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L’imboccatura della valle – Cauta avanzata – Un sentiero – Frutta – Scoperta di due aborigeni – Loro strano contegno – Ci avviciniamo alla parte abitata della vallata – Sensazionale effetto prodotto dal nostro apparire – Ricevimento nella casa di uno degli abitanti.

Il nostro primo pensiero fu di metterci alla ricerca dei frutti che, almeno secondo la nostra idea, dovevano trovarsi in quei paraggi.

Typee o Happar? Una morte spaventosa per mano di feroci cannibali, o un’accoglienza benigna per parte di una razza di più miti selvaggi? Quale di queste due alternative? Ma era ornai troppo tardi per discutere di una questione che sarebbe ben presto risolta.

La parte della vallata in cui ci trovavamo pareva del tutto disabitata. Una selva quasi impenetrabile si stendeva da un lato all’altro, senza però che ci fosse una sola di quelle piante di frutta sulle quali avevamo contato; e perciò continuammo a seguire il corso del fiume, esplorando collo sguardo le fitte jungle che si stendevano sia da una parte che dall’altra.

Il mio compagno (che avevo seguito nella discesa a valle in seguito alle sue insistenze) ora che questo passo era fatto, si dimostrava di una prudenza che ero lungi dall’attendermi da lui. Egli propose, nel caso riuscissimo a trovare una sufficiente provvista di frutti, di rimanere in questa parte disabitata della valle, nella quale difficilmente avremmo corso il rischio di essere sorpresi dagli abitanti, di qualsiasi tribù essi fossero. Quando poi avessimo sufficenti provviste, potevamo riprendere il viaggio e raggiungere facilmente la baia di Nukuheva dopo la partenza della nostra nave.

Mi opposi a questa proposta, per quanto apparisse plausibile, facendogli considerare le difficoltà quasi insormontabili del cammino, ignari come eravamo della topografia della regione; e rammentai al mio compagno le dure fatiche che avevamo già incontrate nel nostro incerto vagabondaggio; dichiarai, insomma, che siccome avevamo creduto opportuno di entrare nella vallata, dovevamo affrontarne coraggiosamente le conseguenze, qualsiasi esse fossero; tanto più che ero convinto che si dovesse tosto o tardi incontrarci cogli indigeni; tanto valeva quindi correre l’alea di incontrarli subito. Senza poi contare che io avevo assoluto bisogno di riposo e di asilo, e che tale mancanza mi rendeva del tutto incapace di affrontare altri rischi ed altre traversie. E Toby, pur con riluttanza, dovette, cedere a queste mie giuste osservazioni.

Ci stupiva che dopo esser giunti già così innanzi nella valle dovessimo incontrar sempre la stessa impervia boscaglia. Ma io pensavo che più avanti avremmo certo trovato terreni più fertili e perciò dissi a Toby di stare all’erta e di osservare un lato del fiume, mentre io avrei fatto lo stesso per l’altro: così avremmo forse potuto scoprire qualche sbocco nello spessore del ceduo, e sopratutto qualche sentiero battuto che accennasse alla presenza degli isolani.

Che sguardi furtivi e timorosi gittavamo in quegli oscuri ed ombrosi recessi! Con quale apprensione andavamo innanzi ignari se, da un momento all’altro, ci avrebbe salutato il giavellotto di qualche imboscata di selvaggi! Finalmente il mio compagno si fermò, e attrasse la mia attenzione verso uno sbocco aperto nel fogliame. Vi entrammo tosto, ed esso ci condusse, attraverso un sentieruolo appena tracciato, verso una radura al cui estremo limite scoprimmo numerosi alberi che gli indigeni chiamano «annuee» e che portano frutti squisiti.

Che corsa! Io zoppicando miserevolmente, e Toby con lo slancio di un levriero. Egli salì agilmente sopra uno degli alberi sul quale vi erano ancora due o tre frutti, ma con nostro disappunto trovammo che erano guasti, gli uccelli avendoli già mangiati per più della metà. Comunque in breve ne divorammo i resti e nessuna ambrosia avrebbe potuto sembrarci più squisita.

Ci guardammo ora intorno, incerti dove dirigere i nostri passi, visto che il sentiero da noi seguito pareva perdersi nella radura. Finalmente decidemmo di entrare in un bosco vicino, e ci eravamo appena inoltrati di pochi metri, quando io vidi per terra un piccolo germoglio dell’albero del pane, perfettamente verde e di recente sbucciato. Era molle di pioggia e pareva fosse stato buttato a terra appena allora. Non profferii parola, ma lo feci vedere a Toby, che allibì dinanzi a questa innegabile prova della vicinanza dei selvaggi.

La faccenda si complicava. Un poco più innanzi giaceva un piccolo fastello degli stessi germogli legato da una listerella di buccia d’albero. Era forse stato abbandonato da qualche indigeno che, allarmato dalla nostra presenza, s’era affrettato a recare la notizia del nostro arrivo ai suoi conterranei? Typee o Happar? Ma era ormai troppo tardi per tornare indietro; e così continuammo ad avanzare lentamente. Il mio compagno mi precedeva e guardava ansiosamente tra gli alberi, quando a un tratto lo vidi arrestarsi e indietreggiare come se fosse stato morso da una vipera. Si inginocchiò, mi fece segno con una mano di fermarmi, mentre coll’altra teneva scostati alcuni rami, e si mise a fissare attentamente qualche cosa.

Senza badare al suo divieto, in fretta mi avvicinai e potei scorgere due persone in parte celate dal denso fogliame; stavano vicine ed erano perfettamente immobili. Dovevano averci visti e si erano quindi internati nel bosco per eludere la nostra presenza.

La mia decisione fu presto presa. Posato a terra il mio bastone, e aperto il fagotto di oggetti portati dalla nave, ne estrassi il rotolo di cotonina, e tenendo questo con una nano, coll’altra raccolsi un ramoscello da un cespuglio vicino; detto quindi a Toby di seguire il mio esempio, mi internai nella boscaglia, agitando il ramoscello in segno di pace verso i due individui che tutti timorosi stavano dinanzi a me.

Essi erano un giovanetto e una fanciulla, di forme snelle e aggraziate, completamente nudi salvo una leggera cintura di corteccia d’albero dalla quale pendevano, dinanzi e dietro, due grandi foglie rossiccie di albero del pane. Un braccio del giovane, mezzo nascosto dai capelli sciolti della fanciulla, era avvinto intorno all’omero di questa, mentre l’altro teneva fra la sua mano una mano di lei; e così se ne stavano, col capo inclinato in avanti, come a cercar di distinguere il rumore dei nostri passi, e con un piede innanzi, come già pronti a fuggire.

Mentre ci avvicinavamo, la loro paura evidentemente aumentava. Temendo che essi potessero fuggire davvero, mi fermai e feci segno che si avvicinassero per prendere il dono che stendevo loro; ma essi non si mossero; allora pronunciai alcune parole del loro linguaggio, quasi le sole che conoscessi, non tanto perchè sperassi che le comprendessero, quanto per dimostrar loro che non eravamo caduti dalle nuvole. Questo parve renderli meno diffidenti; perciò mi avvicinai, presentando la cotonina con una mano, e il ramoscello messaggero di pace, coll’altra. Da principio continuarono lentamente a indietreggiare, poi ci permisero di avvicinarci abbastanza da poter loro buttare la cotonina, e far così capire che il dono era per loro; quindi cercammo, con svariati gesti, di persuaderli che avevamo le migliori intenzioni nei loro riguardi.

La timorosa coppia ora rimaneva immobile, mentre noi cercavamo di far loro comprendere le nostre necessità. Per far questo, Toby si abbandonò a una serie completa di esibizioni pantomimiche; spalancò la bocca cacciandovi dentro la mano, digrignò i denti, e infine gettò intorno occhiate così fameliche, che certo quelle povere creature dovettero prenderci per una coppia di cannibali bianchi, pronti a divorarli in un pasto. Tuttavia anche quando riuscirono a comprenderci, non dimostrarono alcun desiderio di provvedere ai nostri bisogni. A questo punto cominciò a piovere violentemente e facemmo cenno ai due giovani selvaggi di condurci verso qualche riparo. Apparvero disposti ad accontentarci, ma nulla poteva provarci la loro apprensione più del modo con cui, mentre ci precedevano, continuamente si voltavano, per sorvegliare ogni nostro movimento.

— Typee o Happar, Toby? – chiesi mentre li seguivamo.

— Happar, certamente Happar – rispose Toby, mostrando una fiducia intesa solo a mascherare i suoi dubbi.

— Non tarderemo a saperlo – esclamai, e così dicendo mi avvicinai alle nostre guide, e pronunciando in tono interrogativo i due nomi e accennando alla parte inferiore della vallata, tentai di risolvere la questione.

Essi ripeterono parecchie volte quei nomi, ma nessuno dei due con maggior enfasi dell’altro, per modo che mi fu impossibile cavarne qualcosa; e certo esseri più astuti di così sarebbe stato difficile trovarne.

Sempre più curioso di conoscere la nostra sorte, pensai allora di pronunciare in guisa di domanda il nome di «Happar» seguito dalla parola «Mortarkee», che nel loro idioma significa «buono». I due selvaggi si scambiarono delle occhiate piene di significato recondito e manifestarono non poca sorpresa; ma, ripetuta la domanda, dopo essersi consultati, con grande gioia di Toby, risposero affermativamente. Toby era in estasi, sopratutto pel fatto che i due giovani continuavano a ripetere la loro risposta con grande energia, come se fossero desiderosi di persuaderci che, essendo tra gli Happars, dovessimo considerarci perfettamente al sicuro.

Sebbene mi restasse ancora qualche dubbio, feci finta di provare come Toby una grande soddisfazione a quest’annuncio, mentre il mio compagno si abbandonava a una pantomima esprimente il suo orrore dei Typees, e un amore immenso per il paese in cui ci trovavamo; intanto le nostre guide si scambiavano occhiate incerte come se non riuscissero a comprendere il nostro modo di fare.

Ora in fretta s’incamminarono, e noi li seguimmo; sinchè improvvisamente proruppero in uno strano grido di richiamo al quale fu risposto nell’identica maniera da voci al di là del bosco che attraversavamo; e dopo poco ci trovammo in una radura alla cui estremità si elevava una capanna lunga e bassa dinanzi alla quale si vedevano varie fanciulle. Queste, non appena ci ebbero scorto, fuggirono come cerbiatte nel vicino bosco, mandando alte strida; e dopo alcuni istanti l’intera vallata risuonava di selvaggi clamori, e da ogni parte sbucavano gli indigeni.

In verità non avrebbero potuto mostrare una più grande eccitazione se fossero stati invasi da un’intero esercito di nemici. In un momento fummo circondati da una immensa folla di selvaggi, che nel gran desiderio di osservarci, quasi ci impedivano di muoverci; un’ugual folla circondava le nostre giovani guide le quali, con sorprendente vivacità, sembravano narrare i vari particolari del nostro incontro. Ogni circostanza da essi descritta pareva aumentare lo stupore degli isolani che non si stancavano di esaminarci.

Giungemmo finalmente a una bella e vasta costruzione di bambù, dove ci fecero segno di entrare: cosa che facemmo subito, buttandoci estenuati, senza altre cerimonie, sulle stuoie che coprivano il suolo. In un momento la stanza in cui ci trovavamo fu invasa dalla folla, mentre coloro che non potevano entrare, sbirciavano verso di noi attraverso le connessure del bambù.

Era quasi notte ora, e a quella luce incerta potevamo appena discernere i volti selvaggi intorno a noi, pieni di curiosità e di meraviglia. Vedevamo guerrieri muscolosi dalle membra nude e tatuate, e qua e là snelle fanciulle, immerse nella più animata conversazione, di cui naturalmente eravamo noi l’unico oggetto; mentre le nostre guide avevano il loro da fare nel rispondere alle innumerevoli domande da cui erano bersagliate. Non v’è nulla che possa eccedere il violento gestire di codesti selvaggi allorchè sono animati in una conversazione, e in questa circostanza si abbandonarono a tutta la loro vivacità naturale, gridando e danzando all’intorno in un modo addirittura impressionante.

Vicinissimo al luogo dove giacevamo, osservammo otto o nove capi di nobile aspetto, accovacciati per terra, che, più contegnosi degli altri, ci fissavano con una severa attenzione che non poco ci turbava. Uno di essi, specialmente, che doveva essere di condizione più elevata degli altri, mi si era posto proprio di fronte e mi guardava con tale persistenza da togliermi ogni coraggio. Non aperse mai bocca, ma conservò la sua espressione severa senza giammai distogliere lo sguardo da me: sguardo che non rivelava certo quanto passava per la sua mente, ma pareva voler leggere ciò che passava nella mia.

Dopo aver sopportato questo scrutinio fino a divenirne addirittura nervoso, allo scopo di distrarlo e conciliarmi la buona opinione del guerriero, pensai di estrarre del tabacco dal mio camiciotto e di offriglielo. Ma egli quietamente rifiutò il dono, e, senza proferir verbo, mi accennò di riporlo dove l’avevo preso.

Nei miei precedenti rapporti cogli abitanti di Nukuheva e di Tior, avevo trovato che il dono di un po’ di tabacco li rendeva subito amici devoti. Era dunque questa ripulsa del capo un segno della sua inimicizia? Typee o Happar? mi chiesi; e trasalii, perchè proprio in quell’istante, l’identica domanda mi fu rivolta dallo strano individuo che mi stava dinanzi. Mi voltai verso Toby, che la luce tremolante di una torcia tenuta in mano da un indigeno, mi rivelò turbatissinno da questa domanda. Per un momento tacqui, poi, e in verità non so quale impulso mi mosse: – Typee! – esclamai.

Quella specie di statua color bronzo fece un cenno di approvazione, e poi mormorò:

— Mortarkee?

— Mortarkee – risposi senza esitare – Typee mortarkee.1

Che cambiamento a vista! Le oscure figure intorno a noi balzarono in piedi, applaudirono con entusiasmo, ripetendo continuamente le parole miracolose che parevano aver mutato la faccia delle cose.

Allorchè quel subbuglio si fu alquanto calmato, il Capo guerriero si accoccolò di bel nuovo dinanzi a me, e come in preda a una gran collera, si abbandonò a una verbosa e violenta filippica che non ebbi difficoltà a comprendere diretta contro gli abitanti della vallata confinante, visto che in essa ricorreva continuamente la parola Happar. Tanto io che Toby cercammo allora di far capire che eravamo d’accordo con lui, mentre in pari tempo non tralasciavamo di lodare il carattere guerriero dei Typees. È ben vero che le nostre frasi laudatorie erano piuttosto laconiche, consistendo nella ripetizione di tal nome unito al potente aggettivo di «mortarkee». Ma evidentemente ciò bastava e ci conciliava pienamente la benevolenza degli indigeni.

Finalmente lo sdegno del Capo svanì, e dopo poco egli tornò placido come prima. Posandosi una mano sul petto, mi fece capire che il suo nome era «Mehevi», e che desiderava che in cambio gli comunicassi il mio. Esitai un momento, pensando che potesse essere difficile per lui di pronunciare il mio vero nome, ma poi finii per dirgli che mi chiamavo «Tom»: non avrei potuto sceglier peggio; il Capo non riusciva a pronunciarlo; diceva: «Tommo», «Tomma», «Tommee», ma non era capace di dire «Tom». Dovetti pertanto accettare di esser chiamato «Tommo» e questo fu il mio nome durante tutto il periodo della mia dimora nella vallata. Quanto a Toby, il suo nome fu più facilmente afferrato.

Lo scambio dei nomi è ritenuto, tra quei popoli semplici, quale pegno di benevolenza e di amicizia; e siccome lo sapevamo, fummo assai soddisfatti che esso avesse avuto subito luogo.

Accovacciati sulle nostre stuoie, demmo ora una specie di ricevimento, in cui sfilarono successivamente diversi gruppi di indigeni, che si presentavano a noi pronunziando il proprio nome e quindi, sentito il nostro, si ritirarono con grandi manifestazioni di ilarità. Per tutto il tempo della cerimonia, regnò la più schietta allegria, e siccome dopo ogni presentazione erano sempre nuovi scoppi di risa, non sarei lontano dal credere che gli indigeni divertissero a nostre spese la compagnia, decorandosi di assurdi titoli dei quali naturalmente noi eravamo del tutto ignari.

Tutto questo ricevimento durò per circa un’ora e infine, vedendo che la folla pareva diminuire, mi rivolsi a Mehevi e gli feci comprendere che avevamo bisogno di cibo e di riposo. Immediatamente, il Capo rivolse alcune parole a un isolano, il quale sparì e fece ritorno poco dopo con una calabassa2 di! «poee-poee», e due o tre fresche noci di cocco già sbucciate ed aperte. Ci ponemmo immediatamente queste coppe naturali alla bocca e in un baleno le vuotammo del loro liquido rinfrescante. Il «poe-poe» ci fu allora posto dinanzi, ma per quanto affamato, attesi un momento per considerare come dovevo recarlo alla bocca.

Questo, che è l’alimento base tra gli abitanti delle Isole Marchesi, è composto col frutto dell’albero del pane. Rassomiglia, nell’aspetto, alla pasta usata dai legatori di libri, è di colore gialliccio e ha un gusto piuttosto acido.

Tale dunque il cibo che ora io ero ansioso di gustare. L’osservai attentamente per qualche istante, e poi non potendo più resistere tuffai la mano in quella cedevole massa, e fra le risa degli indigeni, la ritirai carica di «poee-poee» aderente in lunghe fettuccine alle mie dita.

Appena si fu calmata alquanto la generale ilarità, Mehevi, fattoci cenno di stare attenti, intinse un dito nella calabassa, e dopo avergli impresso un rapido giro, lo ritirò ben fasciato di pasta. Con un secondo moto speciale impedì al «poee-poee» di cadere per terra mentre lo portava alla bocca, nella quale introdusse il dito che ne uscì completamente privo della sostanza aderente. Quest’operazione era evidentemente destinata alla nostra istruzione, perciò tornai a ritentare la prova su tali principi scientifici, ma ancora con ben scarso risultato.

Un affamato, però, non si preoccupa soverchiamente delle regole d’etichetta, sopratutto poi se si trova in un’isola dei Mari del Sud, e perciò Toby ed io ci mangiammo quel piatto a nostro modo, impiastrandoci il viso e le mani quasi fino ai polsi. Il poee-poee non è affatto sgradevole a un palato europeo, sebbene a tutta prima lo possa essere il modo di mangiarlo. Per parte mia, dopo pochi giorni, mi abituai a quello speciale sapore, ed anzi ne divenni assai ghiotto.

Questo per la prima portata; ne seguirono parecchie altre, alcune delle quali veramente squisite. Finimmo il banchetto tracannando due altre noci di cocco, dopo di che ci abbandonammo alle delizie del tabacco il cui fumo aspiravamo da una pipa stranamente scolpita che passava tra i convitati.

Durante il pasto, gli indigeni osservavano con grande curiosità i nostri più piccoli movimenti, dimostrando di scoprire in noi abbondante materia di commenti. La loro sorpresa giunse al colmo allorchè cominciammo a spogliarci dei nostri abiti saturi di pioggia. Esaminavano la bianchezza delle nostre membra, e pareva non sapessero rendersi ragione del contrasto tra il loro nitore e la tinta abbronzata dei nostri volti, esposti per sei interi mesi all’ardente sole dell’Equatore. Palpavano la nostra pelle come avrebbe fatto un mercante di seta con una fine pezza di raso; e alcuni giunsero perfino, per sentirne l’odore, ad applicare alla nostra pelle i loro organi olfattori.

Il loro singolare contegno mi fece pensare che forse non avevano mai veduto un uomo bianco; ma poi riflettendo meglio, mi convinsi che ciò non poteva essere. E più tardi trovai una più giusta spiegazione del loro modo di agire.

Le storie spaventevoli che si raccontano sui suoi abitanti, sconsigliano alle navi di entrare in quella baia, mentre le loro ostili relazioni colle tribù delle adiacenti vallate, impediscono ai Typees di visitare quella parte dell’isola dove talvolta approdano le navi. Tuttavia, a lunghi intervalli, qualche intrepido capitano prende terra all’estremità della baia con due o tre scialuppe armate, e accompagnato da un interprete. Gli indigeni che abitano vicino al mare, avvistano gli stranieri molto prima che essi raggiungano le loro acque, e conoscendo lo scopo pel quale vengono, proclamano ad alta voce la notizia del loro arrivo. A mezzo di una specie di telegrafo vocale, l’informazione, con una celerità sorprendente, raggiunge i più remoti recessi della valle, così che quasi tutta la popolazione si reca alla spiaggia, carica di ogni varietà di frutti. L’interprete, che è invariabilmente un «tabooed Kannaka»3, balza a terra colle merci destinate al baratto, mentre le scialuppe coi loro remi imbarcati ed ogni uomo al suo posto, stanno fuori dalla risacca, contrariando dalla spiaggia, pronte a fuggire in alto mare, se solo vi sia l’accenno di qualche allarme. Non appena concluso il mercato, una delle scialuppe si avvicina sotto la protezione dei moschetti delle altre, le frutta sono caricate in fretta, e i fugaci visitatori precipitosamente si allontanano da’ quei luoghi pericolosi.

Essendo così limitati i rapporti che intercorrono tra europei e indigeni, non è pertanto da stupire che gli abitanti della vallata manifestassero tanta curiosità verso di noi quando facemmo quell’inaspettata apparizione tra loro. Non v’ha dubbio che eravamo i primi bianchi che fossero giunti nei loro territori, o almeno i primi che mai fossero scesi dai monti nella loro vallata. Certamente si chiedevano qual misterioso caso ci avesse condotto laggiù, ma noi, non conoscendo il loro idioma, non potevamo illuminarli al riguardo. In risposta alle domande che l’eloquenza dei loro gesti ci permetteva di comprendere, tutto quanto potemmo dire, fu che provenivamo da Nukuheva, paese, è bene ricordarlo, col quale essi erano in guerra dichiarata. Tale informazione parve colpirli assai.

— Nukuheva Mortarkee? – chiesero.

Naturalmente rispondemmo energicamente di no.

Allora ci fecero mille domande, dalle quali potemmo soltanto comprendere che si riferivano ai recenti movimenti dei francesi, contro i quali parevano nutrire l’odio più fiero. Il più delle volte però, ci era impossibile comprenderli, e non potevamo quindi soddisfare la loro curiosità. Qualche volta soltanto si riusciva ad afferrare il significato delle frasi che ci dirigevano, e allora la loro soddisfazione era senza limite.

Dopo qualche tempo il gruppo intorno a noi si disperse, e verso mezzanotte (almeno così supponemmo) non rimasero che coloro che evidentemente dimoravano in quella casa. Costoro provvidero di altre stuoie il nostro giaciglio, ci ricopersero con varie coperte di tappa, e dopo aver spento le torcie, si buttarono a giacere vicino a noi, e dopo aver scambiato poche parole, si addormentarono profondamente.

  1. Typee buono.
  2. Albero dell’America tropicale che dà grossi frutti simili a melloni, il cui guscio, chiamato «calabash», serve nell’uso domestico, come recipiente.
  3. La parola «kannaka» è usata attualmente da tutti gli europei nei Mari del Sud per indicare gli isolani e anche gli indigeni la usano nei loro rapporti coi forestieri. Un «tabooed kannaka» è un isolano la cui persona è stata in un certo senso dichiarata sacra a mezzo di un singolare rito di cui si parlerà più innanzi.