Una partita a scacchi/Prologo

Prologo

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Una partita a scacchi Atto unico


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PROLOGO




 
Di questa fiaba in versi ho tratto l’argomento
     Da una romanza scritta circa il mille e trecento.
     A dire il vero, in calce la data non ci sta,
     Epperò nei cent’anni spaziate in libertà.
     Mezzo secolo prima, mezzo secolo poi,
     A me non giova nulla, e poco importa a voi.
     La romanza era scritta in lingua provenzale,
     In quel metro monotono, cadenzato ed eguale,

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     Che infastidisce i nervi qual tocco di campana:
     Ma in quella cantilena, per dissonanza strana,
     C’era un fare spigliato, un’andatura snella,
     Che mi costrinse a leggerla ed a trovarla bella.
Qui calza una parentesi. — Non vorrei che il lettore
     Avesse per sua grazia a credermi impostore,
     Pensando che allo scopo di accrescere l’effetto,
     Accollassi ad un altro le mende del soggetto.
     Benchè un poeta in genere a nessun sia secondo
     Nel mestiere invidiabile di fare il gabbamondo,
     E benchè di siffatti artifizi dolosi
     Anche Manzoni adopri là nei Promessi Sposi,
     E benchè se allo scritto mi tornasse efficace,
     Io pure vi confessi che ne sarei capace,
     Tuttavia questa volta vi prego, e son sincero,
     Di credere che quanto v’ho raccontato, è vero. —
Era un giorno d’autunno. Singolare stagione
     Che v’annebbia il cervello in barba alla ragione,
     Sia vapor di vendemmia che impregna l’atmosfera,
     Siano i fumi che i prati esalano alla sera,
     Sia la pioggia imminente che vi serpe nell’ossa,
     O sia un presentimento lontano della fossa:
     Fatto sta che i pensieri mutano di colore
     A sembianza di foglie sovra il ramo che muore.
     Ero solo, adagiato — ma che dico: adagiato!
     Nella lunga poltrona stavo lungo sdraiato

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     Cogli occhi semichiusi e con un libro in mano,
     Semichiuso ancor esso. — Mi giungeva di lontano
     Grida, canti e clamori di villici. — Imbruniva. —
     Pei fessi delle imposte filtrava un’aria viva
     Che pareva dicesse: L’inverno è qui che viene.
     Io non muovevo palpebra, quantunque nelle vene
     Mi serpeggiasse il freddo, ma, sia pigrizia o grillo,
     Sopportavo quei brividi, pure di star tranquillo.
     La stanza parea enorme, tanto era vuota e bruna. —
     Di tratto in tratto, a sbalzi, una mosca importuna
     Borbottava per l’aria misteriosi metri,
     Poi dava scioccamente della testa nei vetri —
     Le tende alla finestra frusciavano inquïete...
Racconto queste cose, perchè, se nol sapete,
     Noi poeti, sovente, non siam noi che scriviamo,
     È il vento che fa un fremito correr di ramo in ramo,
     È una canzon perduta che pel capo ci frulla,
     È il fumo di un sigaro, è un’ombra, è tutto, è nulla,
     È un lembo della veste di persona sottile,
     È la pioggia monotona che scroscia nel cortile,
     È una poltrona morbida come sera d’estate,
     È il sole che festevole picchia alle vetrïate,
     È delle cose esterne la varia litania,
     Che fe’ rider Ariosto e pianger Geremia. —
     Stavo dunque soletto, cogli occhi semichiusi
     E la mente perduta in fantasmi confusi;

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     Aveo smesso di leggere per sonnecchiare, ed era
     L’autunno, ve l’ho detto, e per giunta, la sera.
Il libro raccontava storie vecchie e infantili
     Di castelli, di fate, di valletti gentili.
     Talora licenzioso nei motti, ma coll’aria
     Di un nonno che sorrida con malizia bonaria.
     È strano come in quelle pagine polverose
     L’amor sia schietto, e tutte le vicende festose. Si
     direbbe che il tempo, inflessibile a noi,
     Abbia corso a ritroso per tutti quegli eroi.
     Le mura dei castelli son corrose e infrante,
     E suvvi ci si abbarbica l’edera serpeggiante.
     Son mozzate le torri, i merli son caduti,
     Le sale spaziose i bei freschi han perduti;
     I camini giganti dall’ali protettrici
     Son colmi di macerie, stridon sulle cornici
     I più grotteschi uccelli: ma sereni, sicuri,
     Più forti che le torri e più saldi che i muri.
     Quelli uomini di ferro d’ogni mollezza schivi
     Si parano alla mente baldi, parlanti e vivi. Son
     là, coll’armi al fianco, col grifalco in mano,
     Ieri: leon di guerra, ed oggi: castellano.
     Ignoranti di patria, di libertà: capaci
     Di morire per un nome od un paio di baci.
     Con tre motti stampati nel cuore e nella mente:
     Il Re, la Dama, Iddio; e su questi, lucente

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     Come un sole a meriggio, una grande chimera,
     Legge informe, malcerta, prepotente, severa,
     Assoluta giustizia o generoso errore,
     Inflessibile al pari del cristallo: L’onore. —
     Allora tu dell’armi infra i disagi grevi
     Santa della famiglia religïon splendevi.
     Allor, scoperto il capo e muti i circostanti,
     Il Padre, il vecchio, il sire, colle mani tremanti
     Benediceva al figlio, padre a sua volta, ed era
     Quell’atto più solenne di qualunque altra preghiera.
     E sapeva il vegliardo, chiudendo a morte il ciglio,
     Che presso alla sua tomba c’era un marmo pel figlio,
     E che il figlio del figlio, lattante bambinello,
     Dell’avo un dì sarebbe sceso anch’ei nell’avello;
     E pareva dicesse con sorriso estremo:
     Non sospiri, non lacrime, un dì ci rivedremo.
     E che vivi racconti nelle sere invernali!
     Fanciulle dai capegli d’oro, draghi coll’ali,
     Visioni, fantasmi, amori sventurati
     Che chiamavano le lacrime su quei volti abbronzati.
O storie di battaglie, d’amor, di cortesie,
     Nuvolette vaganti per quelle fantasie,
     O sereni riposi dopo l’aspre fatiche,
     O cortili ingombrati dai cardi e dalle ortiche,
     O gotici leggii, o vetri istoriati,
     O figlie flessuose di padri incappucciati,

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     O sciarpe ricamate fra l’ansie dell’attesa,
     O preludi dell’arpa, o nenie della chiesa,
     O mura dei conventi malinconici e queti,
     Celle di sognatori, di santi di poeti,
     Voi dell’arte e dei sogni siete i lucenti fuochi,
     Voi vivi solamente nel rimpianto dei pochi.
     Il tempo onde nessuna umana opera dura,
     Ammorbidì i profili della vostra figura,
     Ma il secolo correndo nella prefissa via,
     Voi, soavi memorie, voi, caste fedi, oblìa.
A poco, a poco intorno la notte era discesa.
     Scossi via la pigrizia. — Dalla lampada accesa
     Piovve un raccolto lume sulle pagine mute
     Che aspettavano il frutto di tante ore perdute,
     Ed io dalla romanza scritta il mille e trecento
     Di questa fiaba in versi ho tolto l’argomento.