Vera storia di due amanti infelici ovvero Ultime lettere di Iacopo Ortis (1912)/Lettera X

Lettera X

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LETTERA X

23 ottobre.

Piú volte incominciai questa lettera; ma la faccenda andava assai per le lunghe: e la bella giornata..., la promessa di trovarmi da Teresa per tempo..., e la solitudine (ridi?), la solitudine mi distraeva. Ier l’altro e ieri mi sveglio proponendomi di [p. 87 modifica] scriverti; ed eccomi invece, senz’awedermi, alla villa. Non è per questo ch’io mi sia dimenticato di te. Mia madre può a sua posta ripetere che «la felicitá è l’oppio dell’amicizia»; antico proverbio, ch’ella ha imparato quando mio zio prevosto me ne fece apprendere un centinaio: qui, con sua pace, non è a proposito.

Piove, grandina, fulmina. Penso di rassegnarmi alla necessitá e di profittare di questa giornata d’inferno, scrivendoti.

Sei o sette giorni addietro, usciva poco prima del mezzodí dalla casa di Teresa, ov’io me n’era andato a mangiare la zuppa di latte con Odoardo e con la ragazza. Mentr’io scendeva le scale, Teresa mi pregò di fermarmi a pranzo, ed io ne la ringraziai, perch’era mia intenzione di tornarmene a casa, sperando di trovarvi tue lettere. M’avea giá allontanato dalla villa un buon mezzo miglio, quando m’avvidi che il tempo minacciava, e alcuni nuvoloni, che, passeggiando per l’orizzonte, s’ammassavano sopra il mio capo, mi consigliarono ad accettare l’invito e a tornare alla villa. Che il diavolo mi porti! (direbbe Michele) s’io non proseguiva il cammino, affrontando il vento, il freddo e la pioggia imminente, se avessi saputo... Perché, entrando francamente nella saletta, m’apparve Teresa seduta sopra un soffá, che s’asciugava le guance, e Odoardo che, cingendole con un braccio il fianco, stava con la fronte appoggiata sopra la di lei mano sinistra, che giacea presso un ginocchio. Tu vedi bene che egli non poteva vedermi, e ch’io..., a dirti il vero, io... Certo, non so cosa avresti fatto nel mio caso, o Lorenzo. Per me, mi stetti ritto su la porta tra il sì e il no di fermarmi o di andarmene, poiché Teresa, che se ne avvide, non osava guardarmi, ed io alzava appena gli occhi sopra di lei, e li abbassava arrossendo. Cercai per tutta la sala se per accidente ci fosse la Giovannina, per appigliarmi così al pretesto di prenderla in braccio e di lasciarli senza affettazione; ma la Giovannina era fuori coll’ortolano a comperare le ova fresche da una buona vecchierella che sta presso alla chiesa. Girai l’occhio verso la finestra per affacciarmivi, fingendo di non averli osservati; ma le invetriate stavano chiuse, [p. 88 modifica] e l’aprirle faceva rumore... Insomma, tutto perplesso, stava per scendere...; senonché Teresa mi chiama a nome, mirandomi con un sorriso così patetico e con tanta semplicitá, ch’io non posso ancor ripensarvi senza sentirmene innamorato. A quella voce Odoardo si scosse e mi guardò senza proferire parola. Io mi avvicinava, pentito quasi di averli turbati, quando quell’angelica donna, asciugandosi ingenuamente col fazzoletto la mano che Odoardo le aveva inondata di lagrime, mi disse: — A momenti lo perderemo. — Io non sapeva che mi rispondere. — A momenti!... — replicò Teresa. Tutti e due fissaronsi sopra di me; ed io, quantunque, sorpreso e agitato, mi sentissi dentro di me quella commozione che ci fa piangere con certa voluttuosa tristezza al pianto di una amabile addolorata, soffocava il mio sentimento per non parere indiscreto, quasi esigendo che per riconoscenza mi dovessero confidare il secreto del loro dolore. Ma Odoardo, stringendomi la mano: — Conviene ch’io vi lasci! — ei mi disse; — conviene ch’io per affrettare la mia felicitá abbandoni Teresa... — Ammutolì, come se un profondo pensiero gli vietasse di proseguire, e mi strinse piú fortemente la mano. O mio Lorenzo! mi sarei gettato fra le sue braccia, quasi quasi per dirgli che Teresa sarebbe stata sempre al mio fianco, e che noi avremmo ingannate le lunghe e noiose giornate parlando sempre del nostro amico e affrettando con le nostre preghiere il suo fausto ritorno.

La Margherita gridò: — A tavola, a tavola. — Pranzammo taciturni: sennonché, prima d’alzarci, la Giovannina, spicciolato un melograno, ne offrì parte sopra un piattellino a Odoardo, chiedendogli in premio due baci. Ei la guardò sospirando, e, baciatala affettuosamente, s’alzò d’improvviso, e, schiudendo le finestre che guardano i colli, vi si affacciò per qualche tratto, come se volesse nascondere o rattenere le lagrime.

Teresa c’invitò al giardino, e vi s’avviò conducendo a mano la figlia. Io le teneva dietro: Odoardo tardò alcun poco, cercando nel suo gabinetto di un libro; poi mi raggiunse in fondo alle scale. Il mal tempo s’era giá dissipato e faceva il piú bel dopopranzo del mondo. [p. 89 modifica]

Ne sono stanco, o Lorenzo: il resto della mia relazione a domani. Il vento imperversa: tuttavolta vo’ tentare il cammino. Saluterò Teresa in tuo nome.

Ah Dio! e’ m’è forza di proseguire la lettera. Sull’uscio della casa v’ha un lago di acqua che mi contrasta il passo: poteva varcarlo di un salto... E poi? La pioggia non cessa: mezzogiorno è passato, e mancano quattr’ore alla notte, che minaccia la distruzione della natura. Per oggi giorno perduto, o Teresa!

Bada, dunque, o Lorenzo, di non perdere il filo del mio racconto, perch’io sono uno storico che non si concilia l’attenzione per la via dell’ordine.

Eccoci in giardino. Teresa seduta a un sedile di bossi, Iacopo passeggia, la ragazza tutta intenta a raccogliere ranuncoli e a legarli in un mazzetto, e Odoardo appoggiato a un pomaio, con gli occhi al suolo, pizzicando con le dita sinistre il suo labbro inferiore. Dopo un lungo silenzio, egli mi s’approssimò, e sorridendo mi disse: — Lunedi non sarò a passeggiare con voi per questo giardino, ch’io ho adornato di fiori — fissando gli occhi sul mazzetto della Giovannina — e che ho coltivato, sperando di preservarli con maggior cura dalla intemperie del verno imminente. — In séguito trasse dall’abbottonatura della sua giubba il libro ch’egli aveva cercato. Nell’aprirlo gli cadde una lettera, che vi stava per entro: la raccolse e la lesse altamente. Un suo amico lo consigliava a recarsi subito a Roma per chiedere conto de’ suoi beni a’ figli del suo tutore, morto da pochi giorni: questi giovanotti cominciavano ad isprecare il proprio e l’altrui, perché l’avarizia del padre aveva cooperato a renderli ignoranti e viziosi.

Odoardo mi narrò i suoi primi amori con Teresa, il divieto del suo tutore di chiederla dal di lei padre in isposa, i raggiri di una sua zia perch’ei non la potesse piú rivedere, il matrimonio improvviso di Teresa... A questo passo ella lo interuppe. — Voi sapete — gli disse — ch’io vi ho amato sino dalla mia prima gioventú. Le tante mie lettere, che voi conservate, vi serviranno sempre di testimonio dell’amor mio. Né avrebbe dispiaciuto a mio [p. 90 modifica] padre ch’io vi divenissi moglie: ebbe egli però la onoratezza di allontanarvi da me per non incorrere nella taccia di voler sedurre un giovinetto ancor sotto tutela, tanto piú che l’amministratore delle vostre sostanze era espressamente contrario a tal matrimonio per la povertá della mia dote. Io, benché priva della speranza di essere vostra, ho continuato ad amarvi; ho continuato a scrivervi, quando il tutore vi mandò co’ suoi figli a Firenze sotto pretesto di perfezionarvi nella pittura. Le nostre lettere erano intercette, e, dopo due anni dell’amore il piú ardente, noi ci vedemmo disgiunti per sempre. Frattanto mio padre ammalò — in questo Teresa indirizzò a me il suo discorso: la fanciulletta stava con la bocca socchiusa e gli occhi intenti sul viso animato della sua mamma: — egli mi aveva molto prima proposto il partito di un galantuomo di Padova, il quale, ad onta della sua etá, poich’era di venti anni maggiore di me, aveva tutte le doti di un ottimo marito. Ne ho rifiutato l’offerta, sperando di compensarvi in qualche maniera, negando a tutti ciò che non poteva conservare a voi solo. L’infermitá di mio padre aggravava: la cura, che si prese di lui quell’uomo dabbene che mi aveva chiesta in isposa, quantunque conscio del mio rifiuto e senza pretensione o speranza, andava di giorno in giorno ispirandomi riconoscenza e rispetto. Finalmente mio padre s’avvide che poco ancor gli avanzava di vita, e, vòltosi a me, che stava di e notte appoggiata al suo capezzale — o Lorenzo! ella in ciò dire divenne smorta; la di lei voce andava poco a poco languendo, — tentò di stringermi la mano, e poi mi disse sommessamente: — Domani, e forse anche prima, mia cara figlia, rimarrai orfana senza sostanze e senza amorosa tutela. Tu non hai né padre né madre né marito... La morte non mi addolora...: mi duole soltanto di te... Avvicinati... — egli mi baciò su la guancia. — Almeno ch’io muoia nella consolazione che tu non ti sei mostrata sconoscente con la providenza, che ti presenta uno sposo... Che il cielo ti benedica... — Non l’avresti ubbidito, Odoardo? — Egli si stava muto ed immobile: Teresa mi guardò, quasi rimettendosi al mio giudizio: chinai la testa. Allora Odoardo si avvicinò e le baciò con riverente tenerezza la mano... [p. 91 modifica]

Perdona, Lorenzo, s’io rompo la narrazione ad un passo così interessante. Davvero, ti scrivo svogliatamente, perché questo tempo...; e poi Michele mi chiama a pranzo.

Il sole, o Lorenzo, squarcia finalmente le nubi, e consola la mesta natura, diffondendo sulla di lei faccia un suo raggio. Io ti scrivo rimpetto al balcone, donde miro l’eterna luce che si va poco a poco perdendo dall’estremo orizzonte dipinto a mille colori. L’aria torna serena, e la campagna, benché allagata e coronata soltanto di alberi sfrondati e cospersa di piante appassite o atterrate dalla pioggia e dai venti, brilla piú allegra di quel che lo fosse prima della tempesta. Cosí, o Lorenzo, lo sfortunato si scuote dalle funeste sue cure al solo raggio della speranza, e inganna la sua trista ventura con que’ piaceri ai quali era affatto insensibile in grembo alla cieca prosperitá.

Frattanto il dì mi abbandona; odi la campana della sera: eccomi dunque al compimento della mia narrazione.

Noi seguitammo Teresa, che tornò alla saletta: si pose a cucire, e mandò la ragazza a farsi addormentare dalle novelle della Margherita. Odoardo giuocò meco a’ scacchi sino alle nove, allorché li lasciai per tornarmene a casa.

Era di giá dieci passi lontano, quando sentii la voce di Odoardo che mi chiamava dalla finestra. Salii di bel nuovo, e Teresa mi si fe’ incontro alla metá della scala, dicendomi che si avevano sin da ieri proposto di visitare, prima della partenza di Odoardo, la casa del Petrarca in Arquá, e mi pregavano di esser loro compagno. Accolsi di buongrado l’invito, ed Odoardo divisò ch’io sarei stato ad attenderli a casa mia, poiché per arrivare ad Arquá dovevano necessariamente passare per questi dintorni.

La mattina, sentendomi scosso da non so chi, mi destai, e, strofinandomi gli occhi, vidi la Giovannina che mi carezzava le guance e mi andava bisbigliando all’orecchio: — Iacopo, Iacopo; è qui la mamma. —

Appena vestito, corsi incontro a Teresa, che stava in una loggetta scoperta a cogliere dai vasi favoriti di mia madre la [p. 92 modifica] melissa e i fiori di arancio, che biancheggiavano qua e lá sopra una giovine pianticella.

Arquá è discosto, come tu sai, quattro miglia dalla mia casa; e noi, per accorciare il cammino, prendemmo la via dell’erta. Io me ne andava dinnanzi, Teresa veniva appresso con Odoardo, e la ragazza ci tenea dietro in braccio all’ortolano.

               Era l’ora che il sol (poiché la notte
          fugge, e lei seguon le fredde ombre e gli astri)
          delle nugole straccia il fosco velo
          e piú bella nel ciel mostra la fronte,
          che tutto allegra del suo riso il mondo.
          Lieti allora i fioretti alzano il capo
          dalla brina chinato, e cristalline
          fan contro il sole tremolar le perle,
          di che tutti van carchi e rugiadosi:
          rasciugano coll’ale i zefiretti
          l’umor soverchio all’erbe e agli arboscelli;
          e tra il rumor, che dolce in un confuso
          fan le selve, gli augei, gli armenti, i rivi,
          dalle valli e dai monti invia la terra
          al raggio, che l’avviva, il suo profumo,
          e tutta esulta di piacer natura.

E’convien pur ch’io ti creda: io stimava, a dir vero, un po’ esagerate le lodi che mi facevi tempo fa di Teresa, e te ne credeva innamorato piuttosto, quantunque tu non mi sembrassi capace di un’infedeltá verso la tua Marianna, che pur è la buona e vezzosa fanciulla. Or di’: hai tu osservato quand’ella parla? e non ti pare che la semplicitá e l’interesse de’ suoi discorsi costringano a prestarle fede? Perché, se ti vuol disvelare un secreto, lo dipinge con quegli stessi colori e nello stesso atteggiamento appunto come le sta nel cuore, depositandolo in chi l’ascolta con quella ingenua confidenza con cui lo confesserebbe a se stessa.

Eravamo giá presso ad Arquá, e, scendendo per l’erboso pendio, ci andavano sfumando e perdendosi all’occhio i paeselli che si vedeano dispersi per le valli soggette. Ci siam finalmente [p. 93 modifica] trovati a un viale cinto da un lato di pioppi, che, tremolando, lasciavano cadere sul nostro capo le piú giallicce lor foglie, e adombrato dall’altra parte di altissime querce, l’opacitá delle quali facea maestoso contrapposto all’ameno verde de’ pioppi. Tratto tratto le due spalliere d’alberi opposti erano unite da vari rami di vite selvatica, i quali, incurvandosi, formavano sopra il viale altrettanti festoni mollemente agitati dal vento. Teresa allor, soffermandosi e guardando d’intorno: — Oh, quante volte — proruppe — mi sono adagiata su quelle zolle — e le additò, — difese da ombre freschissime e vestite di molle verzura! Stavami al fianco il mio buon marito e sospirava meco talvolta su le rimembranze del mio genitore; e parlavami talvolta ancora del mio primo ed unico amore, lagnandosi della fortuna e degli uomini, che deviano sempre dalle sacre inclinazioni della natura. E, bench’io non l’amassi come si conveniva a giovane sposa, ed ei lo sapesse senza lagnarsene, non mai scemò la sua confidenza verso di me: d’altra parte, l’amor suo sincero e tranquillo, i suoi costumi umani e discreti, la sua vita pacifica, la sua stessa riposata ragione, la quale compensava l’ardente sensibilitá che la natura e gli anni gli negavano, me lo resero affettuoso e caro come amico leale e come tenero padre. Dopo tre anni ei morì, e mi affidò almeno una qualche immagine di se medesimo. — Ella si abbassò a baciare teneramente la figlia, che stava riposando sopra un mucchio di aride foglie ch’io aveva accumulato, e rinfrescandosi con un grappolo d’uva che l’ortolano aveva a caso trovato in una vite poco lontana. — Egli mi lasciò erede di tutte le sue sostanze, ma piú di tutto dell’esempio della sua virtú e del perpetuo dolore della sua morte. Ed io aveva giá abbandonato ogni pensiero, come sovente lo dissi a te stesso, Odoardo, di piú rivederti. Ché, se tu non avessi per altrui mezzo saputo ch’io mi era rimasta vedova, avrei consecrato tutto il restante della mia vita all’educazione di questa fanciulla, per ubbidire al mio cuore, che vorrebbe pagare almeno di riconoscenza colui che non seppe pagare di amore. — Ma, Lorenzo, Lorenzo..., e’ conviene che di qui innanzi io mi taccia tutto ciò che dice Teresa; ché, se potessi dipingerti la sua pronunzia, i suoi [p. 94 modifica] gesti, la melodia della sua voce, la sua celeste fisonomia, o trascrivere almeno tutte le sue parole senza cangiarne o traslocarne sillaba, certo che tu mi sapresti grado: diversamente, incresco perfino a me stesso. Che giova copiare imperfettamente un inimitabile quadro, la di cui fama soltanto fa piú impressione che la tua misera copia? E’ non ti par ch’io somigli i traduttori del divin Omero? Giacché, come tu vedi, io non mi affatico che per inacquare il sentimento che m’infiamma e stemprarlo in un languido fraseggiamento.

Noi proseguimmo il nostro breve pellegrinaggio, fino a che ci apparve biancheggiante da lungi la casetta che un tempo accolse

     quel grande, alla cui fama è angusto il mondo,
     per cui Laura ebbe in terra onor celesti.

Ci siam appressati, simili a’ discendenti degli antichi repubblicani, quando libavano sopra i mausolei de’ loro maggiori morti per la patria, o a’ que’ sacerdoti che, taciti e riverenti, s’aggiravano per li boschi abitati da qualche divinitá. Nel tempo che Teresa e sua figlia si riposavano, salutando quelle contadinelle che l’avevano altre volte veduta e che la colmavano di benedizioni e di lodi, io recitai sommessamente, con l’anima tutta amore e armonia, la canzone «Chiare, fresche, dolci acque», e l’altra «Di pensier in pensier, di monte in monte», e il sonetto «Stiamo Amore, a veder la gloria nostra», e quant’altri di que’ sovrumani versi la mia memoria agitata seppe suggerire al mio cuore. Odoardo disegnò il ritratto di Laura, che sta affumicato su quelle screpolate muraglie, meravigliando dell’irreligione de’ proprietari, che lasciavano inonorato l’albergo di quel sommo italiano. Teresa allora recitò col soave entusiasmo suo proprio le terzine del sonetto, che Vittorio Alfieri dedicava nello stesso luogo al Petrarca:

               Prezioso diaspro, agata ed oro
          fôran debito fregio e appena degno
          di rivestir sì nobile tesoro.
               Ma no. Tomba fregiar d’uom ch’ebbe regno
          vuolsi, e por gemme ove disdice alloro:
          qui basta il nome di quel divo ingegno.

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Frattanto quella buona famiglia d’agricoltori ci aveva allestito un pranzo frugale; dopo di che, ci avviammo al ritorno. Teresa, passando un braccio nel braccio destro di Odoardo e l’altro nel mio braccio sinistro: — Io spero — ci disse — che fra pochi mesi torneremo noi tutti a rivisitare questa felice solitudine. — Si guardarono amendue sospirando, e l’aria del loro volto...: che posso dirti? Pareva che, abbandonando le soglie di quel dolce e profondo filosofo di amore, giurassero alla sacra ombra di serbarsi fedeltá fino al di lá del sepolcro; ed io, giá giá tutto estatico, stava per dire a quell’angelica donna: — Sono forse, o Teresa, le tue bellezze e la tua gioventú che fanno risplendere la puritá del tuo cuore, o l’anima tua divina diffonde invece su le tue forme piú di grazia, di freschezza e d’amore? — Ma

               ... giá stanche in occidente
          piegava il sol le rote, e, raccogliendo
          dalle cose i colori, all’inimica
          notte del mondo concedea la cura.
          Ed ella, del regai suo velo eterno
          spiegando il lembo, raccendea negli astri
          la morta luce, e la spegnea ne’ fiori.

Ed eccoci alfine, dopo due ore e mezzo di cammino, nuovamente alla villa.

Buona notte, Lorenzo. Sérbati questa lettera: quando Odoardo si porterá seco la felicitá, ed io non vedrò piú Teresa, né piú scherzerá su queste ginocchia la sua semplice figliuolina; in que’ giorni di noia, ne’ quali ci è caro perfino il dolore, rileggeremo queste memorie, sdraiati su l’erta che guarda la solitudine di Arquá, nell’ora che il dì va mancando. La certezza che Teresa è felice rasciugherá il nostro pianto. Facciamo tesoro di sentimenti cari e soavi, che ci ridestino, per tutti gli anni che ancora forse tristi e perseguitati ci avanzano, la rimembranza che non siamo sempre vissuti nel dolore.