart. lib. 4).

Questa divisione dell’Italia in regioni ha confermato in molti l’error di credere ridotta a’ tempi d’Augusto l’Italia in provincie, e deputato a ciascheduna il suo Preside. Faremo prima conoscer l’inganno di chi ha supposta in tempo della Republica e sotto Augusto soggetta l’Italia a’ Questori. Magistrato era questo che si mandava alla custodia del publico denaro, alla cura delle publiche rendite, e a raccoglier le contribuzioni e le imposte. Cosi nelle provincie ancora; onde Filone nell’Ambasceria a Caligola parlando del Questor Capitone, dice che presedeva in Giudea all’esigere i tributi. I Questori che si veggono in Pisa a tempo della morte di Caio e di Lucio Cesari, eran municipali, come gli abbiam veduti in Verona ancora (v. Cen. Pis. Diss. I, c. 3). Quelli che, dice Dione, volle Augusto avesser cura per più anni di certi luoghi verso il mare e presso Roma, avranno avuto motivo da particolari accidenti di que’ luoghi stessi, nè si dee mai creder per questo che fosse ridotto il Lazio in provincia. Bisogna avvertire ancora, che se ne‘ luoghi ove costoro esercitavano il loro ufizio, straordinario accidente nasceva e particolare occorrenza, essi ne prendean cura o se ne dava ad essi la commissione. Così è da dire di quel Curzio Lupo Questore, cui scrive Tacito (Ann. [p. 200 modifica]lib. 4) era toccata secondo l’uso antico la provincia Calles, quale non va intesa per paese, ma per incombenza di poco rimarco, come si può imparar da Svetonio (Caes 19: provinciae minimi negotii silvae callesque, ec.) Un passo è in Dione, che avrebbe contribuito a tal errore assai più, se fosse stato osservato: poichè guardando il Latino, par ch’ei dica avere l’imperador Claudio abolite le prefetture d’Italia, e sostituiti in esse i Questori) ma nel Greco dice veramente prima, come abrogò i Pretori, ch’eran sopra il denaro publico, sostituendo Questori (lib. 60: στρατηγοὺς τοὐς επὶ τῆς διοικήσεος, ec.; ταμιείαις τὴν διοίκησιν αντὶ τῶν ἀρχόντων, ec.); e di poi, come diede a’ Questori tal cura anche fuor di Roma in vece degli Arconti, che prima l’aveano; dove altro non è da intendere che i Magistrati municipali. Aggiungasi, che potean talvolta i Questori ed altri esercitar in Italia giurisdizione come Magistrati straordinarj, senza derogar punto al suo privilegio, e senza ridurla per questo in condizion di provincia come gli ordinarj Presidi. Vedesi, per cagion d’esempio, in Tito Livio, che un Pretore destinato alla Sardegna inquirisce prima per quattro mesi in più città poco lontane da Roma sopra delitti commessi di veneficio, perchè così parve più a proposito (lib. 39: quia ita aptius visum). Osservammo già da Polibio, come il veneficio era tra que’ publici delitti che non si giudicavano da’ Magistrati delle città, ma dal Senato. In quell’occasione però per la moltiplicità dei delinquenti fu creduto meglio di spedire chi ne [p. 201 modifica]facesse in ogni parte perquisizione. Che in simili occorrenze si mandassero spesso Questori, lo mostrano alcuni Atti di Martiri; e che con tal nome fosser chiamati spezialmente gl’inquisitori dei delitti, Festo e Varrone insegnano: però Manilio e Prudenzio gli dissero Quaesitores (Quaesitor scelerum).

Nel ragionamento di Mecenate ad Augusto presso Dione (lib. 52) sembra lo consigliasse a governar l’Italia in modo, che sarebbe stato un metterla in servitù; ma nè questo nè più altri de’ suggerimenti, in quella parlata da Dione esposti, furon per Augusto messi in opera, anzi alcuni non ebbero effetto mai. Che non fosse da lui trattata, nè considerata come provincia l’Italia, ben si riconosce, dove l’amministrazione delle provincie tutte ei divise, parte per se ritenendo, e parte lasciandole al popolo ed al Senato, perchè i Presidi a queste dal popolo, ed a quelle da lui si mandassero; posciachè non toccò l’Italia, o veruna parte di essa, nè all’un nè all’altro, nè se ne fece tra le provincie menzione alcuna. Ma tanto è lontano che riducesse Augusto in condizion di provincia l’Italia, quanto che all’incontro ei l’inalzò,fino a uguagliarla in certo modo a Roma e nell’onore e nell’autorità; così per l’appunto parla Svetonio (Aug. c. 46: Italiam... etiam jure ac dignatione Urbi quodammodo adaequavit). Il modo fu questo. Un de’ primi frutti della participazione della Republica conceduta alle città Italiane, era il potere i cittadini di queste intervenir ne’ Comizj, e dar voto non meno de’ nati a Roma. Ma siccome la lontananza delle [p. 202 modifica]città facea che di rado si trasferissero questi alla gran radunanza del popolo, così riusciva loro quasi inutile in questa parte la cittadinanza. Che fece però Augusto? pensò un modo, col quale dovendosi creare i supremi Magistrati Romani, che in quel tempo era l’impiego più importante de’ Comizj; i Decurioni raccogliessero nel pien congresso delle lor città i voti, e questi mandassero sigillati a Roma pel giorno destinato. In questa maniera Veronesi, a cagion d’esempio, senza partire dalle lor case concorrevano niente men de’ Romani alla elezion de’ Consoli, e degli altri gradi sommi. Questo bel luogo di Svetonio fu inteso da uomini grandi tutto a rovescio (v. Cen. Pis. D. 1, c. 3: jurisdictionem decurtavit); ma l’umana condizione fa che non ci sia Omero alcuno sottoposto a sonnacchiar qualche volta: non iscusi gli altrui sbagli chi si credo esente dal poterne prendere. Altri ha fatto gran caso del leggersi in Dione (lib. 4})) ed in Tacito (Ann. lib. 6) che Augusto per più anni a Roma e all’Italia prepose Mecenate: ma fu ciò in tempo delle guerre civili, e s’intende ch’ei lo fece Prefetto di Roma; principale ufizio del quale essendo il giudicar definitivamente, sovrastava tal dignità anche all’Italia, in quanto che l’ultimo appellazioni di certe cause ricadevano a lui, come vedremo altrove. Avvertimmo già in certa operetta, come la Latina version di Dione può far sospettare che Proconsoli e Propretori destinasse Augusto in Italia, quando il testo Greco all’incontro fa intendere che furono questi nomi e insieme questi ufizj dall Italia sbanditi, e in [p. 203 modifica]essa non usati, mentre parla così (lib. 33: Αὐτὰ μὲν γὰρ τὰ ὠνόματα, ec. ): imperciocchè i nomi stessi di Pretore e di Console in Italia ritenne: tutti quelli che aveano imperio fuor di essa, talmente denominò, che apparisse esercitar le veci di questi. Annotazione che porta il nome di Gudio nel Grutero (ad 375, 4), ma è copiata dal Pancirolo (Not. Imp. Occ. c. 49), la cui grand’opera fu scorrettamente stampata, afferma che Pretore a ciascuna delle undici regioni fu da Ottaviano imposto, e ne cita in pruova Strabone, Plinio e Dione, i quali non sognarono mai per ombra tal cosa. Ma non occorre in punto così chiaro spender più parole. Una sola riflessione aggiungeremo ancora. Come potea, prima che si confondessero gli ordini e i diritti antichi, mandarsi Preside in que’ paesi che godeano la cittadinanza Romana in universale? I Presidi sopra’ cittadini Romani non aveano autorità, onde che ci avrebber eglin fatto in Italia, dove tutte le città in corpo erano di tal condizione? Noi reggiamo che S. Paolo (Act. XXII, 25) legato già per ordine del Tribuno, che volea farlo flagellare, quando disse esser cittadino Romano, convenne subito disciorlo. Esagerò Tullio (Orat. 7) fieramente il delitto di Verre, Pretor di Sicilia, per aver fallo legare e battere, indi morire un Publio Gavio della città di Cose, ch’era ascritto alla Romana cittadinanza. Plinio Preside di Bitinia, mentre inquiriva contra Cristiani, professando alcuni d’esserne francamente, scrisse a Traiano (lib. 10, ep. 17: quia cives Romani erant, in urbem [p. 204 modifica]remittendos), essersi dovuti mandar a Roma, perch’eran cittadini Romani. Egli è per mille ragioni manifesto adunque che la divisione in undici regioni pensala da Augusto, e da Plinio riferita, altro non fu che una ripartizione geografica per sua regola e per suo studio fatta, e però nè da Dione, nè da Svetonio, nè da verun altro Istorico menzion se ne fece; e non se ne fece caso da Pomponio Mela, il quale avendo poco dopo l’Italia descritta, tali regioni non nomina; e però Plinio l’una regione scrisse aver nome di Prima, l’altra d’altro numero secondo la division d’Augusto. Ottimamente adunque dice il Cellario (lib. 2, c. 9 ), non esser riuscita di alcun uso tal divisione, e non essersene da’ posteri fatto conto. Nè però inutilmente dobbiam credere la pensasse Augusto, ma come applicatissimo al governo della Republica, per ordinar meglio con essa la regolazione delle publiche rendite, e la distribuzione e il computo delle forze; sapendosi come un libro gli si trovò dopo morte, in cui avea descritto quanti soldati avesse la Republica in ogni luogo, quanti denari nell’erario, quante rendite, quanti crediti, quante spese (Dio. lib. 55; Svet. Aug. in fin.).

La divisione che di tutta la Gallia cisalpina fa il Po, fece molte volte ancora considerar questa metà d’Italia come due regioni, o sia geografiche provincie. Traspadana Italia nominò Plinio più d’una volta, ed altri parimente. Che in essa assai si distinguesse Verona tra l’altre città, da un ampio marino si può raccogliere, che abbiam nel Museo, il qual mostra com’era [p. 205 modifica]qui la sepoltura della Famiglia che in tutta la Region Traspadana risedeva la Vigesima delle Libertà (v. Ins. XXXIV: Familiae XX lib.). Il monumento è fatto dall’Arcario, cioè dal cassiere, col suo denaro. Tra le gravezze de’ Romani antichissima era la Vigesima; non già quella delle eredità e de’ legali, che fu introdotta da Augusto per la cassa militare, come in Dione (lib. 55), ma quella sopra le manumissioni, imposta con legge di Manlio console fin nell’anno rii Roma 397, come in Livio si legge (lib. 7). Intendevasi la vigesima parte del prezzo che pagavano i servi, o altri per loro, a’ padroni per esser fatti liberi: mille denari dicea colui, per cagion d’esempio, presso Petronio Arbitro (cap. 57), essergli costata la libertà della sua Contubernale. Il ritratto da questa imposta si conservava con somma gelosia per gli estremi casi, come l’istesso Storico altrove accenna (Liv. l. 37). Ora appar dalla nostra lapida, come l’ufizio di coloro i quali da tutta l’Italia, rispetto a’ Romani, traspadana, esigevano e custodivano tal danaro, facea particolar residenza in Verona, avendoci il proprio sepolcro. Col nome di Famiglia vengono i servi impiegati in tal esazione. Congettura può trarsene che il Questore ancora di tutta l’Italia traspadana qui più che altrove uso fosse di dimorare. Opportuno era il sito per sì fatta incombenza, come nel mezzo di tutto il tratto dall’Alpi Cozie all’Illirico; ed è credibile che ci contribuisse ancora l’esser gran città e doviziosa. Ch’essa in fatti si andasse mantenendo nello stato in cui Strabone [p. 206 modifica]ce la mostrò sotto Augusto, indica Marziale, il qual visse sotto Traiano, col celebre distico: quanto al suo Catullo la gran Verona, tanto dovere al suo Virgilio la piccola Mantova (Tantum magna suo, ec.).

Della sua forza sicura testimonianza troviamo nella guerra civile di Vitellio e di Vespasiano: perchè ne’ primi moti consultando in Padova Primo e Varo, ed altri del partito di Vespasiano, dove fosse da far piazza d’armi, fu stabilito di farla in Verona; si perchè avea campagne aperte opportune alla cavalleria, in cui prevalevano, e si perchè parea d’importanza al credito ed all’impresa il torre a Vitellio una colonia florida ed abbondante (Tac. Hist. l. 3: Verona potior visa, ec. Coloniam copiis validam... in rem famamque videbatur). Nel passaggio fu occupata Vicenza, il che fu allora tenuto di considerazione per esser patria di Cecinna, uno de’ principali Capi della contraria fazione. Ma ne’ Veronesi, dice Tacito, fu ben impiegata l’opera, perchè e con l’esempio e con le ricchezze giovarono al partito (in Veronensibus pretium fuit: exemplo opibusque partes iuvere): dove non facendosi menzione di Romano Magistrato alcuno, ma solamente de’ Veronesi cittadini, si può riconoscere, come per governo subordinazione non aveano alcuna. Ben Cecinna conobbe la forza del sito, quando insuperabilmente si accampò tra Ostiglia e le paludi del Tartaro (et paludes Tartari fluminis), assicurando col fiume la schiena, e i fianchi con la palude. Sopravenute poi due legioni. vollero i Vitelliani far pompa delle [p. 207 modifica]lor forze, e vennero ad attaccare e a circonvallar Verona, dove e combattimenti e sedizioni avvennero di soldati, che non ben si distinguono per le sconnessioni e mancanze del testo di Tacito in quel libro (Hist. lib. 3: ostentare vires, et militari vallo Veronam circumdare placuit). Fu questa la prima aggressione a questa città fatta, di cui memoria ci sia rimasa, ma ne resto ben tosto libera. Molto caso si fece in quella guerra d’Ostiglia e di Cremona, perchè nell’uno e nell’altro luogo si passava il Po; e molta parte vi ebbe singolarmente Cremona, benchè a suo gran costo. Ma finalmente Antonio Primo condusse in due marchie da Verona a Bedriaco l’esercito tutto, dove una battaglia decise in favore di Vespasiano.

Come in occasione di guerra, così in que’ tempi si distinguea Verona per lettere e negli studj. Co’ due Plinii e con Pomponio Secondo poc’anzi mentovati, che illustrarono questa città per l’eccellenza de’ scritti loro, deesi accoppiare Cassio Severo, Istorico citato da Svetonio in proposito dell’origine di Vitellio, e che per Veronese si ravvisa in quell'epistola di Plinio il giovane, ove si ha ch’ei fu concittadino di Cornelio Nepote. Ma veramente risplende sopra tutti il primo Plinio, che non ebbe tra i dotti Latini l’uguale, e ben con ragione chiamato dottissimo da S. Agostino (Civ. D. l. 15, c. 19). Le dispute sopra la sua patria speriamo che rimarran tronche del tutto, ove si parlerà degli Scrittori.

Ma egli è ormai tempo di alcuna cosa dire degli edifizj, i quali dell’antico splendore fanno [p. 208 modifica]sopra tutt’altro indubitata fede, essendosi le città in ogni tempo illustrate principalmente e nobilitate dalle sontuose fabriche, e ben intese. Il Cluverio arguì saggiamente l’antica forza di Verona dal vedercisi vestigi e pezzi d’antichità in maggior copia, che in qualunque altro luogo della Gallia cisalpina; ma poteva egli forse aggiungere dell’Italia tutta, riservando sempre la gran Metropoli del mondo. Di questi in poche parole ci spediremo, per doversene trattare in altro luogo distintamente. La prima e più antica reliquia ci par esser quella di cui nell’anterior libro abbiam fatta menzione parlando de’ nostri Quartumviri. Il pezzo coperto, che ne sopravanza, mostra un bellissimo Dorico, e benchè in pietra tenera ed ordinaria, ne traspira il magnifico dalla forma. Dalla doppia e superba porta, addossata poi alla più vecchia, per fare all’edifizio un più nobil prospetto, ben si ravvisa quanto sontuoso fosse qui il Foro della ragione. Si sgombrerà nel trattarne a parte l’error comune d’aver finora creduto Arco tal doppia porta. La bellezza e la forma delle lettere, che ci si veggono in fronte, contribuisce al giudicar la fabrica d’ottima e lodata età. Poco lontano di tempo è da creder l’Arco de’ Gavii, che restava allora fuor di città, non per Imperadori, nè per trionfi eretto, come gli Antiquarj e gli Architetti soglion credere tutti gli Archi, ma superbo sepolcral monumento d’una famiglia che dovea risplender qui tra le prime. Due statue per parte al naturale ci furon già, delle quali ci rimangon le nicchie; una di Marco Gavio Macro, altra di Caio Gavio [p. 209 modifica]Strabone, ed altra di Gavia figliuola di Caio, non essendosi conservato il nome della quarta. Scolpito in piccole ma belle lettere è sotto l’Arco il nome dell’Architetto Vitruvio Cordone di condizion libertina. Di quanto spetta all’architettura si ragionerà a suo luogo: ma l’osservar qui i capitelli e il rimasuglio di cornice dell’istesso disegno e lavoro, di cui nell’antichità prenominata veggonsi i capitelli delle colonne inferiori, e quelli degli stipiti, e così la cornice del frontispizio, ci fa inclinare a creder di lui anche quell’opera: e poichè l’una e l’altra di queste reliquie sono tra le più celebrate da’ primi maestri nell’arte, debbon dare distinto luogo tra’ nostri uomini illustri a Cerdone, e molto possono contribuire a farlo creder veramente, come abbiamo altrove congetturato, liberto e discepolo del Vitruvio che scrisse2. Altro Arco fu già dentro la città nella via del Corso, di cui vedesi la figura nel Saraina. Del magnifico ponte, che due archi antichi conserva ancora, abbiam parlato nel secondo libro. Teatro di pietra si ebbe qui parimente, di cui rimangon più pezzi nella collina di S. Pietro. Ma sopra l’istessa collina fu il nostro Campidoglio, che l’occupava dal basso all’alto, come i molti vestigi dimostrano. L’affetto ingenito delle città Romane alla lor matrice operava che anco in tutti i publici edifizj, e nel nome [p. 210 modifica]loro cercassero di rendersi altrettante piccole Rome. Però le città più illustri, e ch’ebbero colle dentro di se, o vero a canto, anche il lor Campidoglio si fecero. Di quel di Capua abbiam da Svetonio (Tib. c. 40) che fu dedicato da Tiberio. In moltissime città crederà che Campidoglio fosse, chi darà fede o ad Atti di Martiri non sinceri, o a scritti del basso secolo, che i nomi degli edifizj antichi confondono. Furon anche chiamate così talvolta le rocche tutte, onde quella di Babilonia Fortezza, cioè Campidoglio fu detta da S. Gerolamo (in Isai. c. 14). Ma di quello di Verona infallibil pruova si ha per esimia antica lapida del Museo, in cui d’una statua si fa menzione, che nel Campidoglio era lungo tempo giaciuta a terra, e fu trasportata poi nella piazza (v. Ins. XLV: in Capitolio diu jacentem). Sembra continuasse qui tal nome fin ne’ prossimi secoli, perchè Marzagaglia, Scrittor nostro del 1300, narra, come in certo tumulto parte della plebe si ritirò dentro il Campidoglio della città, dov’or si direbbe in Castello. Castello o rocca era nel Campidoglio di Roma, e ν’era l’Archivio publico e l’antica Biblioteca, ma singolarmente il Tempio di Giove, e alquanti altri ancora; ed abbiam ne’ Concilii ed in Atti di Martiri come ne’ Campidogli stava l’Idolo più venerato. S. Cipriano (Epist. 55) contrapone il Campidoglio alla Chiesa, ed il nostro Santo Zenone (De Spir. aedif.) nomina i Campidogli, come luogo sacro de’ Gentili, ponendogli insieme con le Sinagoghe de’ Giudei. Nel tempio di Giove si veneravano insieme [p. 211 modifica]Giunone e Minerva, avendo a tutti e tre fatto voto Tarquinio Prisco nella guerra co’ Sabini: Numi Capitolini eran però detti, e ad essi unitamente scrisse il Fabretti (pag. 696), raro essere che iscrizioni si veggano, ma una ne abbiam noi quasi per testimonio del Campidoglio nostro (v. Ins. XXXI). Che nobilmente fosse anch’esso adornato, indica la menzione della sopranominata statua: di statua ch’era nel Campidoglio di Benevento, fa menzione il libro degl’illustri Grammatici. Ne’ muri che qua e là sul detto colle rimangono, si vede l’alto molto uso dell’opera reticolala, usatissima a’ tempi di Vitruvio, e molto da lui lodata (l'. 2. c. 8).

Della quantità dei Tempj che fu in questa città e nel distretto, fa fede il gran numero d’iscrizioni votive a varie Deità consecrate, che a dispetto di tanto disperdimento vi s’è pur ancor rinvenuto, e nel Museo raccolto. Desiderabil sarebbe che non fosse miseramente tronco d’ogni parte un gran frammento di pietra, ch’era stato in fabrica usato, i primi versi del quale in grandissime e bellissime lettere mostrano che di Tempio ci si parlava dedicato a Roma e ad Augusto: ci si mentovano Concittadini Romani, e la voce ci si ha di Concives (v. Ins. XXXVI), che finora si è credula di basso secolo e di men buona Latinità. Ma della sontuosità di molti edifizj fanno indubitata pruova i grandissimi capitelli, e gli avanzi di fregi e di colonne di Greco e d’Africano, e i frammenti di granito e di serpentino, e i pezzi smisurati di porfido, di verde, e d’altri marmi [p. 212 modifica]oltramarini, simili ai quali molto raro sarà di rinvenire fuor di Roma. Non si è quasi mai scavalo in molta profondità senza dare in fondamenti, o segni di gran portici e di gran colonnati, o in reliquie di pietre nobili e lavorate. Le strade scoperte talvolta otto e dieci piedi sotto il presente piano, si son vedute pavimentale di grandi e molto grosse lastre. Li vestigi d’insigne edifizio veduti già sotto terra presso la piazza, di che parlano i nostri Storici, ben convengono a qualche Basilica che fosse presso il Foro per uso e comodo de’ negozianti, come Vitruvio prescrive (lib. 5, c. 1). Ottime congetture mostrano che la maggior piazza fosse appunto dove ancor la reggiamo, nel mezzo della città, e di forma bislunga, come disse l’istesso Vitruvio (lib. 1, c. 7) si faceano le piazze in Italia per gli spettacoli gladiatorii. Versi antichi, de’ quali parleremo a suo luogo, ci fanno sapere, come ai quattro canti della piazza grand’archi vedeansi (magni instant fornices): possiamo arguire si vedesse il medesimo a Roma da un passo di Cicerone (de Orat. lib. 2) ove per esempio d’ingrandir per ischerzo, dà l’essersi detto di un tale, che per venir nel Foro dovesse abbassar la testa all’arco, o vogliam dire alla volta di Fabio. Nel sito della città antica viottole abbiam molte, strette e tortuose: così per l’appunto a’ tempi della Republica in gran parte fu Roma, gli angustissimi chiassi della quale nomina Tullio (de Leg. Agr. angustissimis semitis). Da quell’iscrizion nostra (v. Anfit. lib. 1, c. 14), che fa memoria dell’avere Lucilio Giustino d’ordine [p. 213 modifica]equestre fatte col consenso del popolo quattro arcate del Portico che conduceva al Ludo Publico, e dell’averle anche ornate di pittura, parrebbe potersi raccogliere che fosse in uso il guarnire di portici le strade. Ma per quanto spetta al riconoscere dalle reliquie degli edifizj lo stato e la forza e lo spirito di questa città negli antichi tempi, basta far considerazione su l’Anfiteatro. Gli Anfiteatri, sì per magnificenza nella mole, e sì per ingegno nell’arte, furon veramente le più maravigliose e stupende opere che s’inalzasser già mai. Abbiam consecrato al nostro un intero tomo di quest’Opera, e però non ne faremo qui altre parole. Osserveremo quivi, come, secondo le più ragionevoli congetture, può credersi eretto o sotto Domiziano, o sotto Nerva, o ne’ prim’anni di Traiano; come non d’altri che della città e popolo Veronese fu tale impresa, tanto facea potere allora il consorzio di Roma, e la comunicazion degli onori; come poche fur le città, non solamente nelle provincie, ma in Italia ancora, che Anfiteatro di pietra avessero; e come in tutta la Venezia altra non l’ebbe. Non meno che dall’avere Anfiteatro capace di cinquanta mila spettatori, pruovasi l’antica grandezza e dovizia di questa città dalla frequenza in esso de’ giuochi di gladiatori, e di fiere, che nel Trattato mostreremo; e parimente dall’esser qui stato Ludo, cioè scuola di gladiatori, che fuor di Roma raro è che s’incontri; sembrando anzi che più d’un ve ne fosse, mentre si distingue con nome di Publico quel che si nomina nella sudetta lapida.

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L’erudito Lettore anderà senza dubbio aspettando che tra’ principali contrasegni della nobiltà e dignità di questa colonia si ripongan da noi le molte primarie Genti che si veggon ne’ nostri marmi, e che fanno credere abitata dal fiore del sangue Romano questa città. Presso a cencinquanta nomi gentilizi!, che in oggi si direbber cognomi, pose già insieme il Panvinio (Ant. Ver. pag. 103) tratti dalle nostre lapide, e non pochi se ne posson ora aggiungere per altre date fuori dopo di lui. La quantità fa indizio della popolazione e frequenza; per altro il pregio de’ più illustri nomi di Roma ad ogni parte dell’Imperio è comune; e chi dal vedergli nelle iscrizioni argomenta il trasportamento in questa e in quella parte delle patrizie e dominanti famiglie Romane, non fece considerazione su l’inverisimile di tal supposto. Uso è comune nell’illustrar le lapide municipali, di farsi tosto a ricercare se quella famiglia era patrizia o plebea, o ad annoverare i Consolati de’ quali andò fastosa; uso è parimente di credere che di quella città fossero tutti i personaggi, de’ quali memorie vi si conservano. Ma noi sappiamo che generalmente passava nelle colonie l’inferior gente, onde abbiamo negli Scrittori che il parlar di condurne era singolarmente accetto al minuto popolo ed a’ soldati. Noi sappiamo in oltre l’uso promiscuo presso gli Antichi de’ nomi, talchè quando e di Giulii, e di Glauchi, e di Cornelii, e di Valerii, e di Domizii monumenti incontriamo, noi non sappiam per questo, se costoro delle celebrale Genti e un tempo arbitre [p. 215 modifica]di Roma fosser rampolli, o pur, se di basso stato, e fors’anco di vile e di straniero lignaggio. Tito Cassio Severo, a cagion d’esempio, orator famoso, con tre nomi Romani ci viene innanzi, e con gentilizio de’ più antichi e de’ più illustri: non pertanto c’insegna Tacito (Ann. lib. 4) ch’ei fu di sordida origine. D’alquanti Greci di mal affare, e che non erano cittadin Romani, disse Cicerone (Verr. 5: jampridem improbi, repente Cornelii), come tristi erano da gran tempo, Cornelii di repente. Basta ricordarsi, come i servi fatti liberi, il prenome c il nome gentilizio assumevano del padrone, o di colui per cui la libertà conseguivano. Questo bastava a riempiere il mondo degli stessi nomi, perchè i Grandi servi aveano infiniti, e ne liberavano a torme. A dieci mila in una volta diede la libertà Silla, ch’erano stati servi de’ morti nella Proscrizione, dando loro insieme il nome di Cornelii, come narra Appiano (Civ. lib. 1). E si dee avvertire che ben si conoscono i servi nelle iscrizioni dall’esprimersi la condizione in cui passavano di liberti; e spesso anche dal proprio nome, che in luogo di cognome [sopranome potrebbe dirsi in oggi] riteneano, massimamente s’eran Greci: ma non è così de’ figliuoli, e discendenti loro, a’ quali della schiatta servile niun vestigio rimaneva. Assumevansi ancora i nomi per cittadinanza ottenuta: però nomina Cesare (Bell. Gall. lib. 1) un Caio Valerio, che per dono di Caio Valerio Flacco l’avea: in tempo dell’Imperador Claudio vennero accusati molti, perchè avuta da lui la cittadinanza non ne [p. 216 modifica]portassero il nome (Dio. lib. 60). Amplissimo fonte era questo ancora: un’intera legione di Galli transalpini da lui levata fece Cesare a un tratto cittadin Romani (Svet. Ces. c. 24 )· Ottanta mila di tal condizione fece ammazzar Mitridate nelle città d’Asia (Val. Max. lib. 9, c. 2). Ma prendeano ancora talvolta il nome di chi solamente fosse stato mezzo a conseguir tal grado. Cicerone di Demetrio Mega Siciliano: Dolabella gli impetrò la cittadinanza da Cesare, per lo che ora chiamasi Publio Cornelio. Anzi, che arbitrariamente si assumesser talvolta, non pochi passi fanno credere, e che a imitazion de’ Romani di nuovo si formassero ancora. Nè si creda bastare ufizj e dignità, spezialmente municipali, per far fede di sangue illustre, e molto meno attributi fastosi, o titoli, de’ quali i libertini appunto andavano più degli altri in traccia, come oggi ancora sì fatte vanità da chi meno è, veggiamo cercarsi più. Molte volte ancora onorifiche memorie a personaggi distinti, benchè non di tal patria, fur poste, o per esser Protettori delle città, o de’ collegj, ovvero per benefizj conferiti (Gr. 450, 1). È stala publicata tra le nostre un’iscrizion di Petronio Probo Console ordinario e Prefetto del Pretorio, della quale, come non esistente, e come riferita con più errori, non facciam caso; ma che colui fosse perciò Veronese dedurre non si potrebbe. Così dicasi di Delfio Protettor nostro altrove mentovato, che fu in Asia Governatore. Tutto questo ragionamento dee servire a moderar l’opinione intorno alla condizion di coloro che veggiam nelle nostre [p. 217 modifica]lapide; ma non per questo dobbiam credere che d’onesta condizione non andassero anche molti in colonia, e spezialmente d’ordine equestre: fa menzion Tito Livio (lib. 37) dell’essersi, nel condur colonia a Bologna, dati settanta ingerì di terreno agli Equiti, e cinquanta agli altri. Coll’andar del tempo anche alcuni di primarie famiglie si trasferirono in altre città, o per fuggir brighe e pericoli, o per ampie facoltà acquistatevi. Aggiungasi che la cittadinanza Romana e la participazion degli onori Iiresto nobilitavano e sommamente illustravano e famiglie d’ogni città, che uomini producessero atti alle cose grandi e a supremi impieghi. Ci è stato chi ha creduto Veronese il bisavo dell’Imperador Flavio Vespasiano, perchè Traspadano il diceano alcuni presso Svetonio (Vesp. c. 1, 387, 1), e perchè un Flavio Norico fu nostro Quartumviro in antica età. È notabile l’aversi alquanti monumenti della gente Veronia, che non si vede altrove. Osservammo già quel Veronio Carpo, che fu Maggior del Collegio Sevirale (v. Ins. XXIII). È credibile che tal gentilizio nome prendesse principio dalla libertà data ad alcuni servi dalla Republica nostra, poichè servi possedeano i Publici ancora, e i Collegi altresì, i quali nell’esser fatti liberi prendeano alcune volte il nome da que’ Collegi, o dalle città. L’istessa origine avrà avuta la gente Aquileiensia, che in alcune lapide pur s’incontra.

Insigne iscrizion di Trieste città dei Carni, il paese de’ quali si considerò come un’adiacenza della Venezia, e venne compreso in essa, [p. 218 modifica]molto può servire a farci conoscere continuato sotto Antonino Pio l’istesso civil sistema ch’era stato per l’innanzi. Publico decreto de’ Triestini vedesi scolpito in gran piedestallo a onore di Fabio Severo lor cittadino (Grut. 498, 1). Esponsi in esso, come costui per difesa e onore della sua patria avea più volte felicemente perorato avanti l’Imperadore Antonino, e ciò senza alcuna spesa del loro Erario; ch’ei si procurò in Roma la dignità senatoria, principalmente per far bene alla sua patria; che guadagnò più cause per essa ora innanzi a giudici dati dall’Imperadore, ora innanzi a lui stesso, così per la giustizia del Principe, come per la forza del saggio perorare. Grandissimo merito gli si attribuisce per aver lui, come da lettere imperiali appariva, felicemente secondo il comun desiderio impetrato, che essendo i Carni e i Calali stati attribuiti alla lor Republica, potessero quegli uomini anche senza il censo prescritto esser ricevuti nella lor Curia [ch’era come dire nel lor Senato], sostenendo la carica d’Edile, talchè con questo acquistassero la cittadinanza Romana. Si tocca appresso, come ammettendo in questo modo alla comunion degli onori e al godimento della Romana cittadinanza ogni buono e ogni ricco, molto veniva a crescerne il lor Erario, e a rendersi capaci molti del Dccurionato, che altramente ripartito in pochi, per l’incarico e per le spese riusciva grave. Per fine una statua equestre dorata si decreta allo stesso Fabio Severo, nella base della quale l’istesso decreto a perpetua memoria dovesse incidersi; [p. 219 modifica]e onorifiche espressioni si aggiungono verso il padre di esso, che avea procreato e a loro e all’Imperio tal cittadino. Ecco dunque un Triestino Senatore in Roma, di molto potere in essa, e che si dice generato non solamente alla patria sua, ma all’Imperio. Ecco l’ordine con cui si continuava nelle città, ed ecco le prerogative del Decurionato, e l’acquistarsi la cittadinanza Romana con sostener le cariche municipali, il che là conoscere, come la Colonia di Trieste maggior gius non godea, che il Latino. De’ Catali accompagnati nell’iscrizione co’ Carni Alpini riscontro non si trova nella Geografia; ma può credersi quel popolo di poco nome della Pannonia superiore, che si legge per Catari in Plinio (lib. 3, c. 25). Come durasse ancora in questi tempi perfettamente l’idea Romana, può arguirsi in oltre da quella Orazion d’Aristide, fiorito sotto Marc’Aurelio, nella quale esalta i Romani, perchè avea reso il Mondo comune e viaggiabile a tutti; e perchè ad ognuno, purchè di provincia Romana fosse, era lecito venire a Roma, come in patria di tutti; e perchè essendo forza di arrolare in ogni parte dell’Imperio soldati, non credeano di potersene valere con sicurezza, se nell’arrolargli non davan loro la cittadinanza. In questo modo, dice l’Oratore a’ Romani (Or. ad Roman.), voi non private e non esaurite Roma de’ suoi cittadini, e suoi cittadini non per tanto sono i militanti: in questo modo interessati i soldati nella vostra grandezza e nella vostra gloria, rinegan tosto l’antica patria, e quasi se ne vergognano, e si fanno propugnatori acerrimi [p. 220 modifica]della vostra. In alcune lapide municipali osservasi notata la Tribù fin sotto Settimio Severo; donde parrebbe potersi raccogliere qualche convocazion del popolo esser continuata, c per conseguenza l’uso di concorrere anche l’altre città nella elezione d’alcune cariche. L’esser per altro passata Roma a Principato portò tra l’altre mutazioni il trasferirsi l’autorità del popolo nel Senato. A dimezzare la suprema podestà de’ Comizj generali, cominciò Cesare (Svet. Caes. c. 41); ma sotto Tiberio dal Campo a’ Senatori trasferiti per la prima volta i Comizj, scrive Tacito (Ann. lib. 1). Abrogò tal costituzion di Tiberio Caligola, e rese al popolo l’elezione de’ Magistrati, poi di nuovo la tolse (Tac. Ann. lib. 14): perciò in tempo di Nerone i Comizj per la scelta de’ Pretori si veggono in Senato, e sotto Traiano de’ Comizj tenuti in Senato fa menzion Plinio in un’epistola (lib. 3, ep. 10).

Dopo la disfatta de’ Cimbri non ebbero per lungo tempo ardire di pensare all’Italia i popoli settentrionali: ma sotto Marc’Aurelio vediamo in Capitolino che i Catti popoli dell’ulterior Germania invasero la Rezia, a questa parte accostandosi: e poco dopo l’Italia tutta da gran pestilenza afflitta posero in terrore i Marcomani e i Quadi, genti Germaniche. Venne, ad opporsi l’Imperadore in persona insieme con Lucio Vero suo collega. Quella guerra vien posta in linea con le maggiori che i Romani avessero mai da Capitolino, il qual per altro molto poco ne insegna, nè abbiamo chi ordinatamente ce la racconti. Un passo di Galeno, [p. 221 modifica]ove tratta de' libri suoi, ci fa sapere, come gl’Imperadori passarono il verno in Aquileia per esser pronti a primo tempo contra Germani, in quella città essendo da essi quel famoso Medico stato chiamato. Altro di Luciano (in Pseudom.) in un de’ suoi Dialoghi c’insegna, come una rotta ebbero i Romani con morte di venti mila, e che poco mancò Aquileia non fosse presa. Assediata in quella guerra la dice anche Ammian Marcellino (lib. 29, c. 6), ed esterminato Oderzo. Presero poi miglior piega le cose, e Marco più volte vittorioso perseguitò i nemici in Pannonia, e soggiogò del tutto essi ed altri feroci popoli, come dal compendiato Dione. Lucio Vero incamminato verso Roma, tra Altino e Concordia ebbe un tocco d’apoplesia, e ne morì in Altino. Presso la Rezia aver tagliati molti barbari a pezzi Antonino Caracalla, scrive Sparziano. È probabile che quando le guerre co’ Transalpini erano a questa parte, una spezie di piazza d’armi fosse Verona.

Imperfetta sarebbe molto l’Istoria nostra, se tanto ragionandosi d’una città, nulla si dicesse del territorio suo. Città e distretto sono in origine un corpo solo: però scrisse Ulpiano (D. l. 50, t. 1, l. 30): chi è d’un Vico, s’intende aver per patria quella Republica cui quel Vico corrisponde. Nel primo formarsi e distinguersi in membri i corpi civili, quella parte che per coltivare i campi e per comporre villaggi e borghi si allontanava dal maggior luogo, non per questo si separava civilmente, o si considerava poi come aliena. Gli Ateniesi divisero in tribù non meno la provincia o sia [p. 222 modifica]territorio, che la città; e governava il suo mese, e dava cinquanta persone al Consiglio non meno ogni tribù occupante un pezzo della regione, che ogni tribù occupante una parte della città. Somigliante fu 1 istituto de’ Romani, divisa prima in tre parti e la città, come dice Plutarco (in Romul.), e il territorio, come dice Varrone (L. L. l. 4). Servio Tullio ampliata la città, quattro tribù distinse in essa, dette però Urbane, e quindici nel distretto, dette Rustiche. In queste si comprese il fiore della nobiltà Romana, perchè il dar opera anche personalmente all’agricoltura nobilissimo impiego si stimava in que’ tempi; di che veggansi Plinio (lib. 18, c. 13) e Varrone (R. R. l. 2). Quanto potenti fossero le Rustiche fin poco avanti la guerra Sociale, si riconosce in Appiano (Bell. Civ. lib. 4), dove narra che vollero vincerla sopra le Urbane nel contrasto per una legge. Municipii Rusticani nominò Cicerone (pro Rosc.) più d’una volta. Nè i coltivatori de’ terreni abbandonavano le città interamente, poichè si ha da Tullio che anticamente i Romani per castigar Capua, l’avean privata de’ suoi Magistrati, e del suo Senato e Consiglio, e non l’aveano atterrata e distrutta, affinchè gli aratori stanchi dal lavorare i campi avessero ove ristorarsi nelle case della città (De Leg. Agr.). Si vennero poi talmente separando, che cominciarono a costituire quasi un altro corpo; onde veggiamo in più lapide nominata la Plebe Urbana, che vien però a distinguersi dalla Rustica. Distintivo principale tra le città ed i vici si fu, che questi erano [p. 223 modifica]sotto la giurisdizion di quelle. Scrive Siculio Fiacco, essersi detto territorio ciò ch’era dentro i confini, ne’ quali giudicar si potea; e nella legge intorno al fondar Colonia riferita da Igino, in quel tratto e in quella campagna, diceasi, abbia la Colonia gius di far ragione e di castigare (jurisdictio, coërcitioque). Le cause pecuniarie ne’ territori eran giudicate da un Magistrato della città, che si chiamava Difensore, del qual si parla in più leggi. Ma Vici e Pagi anche furono, che si distinser tra gli altri, ed ebber Consigli e dignità, e Duumviri ancora, come i Triumpilini e i Camuni avanti d’essere attribuiti a Brescia, ma perchè componeano con l’unione di molti insieme Comunanze tali, che si venivano ad uguagliare alle città nella forza.

Non mancan luoghi nel distretto nostro, o che fu nostro, i quali posson far pruova di quella parte di nobiltà che dall’antichità procede, siccome nominati in Autori, o in monumenti antichi. Sarmione (Sirmio) fu reso immortale da Catullo, che menzion fece di Cologna (Colonia) altresì. Ov’ora è Peschiera, fu Arilica. Ardelica scrisse chi diede fuori certa lapida gran tempo fa; ma il Rossi fece Arelic; e osservata meglio la nostra XV assai logora, abbiam trovato scriversi veramente in essa Arilic. Onde così va spiegato anche il Vico a nella VII, il che s’accosta più all’Ariolica della Tavola Peutingeriana (Ant. Ver. pag. 214; Gr. 449, 6). In altre due (v. Ins. I e II) abbiam gli Arusnati, che fu il nome della Valpulicella, o di buona parte di essa, come si è [p. 224 modifica]già osservato. Ostiglia (Hostilia) l’abbiam veduta in Tacito, e racconta Plinio (lib. 41, c. 12) l’uso de suoi abitanti nella cura dell’api; che se mancava loro il nodrimento nel paese, mettean gli alveari sopra barche, e di notte gli conduceano per Po alquante miglia più sopra, dove all’alba uscivano al pascolo, e ogni giorno ritornavano. Brentino (Βρέτινα) sembra annoverato da Tolomeo. Paolo Diacono, il quale, se bene inferior di tempo, nelle cose geografiche stette con l’antico, nomina Brentonico, altro luogo ch’è pur ancora della Diocesi Veronese; nomina Mase, o Ennemase, dove altri pensa doversi intender Malsesine, ch’è residenza del nostro Capitan del lago: Maso si dice tuttora nel Trentino comunemente per possessione o tenuta, da massa, o mansum. Nomina Volenes, ch’è stato credulo essere il nostro Volargne; ma sarà Volano, ch’è di là da Roveredo; e nomina il campo Sardis, che senz’altro sarà nome corrotto: fors’era campus Gardae.

Il maggior fiume nostro, che fende per lungo tratto il distretto, titolo d’ameno riportò da Virgilio (Æn. lib. 9) per la chiarezza delle sue acque, e per la qualità de’ paesi che irriga: splendidissimo trai fiumi fu chiamato da Ennodio (in Pan.). Al Tartaro, che nasce nel Veronese e passava per Adria, sembra che nome d’Adriano imponesse Tolomeo, ove fa menzione della sua foce dopo quella del Po. Di questo, e delle sue paludi, dette ora Valli Veronesi, abbiain veduto farsi menzione da Tacito: il nome di Tartaro o da’ Greci gli fu [p. 225 modifica]imposto, o da’ Latini, a motivo che se bene acque ha limpide, come formato da pure sorgenti nelle campagne nostre, fosco par però e bruno per la gran quantità d’erbe varie che ingombrano il suo letto. Ma celebre fu il nostro lago, che si chiamò Benaco, e cui l’istesso Principe de’ Poeti annoverò tra le cose singolari dell’Italia, e gli attribuì la forza e il fremito del mare nelle tempeste (Geor. lib. 2: Fluctibus et fremita, ec., lib. 4 in fin.). Parla Plinio (lib. 9, c. 22) del sito, modo e tempo del prendervisi in prodigiosa quantità le anguille, il che interamente corrisponde a ciò che tuttavia si pratica. Il Mincio, ch’esce del lago, famoso per esser nato su le sue rive Virgilio, fu ricordato tra’ principali fiumi della Venezia da Claudiano (de VI Cons. Hon.):

E l’Adige veloce e ’l pigro Mincio.


Plinio considerò per Mincio anche il fiume influente, e disse che l’acqua sua galleggia sopra quella del lago fino all’uscir ila esso; la qual opinione correva allora anche dell’Adda nel Lario, e del Tesino nel lago Verbano. Polibio, riferito da Strabone (lib. 4 in fin.), diede al nostro il primo luogo fra tutti i laghi d’Italia, e disse esser lungo 500 stadii, largo 150, assegnando il secondo al lago Maggiore, cui disse lungo 400, e più stretto.

Ma moltissimi sono i villaggi, quali erano fin dal tempo de’ Romani; il che, se ben menzione non se ne trova, manifestasi da’ loro nomi, per essere non della volgare, ma della Latina lingua. Antichi, per cagion [p. 226 modifica]d’esempio, sono i nomi composti con la voce Vico, che in Latino volea dir villaggio: così Vico, Bonavico, Cordevico, Vicasio, ed altri. Antichi son per lo più li denominati Borghi o Castelli, venendo dalli fatti per difesa ne tempi bassi, come si ha in Orosio, e in altri (lib. ult. c. 33). Antichi son quelli che dinotavano congerie d’alberi, come Albarè, Roverè, Castagnè, Olivè, e simili, che furono Arboretum, Roboretum, Castagnetum, Olivetum: abbiamo Erbe, che mostra essere stata voce Latina anche Herbetum: abbiamo Asparè, che fu Λspretum, nome che indicava luogo aspro e sassoso, e dovea esser voce particolare della Venezia, perchè si vede in Livio (l. 9, l. 27) più volte (l. 4, c. 22), e non so che si vegga in altri Scrittori. Anche Cerea fu così della per luoghi abbondanti di cerri, se fu Cerretta, e d’aceri, se fu Acereta. In altro modo ancora venner nomi ai luoghi dagli alberi; come quelli che abbiamo di Querni e di Colurni [altrove Colorno], voci mere Latine per indicar cose fatte di legno di quercia o di nocciuolo; quernus da quercus, e colurnus da corylus. La desinenza di Pastrengo, Pozzolengo, Bussolengo, frequente anche nel Bresciano, venne da pastoricus, puteolicus, buxolicus, che dovea essere inflession famigliare in tai luoghi. Pastorica pellis ho veduto in un buon manoscritto d’Ovidio (Met. l. 2), ove le stampe hanno Pastoria: ma il popolo doveva in queste parli pronunziar pastorincus, puteolincus, buxolincus; i dialetti Latini corrotti aveano inflessioni e modi che non ci son [p. 227 modifica]rimasi ne’ libri. Cosi Brognoligo sarà stato pruneolicus, che non breve come Argolicus, ma doveano popolarmente pronunziar lungo. Nel Piemonte e frequente la desinenza in asco, perchè nel parlar Latino dovea esservi frequente quella in aticum, che in quel paese si sarà pronunziata in ascum: così Civasco da cibaticum, Piozzasco da Plotiaticum, Bagnasco da balneaticum: ammalia herbatica disse Vopisco: da fugiaticus si è fatto fugiasco; e da Maioraticum Maggiorasco. Alcuni de’ nostri nomi sono anche nati dai diminutivi Latini, come Rivole da ripulae, Celiore da cellulae, Colognola da Coloniola, Palazzolo da Palatiolium: altri uscirono in ecchio, come Montecchio da monticulus, e in Toscana Apecchio da apiculus. Molti nomi venner poi dalle famiglie che possedeano i fondi; come Quinzano dalla gente Quinzia, Pollano dalla Pollia, Povigliano dalla Pobilia, Marano dalla Maria, Cazzano dalla Catia, Desenzano dalla Decentia, e più altri. Caldiero deriva da Caldarium, così detto dal bagno minerale che vi si trova; volgarmente dovea forse dirsi Calderium: nell’Itinerario Bordegalese mal si scrive Cadiano. In molti pure la voce Latina ancor si ritiene, variata solamente qualche lettera o sillaba per la volgar pronunzia; come Progno nella montagna da pronus, che si sarà così detto per essere in costa: in pronis, cioè in siti di pendio, dee leggersi in Plinio (l. 17, c. 11), ove le stampe hanno in prunis. Sono di questo numero Custoza da custodia, Chievo da clivus, Fiessi da in flexu, Lugo da lucus, Prun [p. 228 modifica]da prunus, Bolca da bubulca, Fane da fanum, Vo da vadum, Menerbe da ad Minervae, o da Minervium, cioè tempio di Minerva; Moradega da moratica, ritardativa, come luogo paludoso; Anghiari da in glarea, Sommacampagna da summa campania, Avi da avium, Oppeano da oppidanum, e altri tali, che non sono per se vocaboli o modi della volgar lingua, ma che non occorre andar ricercando più minutamente. Una sola osservazione aggiungeremo, che potrà in molte occasioni esser utile. Il nome antico e Romano portano senza dubbio tuttora que’ villaggi che son denominati da numero. Abbiam nel contado nostro due Quinti, e abbiam due Settimi, cosi detti dall’uso antico di segnar su le vie ogni miglio dalla città con pietra o cippo, e dall’esser que’ luoghi allora situati appunto nella distanza ch’esprimono. Motivo da ciò abbiam preso d’imparare come le miglia Romane eran minori la quinta parte delle moderne: tanto riconoscerà chi si prenderà piacere di far misurar le distanze dalle città de’ luoghi così chiamati. Quinci è che abbiam veduto darsi da Stabone 500 stadii di larghezza al nostro lago, quali computandone otto per ogni miglio, com’egli fa, e Polibio altresì, vengono a dare 62 miglia; la qual misura cresce alquanto più d’un quinto di quella che in oggi gli diamo. Presso altri gli otto stadii faceano alquanto più d’un miglio. Dall’Itinerario Trento si là lontano da Verona 60 miglia, quali in oggi abbiamo per meno di 48. Quel monumento ci darebbe di ciò piena [p. 229 modifica]dimostrazione, se in esso potessimo fidarci delle note numerali, e se avessimo cognizione della diversa linea presa da molte strade nel cambiar qualità i paesi. Per altro questa osservazione non si verifica nel paese nostro solamente. Vigesimo nel Fiorentino, ov’è la Badia de’ Vallombrosani, non si fa ora venti miglia distante da Firenze, ma sedici. Nè mutò punto tal uso di misure per la venuta in Italia delle genti barbare, poichè a’ tempi di Paolo Diacono si facca Monza dodici miglia da Milano, che ora si hanno per dieci; e scrive Liutprando, Autore del decimo secolo, Brescia esser lontana da Verona 50 miglia, che ora si computano per 40 (l. 2, c. 16: Brixianae civitatis, quae L. milliariis a Verona distat).

Non fu scarso anticamente il paese di produzioni che meritassero esser rammentate dagli Scrittori. Quell’uva tra le nostre che si dice Retica, fu sommamente lodata dall’antico Catone, che visse nel sesto secolo di Roma, e se prestiam fede a Servio, fu poi altrettanto biasimata da Catullo (ad Geor. lib. 2: Cato praecipue laudet, ec.). Le viti Retiche rammentò con molta distinzione Virgilio (Geor. lib. 2: et quo te carmine dicam Rhetica?), e pare giudicasse il loro vino unicamente inferiore al Falerno. Augusto se ne compiacque singolarmente (Svet. Aug. c. 77). Fa fede anche Strabone (lib. 4) come non cedea la palma a’ più lodati vini d’Italia, e come a piè de’ monti Retici proveniva. Ma che tal vino, benchè così nomato, si facesse nel Veronese, impariam da Plinio, il qual nell’annoverare i vini [p. 230 modifica]più perfetti, ricorda i Retici nel Veronese, posposti solamente ai Falerni da Virgilio (l. 14, c. 6: In Veronensi item Rhetica, ec.); e lo ricaviam da Marziale, ove accenna che i vini Retici venissero dalla terra del dotto Catullo (l. 14: Si non ignota est docti, ec.). Anzi bella notizia ci reca il titolo, che pur è antico, di quel Distico: Panaca Veronensis. Siccome la prima voce non avrebbe significato, così è fuor di dubbio, o Panace doversi leggere alla Greca, o Panacea alla Latina; onde ne impariamo che Panacea Veronese chiamavasi a Roma il vin Retico, perchè ai seguaci del buon Lieo dovea parere un balsamo per tutti i mali. Poco felicemente pensò qui il Radero, che i Panaci fosser popoli. Dell’uve da mangiare abbiam dell’istesso Plinio (lib. 14, c. 1: Rheticis prior mensa erat, et uvis Veronensium agro), come avanti Tiberio, il quale altre ne pose in credito, fino in Roma delizia della prima mensa erano le Retiche, e quelle del territorio Veronese; nel qual passo ben conobbe il Cluverio (lib. 15, c. 14: in uno Italiae agro Veronensi nascentia) che la particola congiuntiva soprabbonda, e dee leggersi Retiche, uve del territorio Veronese. Un frutto rammentò il medesimo Autore (lib. 18, c. 11), che facea unicamente nel Veronese, cioè il tubero lanato3, pomo così detto dalla lanugine che avea su la scorza. [p. 231 modifica]Parlò dell’Alica4 altresì, spezie di grano, nella quale affermò doversi sopra l’Egitto e sopra ogni altra parte all’Italia la palma, e facea singolarmente nel Veronese, nel Pisano e nella Campagna. Di lana Veronese non si fa espressa menzione negli Antichi, come si fa da Plinio e da Petronio Arbitro di quelle di Puglia e di Taranto, che nell’Italia meridionale erano stimale sopra l’altre, e come delle nostre parti qual molle e fina mentova Strabone ( lib. 5) quella di Modana, aspra e forte quella di Liguria, e mezzana tra queste quella di Padova, della quale preziosi tappeti e arredi si fabricavano di varie maniere. Marziale alle lane di Puglia diede la palma fra tutte, il secondo luogo a quelle di Parma, il terzo a quelle d’Altino. Ma che nel Veronese ancora e lana e lavori di lana fossero in pregio, io l’argomento dall’osservare nel medesimo Marziale, come si stimavano tra tutte le coperte da letto di Verona (lib. 14. Lodices mittit docti tibi terra Catulli):

Del buon Catullo il suol coltre ti manda.

Dice Plinio che delle lane bianche non cedeano a verun’altra quelle d’intorno al Po, tra le quali anche quella di Verona potea comprendersi. Passato per antica tradizione, come voce mera Latina, si riconosce in oltre il termine Veronese di trelizza, con cui fin nel secolo del 1300 trovo si dinotava la spezie principale de’ panni che qui si lavoravano. La forza [p. 232 modifica]del vocabolo indicava presso i Romani opera a tre fili, onde auroque trilicem disse Virgilio una lorica (Æn. lib. 3).

Non è da tralasciare la distinta memoria di due vini Veronesi che ci ha conservala Cassiodorio (Var. lib. 12, Canonicario Ven. ec.), scrivendo a colui che avea cura in queste parti delle contribuzioni fiscali a tempo cl’Atalarico. Dopo aver premesso doversi per la regia mensa far venir d ogni parte le più rare cose, così proscguisce: «e perciò son da procurare i vini che la feconda Italia singolarmente produce, acciocchè non paia aver noi trascurate le cose proprie, quando cercar dobbiamo anche le slraniefe. È stato dunque significato per relazione del Conte del Palrimonio, il vino Acinatieo, che dagli acini ha il nome, ne’ vasi di Corte esser diminuito; e poichè tulle le Dignità debbonsi scambie«volmente somministrar quelle cose che al servigio appartengono de’ Padroni, ordiniamo a voi di portarvi dai Possessori Veronesi, dove di tal faccenda è sin gola l’cura; acciocchè ricevuto il competente prezzo, niun ricusi di vendere ciò che al compiacimento del Principe dee servire. Spezie di vino veramente degna che se ne vanti l’Italia: imperciocchè se bene l’ingegnosa Grecia, di varie e fine diligenze lodala, e condisce i vini suoi con gli odori, e con marine mischianze dà lor sapore, niente ha però di così squisito. Questo è puro, per sapor singolare, Regio per colore; talchè o ne’ suoi fonti tu possa creder tinta la porpora, o [p. 233 modifica]dalla porpora espresso il liquor suo. La dolcezza in esso si sente con soavità incredibile, si corrobora la densità per non so qual fermezza, e s1 ingrossa al tatto in modo, che diresti essere un liquido carnoso, o una bevanda da mangiare. Vogliam riferire quanto particolar sia il modo di farlo. Scelta nell’autunno l’uva dalle viti delle domestiche pergole, sospendesi rivoltata, conservasi ne’ vasi suoi, e negli ordinarj repositorj si custodisce. S’indura dal tempo, non si liquida: trasudando allora gl’insulsi umori, soavemente addolciscesi. Tirasi fino al mese di decembre, finchè l’inverno la faccia scorrere, e con maraviglia cominci il vino a esser nuovo, quando in tutte le cantine si trova già vecchio. Mosto invernale, freddo sangue dell’uve, liquor sanguigno, porpora bevibile, violato néttare. Cessa di bollire nella sua prima origine, e quando può farsi adulto, comincia a parere per sempre nuovo. Non si percuote ingiuriosamente con calci l’uva, nè con mischiarvi sordidezza alcuna s’infosca; ma vien eccitata, come alla sua nobiltà si conviene. Scorre quando l’acqua indurisce, è feconda quando ogni frutto de’ campi è svanito, stilla dagli occhi suoi liquor corrispondente, lagrima non so che di giocondo, cd oltre al piacer del dolce, singolare,è nella vista la sua bellezza. Questo vino ricercato quanto prima, e a convcnevol prezzo raccolto, consegnate a’ carradori perciò mandati, che lo portino. Nè crediate di dover trascurare quell’altro [p. 234 modifica]vino che riluce come lattea bevanda, poichè sarà più mirabile, come più difficile da rinvenire. Bella bianchezza è in esso, e chiara purità, di modo che quello da rose, questo si crederebbe nato da gigli. Diverso per colore, somigliante è però nel sapore; vario è l’aspetto, ma pari nell’uno e nell’altro la soavità. È a lor comune l’aver sapore acuto, e il rinvigorir subito; ma molto differente hanno l’apparenza: tu vedi questo lietamente rosseggiante, e miri quello gioviale per candidezza. E perciò sia prontissima la perquisizion di essi, quando ugnalmente desiderabili ambedue si ravvisano.»

Chi vorrà con questo volgarizzamento riscontrare il testo, conoscerà, come abbiam letto in thecis aulicis, dove le stampe portano Enthecis, ἐνθήχαι5, col qual Greco nome s’intendono nelle Pandette le doti delle possessioni, cioè que’ strumenti rustici che vi si trovan sopra; ma ciò non ha in quel luogo a far punto. Abbiamo ancora letto Carrariis, dove le stampe hanno Chartariis, non facendo quivi Cartarii a proposito: non si sarà forse più veduto carrarius, ma potea farsi da carrus, come carrucarius da carruca usò Ulpiano, ed altri. Per Possessori Veronesi s’intendono i Decurioni, col qual nome spesso si chiamavano in quell’età. Appare che il secondo vino ancora, il qual era bianco e più raro, si facesse nel Veronese, essendo tanto simile nella [p. 235 modifica]sostanza, e accoppiandosi con l’altro, del quale la Rettorica alquanto Gotica, di cui fece Cassiodorio assai pompa, e che spesso oscura il significato, non ci lascia ben affatto comprendere tutto ciò eli ci ne dice: ma il nome d’Acinatico, che viene a dir granellato, sembra farci intendere che si spremesse il mosto dalle sole spicciolate granella, separati i graspi: a questo vino penso però alludesse Catullo, ove disse ebriosa acina (Epigr. 25). Ma forse ebbe altro nome nelle più antiche età, poichè Plinio nol mette, e con nome d’Acinaticum, o d’Acinaceum par che altra cosa intenda Ulpiano in una legge (D. de trit. et vi. l. 9). Il servar l’uva scelta fino a decembre, lo spremerla poi delicatamente nel gran freddo, e il riporre il mosto senza metterlo a bollire, conservandolo assai tempo, prima di porvi mano e di berlo, fanno conoscere che questo vino, benchè rosso e non bianco, in sostanza fosse pur quello che con l’istesso applauso facciamo ancora, onorandolo del nome di Santo. Si fa anche nel Bresciano di qua dal Chiesio, e dovea farsi anche in quel tempo; ma con tutto ciò solamente a’ Decurioni Veronesi se ne fa richiesta, perchè quel tratto era allora del Veronese. Il dirsi da Cassiodorio, ch’era denso e carnoso e solido al tatto, e non sol bevanda, ma cibo, vuol attribuirsi all’enfasi sua, come quando dice del bianco, ch’era di color di latte. Simili in tutto son per altro fino in oggi le nostre volgari espressioni, quando udiam dire che un vino ha corpo, e che in esso si bee e si mangia.

[p. 236 modifica] Una delle più importanti ricerche che far si possa da chi scrive l’Istoria d’una città, dovrebbe esser quella d’indagare gli antichi suoi confini, e i termini del territorio suo e della giurisdizione. Ci converrà in questa parte confermar qualche volta anche con monumenti di basso tempo gli argomenti e le congetture. Confine adunque de’ Veronesi a Mezzogiorno fu il Po, trenta moderne miglia dalla città; il che si dimostra per Tacito (Hist. lib. 3: Hostiliam vicum Veronensium), che chiama Ostiglia Vico de’ Veronesi; e con Plinio, da cui s’impara, come Ostiglia era anche allora sul Po: forse per tal nome, che sembra diminuito alla Greca, vien indicato che Porticelle6 e bocche fossero quivi allora, per le quali si scaricasse in Po parte dell’acqua di quella palude, e de’ piccioli fiumi che in essa mettono. Continuò quella terra ad esser di nostra ragione quasi fino al 1400, e continua ad esserne tuttora nell’Ecclesiastico. Dall’esser compreso nella Diocesi nostra insieme con più altri luoghi del Mantovano anche Belforte, o sia l’uno de’ due castelli, che porta l’armi Scaligere ancora, sette miglia da Mantova, si rileva fin dove arrivasse già il tener nostro da quella parte. Il Castellaro, donato nel 1082 dall’Imperadore Enrico al Vescovo di Trento, dicesi nel diploma ch’era presso il confin Mantovano, e però nel Veronese (Ughel. t. 5, c. 594)

A Ponente nostro confine fu il Chiesio, trenta [p. 237 modifica]miglia dalla città parimente, e dieci da Brescia. Ne abbiam citato a suo luogo per infallibil testimonio Polibio. Fin là procede ancora la giurisdizion nostra nell’Ecclesiastico, avendo sotto di se le due nobili castella di Desenzano, che fa ora coll’ampia Comunità della Riviera e di Lunato, ch’ora è sotto Brescia. Tutto quel tratto fu del Veronese anche in civile fino a prossimi secoli. Quando e come il gran danno di perderlo alla nostra città avvenisse, non abbiam sicuramente rilevato ancora; ma Desenzano si vede ancora del Veronese in una carta del 1154 (Ughel. t. 5, c. 795); e autentico rogito presso noi dell’onesto notaio di Lonato Michel Panizza fa vedere come tra i Fondamenti della separazione di quel castello dalle ordinazioni e imposte di Brescia, si trova una Fede dell’essere per avanti detta Terra stata soggetta alla Comunità di Verona, e dell’esservisi da Verona mandalo il Podestà: donde appare che fosse anche in civile del Veronese almeno fino al duodecimo secolo, quando l’ufizio e il nome di Podestà in queste parti fu posto in uso. Diremo qui per risarcire al territorio Bresciano il danno, come istrumento appare del 1404 nella Cancelleria di Lonato, con cui per debito col Marchese di Mantova a motivo di stipendj e di lancie condotte da esso al suo servigio, Regina dalla Scala Duchessa di Milano, e curatrice del figliuolo Gian Maria Visconte, gli dà in pegno Castiglione delle Stivere, Castel Giuffredo e la villa di Solfrino; i quali luoghi, ora del Mantovano, si dicon quivi del distretto di Brescia; e in fatti son [p. 238 modifica]pur tuttora della Diocesi Bresciana. Fu dato nell’istesso tempo in pegno al Marchese di Mantova Lonato col suo castello; onde non par che sussista il detto di Mario Equicola nell’Istoria di Mantova (lib. 2), che Carlo IV nel 1354 donasse Lonato a’ Gonzaghi. Più altri de’ nostri luoghi per vari accidenti smembraronsi, e fin Peschiera, onde poi nelle restituzioni e ricupere della suddetta parte applicata al Bresciano venne il nostro territorio a patir disastro.

Andando da Ponente in Tramontana, non si può precisamente asserire dove i termini fossero. Al presente la nostra giurisdizione comprende tutta l’acqua in ogni parte, e non più: ma la Diocesi molli luoghi abbraccia che son d’altro distretto, rigirando fino a Portese, e fino al golfo di Salò medesimo. E poichè avvenne qualche volta per alcun insolito e raro caso, che anche le Diocesi Ecclesiastiche patissero mutazioni, non lascerem di accennare, come non lievi indizj abbiamo dell’essere stato una volta di nostra ragione tutto il circondario del lago. Bizzarra è la linea immaginata in erudito libretto (Parer. p. 123), per cui si venisse già a costituire quasi la metà dell’acqua di ragion Bresciana: tale immaginazione da un diploma prende motivo, in cui nè lago di Garda, nè sua acqua si nomina, e che patisce più difficoltà. Ma bizzarro è non meno il credere che il nostro possesso di tutto il lago non abbia più antico fondamento di certo diploma che si dice dato a Mastino dalla Scala. Di quel diploma falso o ridicolo noi rendiam grazie a [p. 239 modifica]chi vuol farci onore; ma diremo in vece, come da Plinio, alquanto più antico di Mastin dalla Scala, abbiamo che questo lago era a tempo suo nel territorio Veronese (lib. 9, c. 22: in Veronensi agro); il qual parlare indicar sembra che dal terren Veronese fosse all’intorno compreso. Notasi nei vecchi disegni del territorio nostro, come a Campione sia il confine di tre Vescovadi7. Di tal luogo intese Dante, ove disse (Inf. can. 20):

          Luogo è nel mezzo là, dove il Trentino
               Pastore, e quel di Brescia e ’l Veronese
               Segnar patria, se fesse quel cammino:


il che non si sarebbe potuto verificare, se l’acqua, benchè toccante le rive Trentina o Bresciana, non fosse stala pur anco allora di giurisdizion Veronese. Però in occasion di solenni e replicali giudizj con la Riviera, che facea istanza per aver gius sopra l’acqua prossima alle sue rive, fu poi fin dal 1433 sostenuto a Venezia felicemente il nostro diritto sopra tutta l’acqua, e confermato con Ducali, spezialmente nel 1468, per l’antichissimo immemorabil possesso. Ora questo antico possesso fino a ogni riva può far credere molto ragionevolmente ch’anco il littorale fosse un tempo dell’istessa ragione. Ma veggiamone maggiori argomenti. Il luogo capitale e più famoso sul lago, come ne’ tempi di mezzo fu Garda, così negli antichi fu Tusculano, essendo che Salò non vi era [p. 240 modifica]ancora. Appar ciò chiaramente dalle lapide trovate in quella Terra, ed erette agl’Imperadori in nome de’ Benacesi. Una ne abbiam poi bellissima nel Museo in onor di Commodo (v. Ins. XXXVII), che si rende per più ragioni osservabile. I Benacesi non già della sognata città di Benaco, ma erano abitatori de’ villaggi e de’ borghi per lungo tratto d’intorno al Benaco distesi, e formavano una Comunità che tenea in Tusculano la sua radunanza ed il suo Consiglio. Ora poichè il Benaco era nel Territorio Veronese (Plin. in agro Veronensi), non par credibile che il luogo principale de’ Benacesi ne fosse fuori. Aggiungasi il nome di tal terra, che la mostra non Gallica, qual era il paese di là, ma Toscana, come disse Catullo essere il lago: i Sacri Tusculani erano anche in Trento, come paese Retico (v. Grut. 479, 6).

Ma su l’ultima estremità del lago, dalla parte al Veronese opposta, è Riva, della qual nobil terra le più antiche memorie che si trovino, son del secolo del 900, in due insigni documenti del nostro Capitolo Canonicale, stampati già dall’Ughelli; e in ambedue vedesi com’era fin d’allora, e per conseguenza era sempre stata, di ragion nostra, nominandovisi due casali del Contado Veronese nella Corte Regia che si chiama Riva (t. 5, c. 746: in Comitatu Veronensi Corte Regia quae vocatur Ripa). La rocca sul lago e l’altra sul monte vi furono edificate dagli Scaligeri, e parimente il palazzo publico, come si è imparato da un epigramma scolpito in pietra, scoperto tre anni sono nella [p. 241 modifica]ristaurazion di esso. Restò ceduta al Vescovo di Trento nella Pace del 1517, con quel distretto e giurisdizione che possedeva, la quale non si estendea punto su l’acqua, più decreti avendosi fin dal 1490, che vietavano al Proveditor di Riva il pretender su l’acqua ingerenza alcuna, come non potrebbero al presente pretenderla i Proveditori di Salò e di Peschiera, rimanendo il lago sotto il Reggimento di Verona. Quindi è che le barche armate del nostro Capitano continuaron sempre le guardie loro nelle parti superiori, benchè circondate dalle rive Trentine, esprimendo anche il nostro Statuto, stampato nel 1475 ch’ei debba invigilare per tutto il lago quanto gira, e fino alle rive benchè esterne, cioè d’altro Stato, escludendo solamente le rive istesse, cioè la terra (lib. 1, c. 97: per universum lacum usque in ripas forenses exclusive). Andrea Scotto nell’Itinerario prende la lunghezza del Veronese da Torbole al Polesine; dunque Veronese era tenuta allora comunemente l’acqua tutta. La Val di Leder fu altresì di nostra ragione, sapendosi che gli Scaligeri vi aprirono una strada nel sasso. La Val di Temi, divisa dal fiume Varone, essere stata un tempo del territorio Veronese, imparasi dal proemio del nostro vecchio Statuto; come esserne stato Torbole si riconosce da più memorie.

Lungo l’Adige, che si stendesse più oltre il nostro distretto, lo mostrano il Borghetto, Avi e Brentonico, che alla Diocesi Veronese son tuttavia sottoposti. Veggonsi in oltre due Epistole del sommo Pontefice Giovanni ottavo, in [p. 242 modifica]cui afferma, esser di ragione del Vescovo di Verona alcuni averi pretesi da quel di Trento nella villa Asiana (Conc. t. 9, ep. 267): dove è credibile debbasi leggere Aliana, e intender d’Ala; quale col rimanente della val Lagarina diventò ancora un’adiacenza del Veronese, quando per testamento d’Azzo Francesco di Castelbarco nel 1410 ne rimase erede il dominio Veneto. Roveredo restò poi annesso alla Contea del Tirolo e alla Reggenza d’Inspruc per l’istessa Pace del 1517; ma non mancan motivi di credere che tutta quella florida Valle fosse già staccata dal Veronese, fin da quando l’Imperador Corrado ne fece dono a’ Vescovi di Trento, da’ quali poi ne fu gran parte infeudata a diversi. Il proemio del nostro Statuto tra i paesi la registra, che furono in questo territorio: ebbe già il nome di Laguro8, luogo nominato da Paolo Diacono (Vallibus etiam Temi et Lagari lib. 3, c. 9), di cui orma non resta che ci sia nota. L’Itinerario detto d’Antonino nel viaggio da Augusta a Verona, fra Trento e Verona, 36 miglia da questa, mette ad Palatium. Rimane il nome di Palazzo ancora ad alcune reliquie d’antichi muri presso Santa Margherita di là da Ala; sito che in oggi si calcola poco più di trenta miglia distante da Verona, secondo la distanza dell’antiche miglia da noi osservata. Le carte del Magini mettono quivi Manison, il qual nome mostrerebbe esservi stata Mansione.

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Dalla parte di Levante Cologna, ch’ora fa governo da se, era di nostra ragione a tempi di Catullo9 [O Colonia, ec..... Quemdam municipem meum, ec.], che desiderava gettar da quel ponte certo suo patriotto, e che ne mentova le fangose acque: così giudicò il Guarini nel suo comento, poco felicemente avendo pensato il Cluverio (lib. 10, c. 12) dovesse intendersi di Mantova. Del distretto di Verona la dice Rolandino Padovano (Colonia quae est in Veronae districtu, pag. 19. Rer. Ital. t. 8, pag. 381: Castrum Coloniae in Veronensi districtu); e tal si vede ancora fin nell’anno 1411 in un documento citato nel Sommario de’ titoli del Monastero di S. Giorgio, stampato a Venezia. Vedremo nel decorso per una Memoria di vision di luogo fatta in occasion di litigio per confini, come da quella parte fin ne’ bassi tempi confinava il contado di Verona con quel di Monselice10, donde ben si può conoscere quanto allora fosse avanzato. Procedendo oltra l’Adige, è probabile che si stendesse quivi il Veronese ancor più innanzi, poichè Ferrara e Rovigo, con le quali al presente s’incontra, ne’ tempi Romani non v’erano, e il suo confine era con la piccola città d’Adria, nominata da Strabone in diminutivo. Della Badia che si disse già di Vangadicia, ed è ora un de’ principali castelli del Polesine, dicesi nel primo libro de’ nostri Statuti, che in [p. 244 modifica]continuazione del nostro antico possesso (lib. 1, c. 25: nostram antiquam possessionem) non possa l’Abate porre o ricevere Podestà in luogo alcuno di sua ragione, che non sia Veronese. Lusia, villaggio a otto miglia da Rovigo, era del Veronese nel 1079, quando il Capitolo di Verona lo diede a livello al Marchese Azzo da Este (Ant. Est. c. 47). Non faccia difficoltà alcuna, per la regola altre volte da noi fermata, il non esser questi luoghi soggetti al Vescovo di Verona; perchè essendo il Polesine provincia per la maggior parte nuova, e formata dalle alluvioni dell’Adige e del Po, le più delle sue terre nacquero assai tempo dopo l’antico e primo stabilimento delle Diocesi. Termineremo con osservare, come il proemio premesso alla prima stampa de’ nostri Statuti, fra’ luoghi più insigni ch’erano allora o erano stati di giurisdizion Veronese, e compresi nel territorio nostro, oltre alle Valli Lagarina e di Temi, nomina Riva, e Peschiera e Lonato: Desenzano non era ancora sì grosso borgo, com’è poi divenuto, onde meritasse spezial menzione. Annovera parimente Ostia, Cologna, Legnago e la Badia: di tutti i quali sette luoghi ben con ragione dicesi quivi, esser mezze città. Ora una sì grande estension di paese manifesta l’antica grandezza e l’antica forza di Verona ancor più sicuramente, che la magnificenza degli edifizj. Tra i contrasegni della floridezza di Bisanzio mette Erodiano il distretto grande e felice (l. 3, c. 1: γῆν τε πολλήν. ec.). Libanio per esaltare Antiochia adduce il godersi da essa molto terreno (Opusc. 1: καὶ ποσὴν νέμετα γήν). In Italia per [p. 245 modifica]verità non so qual città così ampio territorio avesse. Nella Venezia certamente in assai minori confini ristringeano Aquileia le prossime città Trieste, Foro Giulio e Concordia; e ristringean Padova, detta da Strabone la più insigne del suo contorno, le vicine città Este, Altino e Vicenza.




Note

  1. S. Aug. de Civ. Dei lib. 5, c. 17: quod postea gratissime atqua humanissime factum est, ut omnes ad Romanumi mperium pertinentes societatem acciperent civitatis, et Romani cives essent.
  2. Forse può far credere molto antico e di que’ tempi l’Arco, perchè dopo gl’imperatori è credibile non si facessero più cosi fatti monumenti ai privati.
  3. Tubera lanea. Vedi Salmasio sopra Solino. V. Hard. Svet. in Claudio al fine, Ateneo, Marziale. Non si sa che frutto fosse. V. prima Plinio, se tuber si dica d’altro frutto.
  4. De Alica ha scritto il Peccana
  5. V. Muratori, Antiq. Med. Ævi, t. 2, pag. 1198.
  6. L’Autore accenna in margine de1l’esemplare postillato, che sussistono ancora. — Gli Editori.
  7. V’è chi dice s’incontri questo triplice confine nel tener di Salò.
  8. A questo luogo trovasi aggiunto di margine Bagaro, Bargo, Barco. — Gli Editori.
  9. Vedi gli errori del Volpi in Catullo. — V. Opuscoli Calogerà, t. 14, p. 10: mostrano Ducale del 1406, che gli sottrae.
  10. Vedi ne’ citati Opuscoli Calogerà, pag. 100, la Memoria nominata.