Un dramma nell'Oceano Pacifico/22. Il primo selvaggio

22. Il primo selvaggio

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Capitolo Ventesimosecondo.

Il primo selvaggio.


Quel birgus latro, come lo aveva denominato il capitano Hill, quantunque sorpreso sulla terra, anzi sulla cima di una pianta di noci di cocco, era un abitante del mare, un crostaceo dei più grossi, un granchio gigante insomma.

Questi birgus, che gl’isolani del Pacifico chiamano granchi ladri, hanno delle bizzarre abitudini che non si possono tacere. Quantunque siano abitatori del mare, passano una buona parte della loro vita a terra, cercando avidamente gli alberi delle noci di cocco che crescono in quasi tutte le isole dell’Oceano Pacifico. Questi strani granchi, sembrerebbe impossibile, vanno pazzi per le grosse noci e tutto arrischiano per procurarsele. Durante il giorno dormono nascosti nelle cavità delle rupi o sospesi ai rami degli alberi più folti, ed allorquando la notte cala si mettono in cerca delle loro frutta favorite. Trovato l’albero, lo scalano con la massima facilità, rompono la scorza fibrosa della noce più grossa e la lasciano cadere a terra. [p. 198 modifica]

Come si sa, queste noci sono tanto dure, che anche l’uomo si troverebbe imbarazzato ad aprirle senza una scure, ma il granchio ladro non per questo si sgomenta. Essendo dotato di potenti morse, ne introduce una nel punto che si chiama occhio della buccia, e girando su se stesso la rompe pezzetto per pezzetto, bevendo poi avidamente il latte e mangiandosi la polpa bianca e delicata.

Si dice che uniscano al cocco anche la noce oleosa del pandanus per renderla più delicata, ma non sappiamo se ciò sia veramente esatto, quantunque tutti gli isolani lo confermino.

Asthor ed i marinai, dopo di aver osservato con curiosità quel grosso crostaceo, raccolsero parecchie bracciate di legna secche, accesero sulla spiaggia un gran fuoco capace di arrostire un bue, e lo gettarono sui carboni.

Mentre si cuoceva, Asthor e Grinnell si cacciarono nel bosco per far raccolta di frutta. Posero mano alle scuri e si misero ad abbattere un banano che aveva un grappolo di frutta del peso di cinquanta o sessanta chilogrammi. Non contenti, fecero un’ampia provvista di fichi, di yambos, frutta grosse come le pere d’Europa, tenere come il burro e rinfrescanti, e di grosse mandorle e di magnagne, grosse radici, dolci, farinose, che si cuociono sotto la cenere.

Stavano per ritornare, quando videro una specie di gallo, alto circa quaranta centimetri, colle gambe armate di sproni, il becco rosso, lungo e robusto, gli occhi grandi e neri e le penne bigie e rosse. Saltellava sotto l’albero rizzando il suo ciuffo biancastro e cacciando degli acuti ka-ha, ka-hu!...

— È un kagù — disse Asthor. — Un arrosto eccellente, che merita un colpo di fucile.

— Prendiamolo, pilota — disse Grinnell. [p. 199 modifica]

Asthor puntò lentamente il fucile, mirò con profonda attenzione e fece partire la scarica.

Il pollo fece una svolazzata in giro e cadde stecchito. Grinnell stava per precipitarsi verso l’albero per raccogliere la preda, quando fra i rami d’un vicino cespuglio si rizzò un essere umano.

— Un negro! — esclamò il marinaio arrestandosi e armando rapidamente il fucile.

— Un selvaggio! — esclamò Asthor impugnando la scure. — Corbezzole! Non è tanto brutto come credevo.

Infatti quell’uomo improvvisamente apparso era un selvaggio. Come aveva giustamente osservato il pilota, non era brutto; tutt’altro. Era di media statura ma robusto, di lineamenti abbastanza regolari e la tinta bronzina; portava un semplice gonnellino di fili d’erba intrecciati, così stretto alla cintura, da produrgli un forte rigonfiamento sul ventre; aveva i capelli imbrattati di terra rossa mescolata con [p. 200 modifica] olio, sostenuti da una specie di freccia, e al collo e alle braccia portava ornamenti di scaglie di tartaruga e di denti di porco selvatico.

Le sue armi consistevano in una scure di pietra ed in un arco.

Vedendo Grinnell, non parve sorpreso troppo, e si limitò ad esclamare:

Erramange! (È un uomo!)

— Cosa vuole quel mangiatore di carne umana? — si chiese il pilota perplesso.

Gli fece cenno di avvicinarsi. Il selvaggio che aveva ascoltato i loro discorsi con profonda attenzione, come se cercasse d’indovinarne il significato, fece alcuni passi innanzi dicendo:

Sir!

— To’! — esclamò il pilota pieno di stupore. — Questo selvaggio conosce l’inglese! Non l’hai udito, Grinnell? Mi ha chiamato signore!...

— Che sia un selvaggio incivilito?...

— Lo sapremo in breve. Vuoi venire con noi? — chiese il pilota.

L’isolano parve che studiasse il significato di quella domanda, poi rispose in inglese:

Yes, sir. (Sì, signore.)

Si passò nella cintura la scure di pietra e si gettò l’arco in ispalla come se volesse, con quei due gesti, rassicurare i marinai, raccolse il kagù e si avvicinò al pilota strofinando il proprio naso con quello di lui.

— Cosa fa? — chiese Grinnell.

— È un segno di amicizia — rispose Asthor. — Vieni con me, amabile selvaggio, che ti offrirò una lauta colazione.

Si caricarono delle frutta e si posero tutti e tre in cammino. Grinnell però, che era diffidente, si mise dietro all’isolano, pronto ad accopparlo al primo atto offensivo. [p. 201 modifica]

Attraversato un lembo di foresta, in pochi minuti giunsero all’accampamento, dove il capitano, allarmato da quel colpo di fucile sparato contro il kagù, li attendeva in preda ad una viva ansietà.

— Signor Hill, vi conduco un invitato — gridò il pilota da lontano.

— Un antropofago! — esclamò Anna con accento poco rassicurato, mirando il selvaggio.

— Ma è gentile assai, miss. Avanti, signor... come diavolo lo chiamerò?... Signor uomo-selvaggio. — [p. 202 modifica]

L’isolano si avanzò, senza manifestare alcuna sorpresa, verso l’accampamento e andò a strofinare il suo naso con quello del capitano Hill; poi, preso da un vivo terrore, fece due salti indietro guardando la gran nave mezzo coricata sulle sabbie e impugnando la scure di pietra come per difendersi.

Senza dubbio egli la scambiava per qualche mostro gigantesco e aveva paura di venire assalito e mangiato; ma poi si rassicurò, e sedette dinanzi al fuoco.

Fulton ritirò l’arrosto che mandava un profumo delizioso e le magnagne che erano state poste sotto la cenere, poi con due colpi di scure spaccò il guscio mettendo allo scoperto una polpa biancastra che prometteva di essere eccellente.

Il selvaggio fece molto onore al pasto, gradì assai i biscotti e sorseggiò con avidità una tazza colma di vino. Tutti poi fecero un bel vuoto nella provvista delle frutta, magnificando la delicatezza dei banani, la fragranza delle pere e la dolcezza delle noci di cocco e delle mandorle.

Accese le pipe e sdraiatisi sulle fresche erbette, all’ombra dei grandi alberi, il capitano si provò a interrogare il selvaggio, in lingua tonghese, che conosceva abbastanza bene, e cominciò con domandargli:

— Come ti chiami?

— Koturè — rispose subito l’isolano nella stessa lingua.

— È lontano il tuo villaggio?

— Lassù — rispose l’isolano, indicando la cima di una montagna coperta di fitti boschi.

— Vorresti condurci?

— Sì! Sì!...

— Ci presenterai al tuo re?... [p. 203 modifica]

— Sì.

— Ci accoglierà bene?

— Sì, perchè è un tuo parente.

— Un mio parente!...

— Sì, perchè egli è un bianco come sei te e come sono i tuoi compagni!...