Sull'Oceano/Il paesaggio dell'Equatore

Il paesaggio dell'Equatore

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Il dormitorio delle donne Il piccolo Galileo
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IL PASSAGGIO DELL’EQUATORE


Il giorno dopo, fin dalla mattina presto, non si parlava d’altro a prua che della novità del bambino e del passaggio dell’equatore: dell’aquatore, dell’iquatore, del quatore, di lu quatuore, poiché storpiavano la parola in cento modi.

Della nascita parlavano principalmente le donne, smaniose di sapere se e come il bambino sarebbe stato battezzato, e chi sarebbe stato il padrino e chi la madrina, che dovevan essere due signori, secondo l’uso. L’avrebbe battezzato il prete lungo di prima, o uno dei due di seconda, o il frate? E dove, non essendoci nè cappella nè altare? E i regali? Tutte cose che, in quella vita ristretta di bordo, pigliavano [p. 203 modifica] importanza di affari di stato. E dal Commissario seppi che la contadina di Mestre era segno d’immensa invidia a tutte le donne incinte di terza, e più alle più avanzate, perchè è tradizione di gentilezza marinaresca che le puerpere, a bordo, siati trattate con grandi riguardi; e quell’altre, vedendo passare tazze di brodo, cosce di pollo e bicchierini di Marsala, pensavano con rammarico che a loro, a terra, non sarebbe toccata eguale fortuna. — Si chiama esser fortunate! — dicevano. E se fosse bastato uno sforzo per anticipare di qualche giorno la cosa, l’avrebbero fatto con tutti i sentimenti. Qualcuna era indispettita sul serio.

Quanto all’equatore ne discorrevano tutti. Ma qui bisogna rifarsi un poco indietro per spiegare bene quale senso facesse il mare in tutta quella gente. Prima di tutto, le era antipatico. L’ignoranza non ammira il mare, perchè ha poco o nulla da scrivere col pensiero su quella immensa pagina pulita, e l’immensità semplice non è bella che per chi pensa. Non ricordo d’aver mai inteso fra quegli emigranti un’esclamazione ammirativa per l’oceano. Dinanzi all’acqua essi rimangono sempre alla prima idea che essa desta in ogni creatura umana, che è [p. 204 modifica] quella dell’elemento dell’asfissia. Poi ebbi modo di accertarmi, fin dall’uscita dello stretto, che per la maggior parte quel grande oceano era stato una delusione, perchè non v’avevan visto una maggior distesa d’acque che nel Mediterraneo, mentre immaginavano tutti, entrandovi, di veder l’orizzonte allargarsi smisuratamente, come segue all’occhio di chi salga da un poggio sopra una montagna. Ma non solo per questa ragione. Nella mente del popolo all’idea dei grandi mari va ancora unito un resto delle immaginazioni favolose dell’antichità e dei tempi di mezzo: se non più i mostri alati, i kraken di un miglio di circuito e i pesci cantanti, molti s’aspettano di vedere almeno balene, polipi enormi, o lotte di capodogli e di pesci spada, e onde come montagne; e vedendo poi quel mare sempre quieto, e nemmeno il muso d’un pescecane in due settimane di navigazione, scrollan le spalle dicendo: — È un mare come un altro. — Quanto a provar curiosità e a pigliar piacere d’altre cose, non possono, o perchè le ignorano, o perchè non ci credono o le frantendono. Io feci questa osservazione, che quasi tutti i discorsi che tenevamo a poppa intorno al mare, alla navigazione, alle terre, i quali cambiavano man mano d’argomento col cambiare della nostra [p. 205 modifica] situazione geografica, e c’erano imposti, per dir così, dal grado della latitudine, quasi tutti, dico, trasmettendosi di bocca in bocca e di classe in classe, avevano un eco uno o duo giorni dopo, come seguo degli avvenimenti dalle città ai villaggi, nei crocchi di prua; di dove ci ritornavano all’orecchio per via degli ufficiali che ne raccoglievan dei frammenti passando. Ebbene, è incredibile la stranezza delle trasformazioni che le notizie e le osservazioni scientifiche subivano in quel passaggio. Dell’antica Atlantide, della quale s’era parlato alla latitudine del Sargasso, in terza classe si discorreva come d’un mondo, che si dicesse scomparso da non molti anni, e che qualcuno di noi si fosse vantato d’aver visto. Alla latitudine della Senegambia, essendosi parlato di negri, dicevano gli emigranti che il Galileo filava a tutta velocità per sfuggire alla costa, dov’era un popolo di selvaggi terribili, che davan la caccia ai bastimenti per mangiare i passeggieri e ci riuscivano molte volte. Riguardo allo stesso equatore, alcuni andavano predicendo da giorni un calore di fornace che avrebbe liquefatto le candele e la ceralacca delle lettere, e un sole ardente al punto, che a più d’uno avrebbe dato volta il cervello, e si sarebbero contati i colpi [p. 206 modifica] d’accidente a decine. Ma il più singolare era che quel viaggio da un emisfero all’altro, il quale avrebbe dovuto persuader tutti della rotondità della terra, forniva invece a molti un argomento in contrario, che li riconfermava nell’incredulità antica, perchè ora vedevano finalmente coi propri occhi che tutto era piano; e c’era poco da rallegrarsi di quelli che parevano persuasi del vero, poichè parecchi di questi s’immaginavano che, passato l’equatore, il piroscafo avrebbe cominciato a discendere, e si sarebbe visto girare intorno al globo come una formica intorno a una palla. E molti anche non credevano a nulla di quanto udivano dire. La mattina, mentre il marito della svizzera (dotato della più incurabile delle stupidità, che è quella, come disse un grand’uomo, che s’è contratta sui libri) andava spiegando l’equatore a un crocchio d’emigranti con una fraseologia scioccamente scientifica che non potevan capire: — ... il focolare elettrico del globo... il regolatore delle evaporazioni dei due mondi... il luogo dove il mare scambia i suoi due sangui... — quelli guardavano con curiosità intorno ed in alto, e non vedendo nulla d’insolito, tornavano a guardar lui di mal occhio, con l'aria di dirgli che smettesse di pigliarli a godere. Ma ciò che [p. 207 modifica] li preoccupava soprattutto da un po’ di giorni era l’aver inteso dire che di là dall’equatore si sarebbero viste delle stelle nuove, e che una di queste, l’alfa del Centauro, era di tutte le stelle la più vicina alla terra. Pensavano forse che apparisse grande come la luna. Fin dalla mattina di quel giorno tanto aspettato, in piena luce di sole, uomini e donne giravano gli occhi pel cielo, con l’idea di veder dei miracoli. Una donna domandò al Commissario se in quell’altra parte del mondo, dove si stava per entrare, la luna e il sole sarebbero stati gli stessi che si vedevan da noi. Che cos’era questa linea, questa riga che divideva il mondo in due parti? Era da credersi quello che dicevano, che nessuno avesse più l’ora giusta? Era vero che nell’anno che si va in America si perde una stagione? E che cosa accadeva di questa stagione? Il Commissario s’ingegnava di spiegare; ma alcuni non badavano affatto alle spiegazioni che avevan chieste, come se fosse tempo perso; altri, per capire, tendevano a tutta forza l’arco dell’intelligenza, e poi ci rinunziavano, facendo un atto di rassegnazione. L’ultimo sentimento dei più era un vago sospetto che tutte quelle maraviglie fossero un monte di pastocchie spacciate dai signori per fare i saccenti, [p. 208 modifica] o che se non altro le spiegazioni che ne davano fossero puri sforzi di fantasia, e che tutto rimanesse un gran mistero per tutti. Una gran parte avrebbero creduto piuttosto ai tre monaci leggendari dell’Asia che da quindici secoli camminano diritto davanti a sè cercando il luogo dove nasce il sole. E sconfortava il pensare che un migliaio forse di quei mille e seicento cittadini d’uno dei paesi più civili d’Europa non avevano intorno alla terra e al cielo cognizioni più larghe nè più esatte di quelle che si sarebbero ritrovate cinque secoli or sono in altre mille persone della stessa classe, e che v’è forse, al mondo una certa quantità irriducibile d’ignoranza, che si può comprimere, come una massa d’acqua, e piegare a mille forme diverse, ma non scemar di volume.


Non importa: il passaggio dell’equatore era una festa per tutti, specialmente per la distribuzione straordinaria ch’era stata annunziata, di tre litri di vino per rancio; ed anche perchè, avendo il comandante dato l’ordine di aprire la stiva e di lasciar pigliare i bagagli, era per molti una vera gioia di poter rifornirsi di roba e rimestare un poco i propri cenci, conciati in modo miserando dall’umidità della zona [p. 209 modifica]tropicale. Oltre di che l’annunzio dei fuochi d’artifizio per la sera metteva tutta la ragazzaglia in ribollimento. La grande operazione della lavatura mattutina fu fatta con insolito vigore, e all’ora della colazione si videro molte ragazze con fazzoletti e nastrini nuovi sul petto e sul capo, mamme pettinate con più cura che gli altri giorni, uomini con cravatte straordinarie, barbe fatte, camicie di bucato, colli da cui eran cadute le scaglie. La folla s’era come indomenicata; le donne, in omaggio al nuovo santo, non lavoravano, e la maggior parte degli uomini, riuniti in gruppi numerosi e vivaci, mostravano chiara in faccia la premeditazione d’una ubriacatura serale. Molti intanto facevano ressa intorno alla cambusa per assicurarsi in tempo qualche avanzo del desinare di gala di prima classe, e nelle cucine di terza pure c’era un’agitazione, un andirivieni disusato, da cui si poteva argomentare che quel giorno il cuoco e i suoi aiutanti avrebbero fatto un grande traffico di piatti di contrabbando. Due forti riversi d’acqua, caduti a un’ora l’un dall’altro, ma brevissimi, non fecero che stuzzicare il buon umore della moltitudine: poi il cielo si schiarì, e il mare, a momenti azzurro, a momenti violaceo, mosso in lunghe e lente [p. 210 modifica] ondulazioni, pareva che promettesse di non turbar la giornata.


E fu festa anche per noi. Per me cominciò dopo colazione nel camerino del Secondo, col col quale passai un’ora piacevolissima, insieme con altri due ufficiali e col marsigliese, a bere del buon Champagne, dovuto a una discussione su Guglielmo Watt. Parlando della sfortuna degli inventori il marsigliese s’era lasciato scappare che il Watt era morto nella miseria. Il secondo aveva negato: era morto nell’agiatezza, carico d’onori e circondato d’amici illustri — Dans la misère, monsieur! Dans l’indigence la plus affreuse! — Nella ricchezza, le dico. — Sans le sou, sans le sou! — Di qui la scommessa, e aveva dato sentenza inappellabile una Histoire de la machine à vapeur, che si trovava a bordo, scritta appunto da un marsigliese; il quale smentiva senza un riguardo al mondo il suo concittadino. Amabili originali quei tre ufficiali del Galileo, non escluso quel brunotto astuto del dispaccio! Tutti più giovani d’animo di quello che la loro età desse a credere, e d’una certa semplicità di solitari, rarissima a trovarsi nel mondo, anche fra i solitari. Ciascuno aveva uno studio o un’arte [p. 211 modifica] per le mani, con cui ingannava il tempo in quei viaggi continui: il Secondo studiava il tedesco, il terzo dipingeva marine, il quarto aveva principiato di fresco a suonare il flauto. E ciascuno aveva una collezione sterminata di aneddoti di viaggio che raccontava in modo particolare, lentamente, dicendo nel modo più naturale del mondo le cose più strane, da gente assuefatta a far vita comune con la parte più avventurosa e più bizzarra del genere umano, e anche mentre questa si trova in una condizione di vita e d’animo eccezionale. Ne avevan fatte delle traversate piene di peripezie, durante le quali il registro delle nascite e delle morti era stato in movimento continuo; delle quarantene da uccidersi dalla noia, delle ore di guardia in notti di tempesta da uscirne coi capelli grigi! E ne avevan visto passare a bordo delle miserie, degli amori, delle paure, delle facce eteroclite, delle famiglie zingaresche! Curiosa pure era la confusione, o meglio la slegatura d’idee che avevan nel capo riguardo alla politica dei due paesi fra cui viaggiavano, essi che, ritornando a Genova, si trovavano addietro di due mesi nella lettura dei giornali d’Italia, e ripartivano prima d’essersi potuti raccapezzare, per arrivare un’altra volta nell’Argentina, digiuni dei fatti di là da [p. 212 modifica] cinquanta giorni. E più curiosa era la loro condizione rispetto alle proprie famiglie. Il Secondo ci divertì molto, spiegandoci col bicchiere alla mano, come avendo moglie da un anno e mezzo, gli pareva ancora d’essere sposo dal mese avanti. Partito da Genova dopo otto giorni di matrimonio, non aveva più visto sua moglie che a intervalli di due mesi, e per così brevi tratti di tempo, che fra loro non era potuta nascere familiarità; di modo che, ad ogni arrivo, egli era ancora ricevuto con un poco della commozione della prima volta, e trattato con una certa gentilezza rispettosa e imbarazzata, quasi come un estraneo: ciò che manteneva immobile all’orizzonte la luna di miele. Ed egli stesso ci mostrò il ritratto di sua moglie con l’aria di chi fa vedere in confidenza la fotografia d’una signorina con la quale ha avviato delle trattative. — Type genois! — gli disse il marsigliese, guardandola. — È di Palermo, — quegli rispose. — Pas possible! — Ah! che risata! Una tal risata che questa volta egli dovette fingere d’aver ribattuto per celia.


Tutti erano allegri, quantunque il comandante avesse fatto sentire che non voleva la farsa d’uso, di battezzare con le caraffe chi [p. 213 modifica] passava la linea per la prima volta; un’angosciata, che finiva sempre male. D’altra parte, non ci sarebbero stati i personaggi adatti. Perfino il genovese monocolo si carezzava la barba di crino di spazzola con un’aria meno annoiata del solito. Fermava qua e là ora l’uno ora l’altro, e gli diceva serio, fissandolo: — Petti di pollo al madera. — Aveva strappato al cuoco una manata di segreti, e diceva che ci sarebbe stato un pranzo splendido, e dei discorsi. L’agente di cambio, con cui feci un giro di passeggiata, m’annunziò un brindisi del marsigliese: lo aveva inteso far le prove nel camerino. Mi riferì nello stesso tempo che la sera innanzi era seguita una scenata, per causa di quella lingua serpentina della madre della pianista; la quale avendo insinuato al presunto “ladro„ ch’egli avrebbe dovuto smentire le voci calunniose che correvano sul suo conto a bordo, questi era andato dal comandante a domandare a voce alta quali fossero quelle voci e chi le avesse messe in corso, minacciando colpi di spada e di pistola; ma pareva che, pregato, avesse promesso di star quieto fin all’altro emisfero. Saliti sul cassero, trovammo quella scellerata sputapepe, che parea che godesse in cuore d’essere finalmente riuscita a sollevare uno [p. 214 modifica] scandalo, e notammo tutti e due un’animazione non mai veduta sul viso sciapito della sua figliuola, come il riverbero d’una compiacenza segreta; della quale l’agente cercò invano la causa con un lungo sguardo girante, sospettoso che ci fosse per aria un altro colpo di forbici. Passando davanti alla dispensa, vedemmo gli sposi ritti davanti al banco, che bevevano rosolio annacquato. L’agente li salutò. Lo sposo disse timidamente: — Festeggiamo l’equatore. — Eh! — rispose l’altro, in tuono di dispetto, guardandoli fisso tutti e due; — mi pare che festeggino tutti i paralleli! — E quelli nascosero in fretta il viso nel bicchiere. Poi s’andò a bere un bicchierino di Chartreuse sull’uscio del camerino della domatrice, che riceveva gli amici con gli occhi natanti nella dolcezza, e diceva che avrebbe voluto che il viaggio durasse un anno, tanto trovava la compagnia ben combinata, educata, cortese, piacevole; e un’altra filza d’aggettivi zuccherini, che parevano usciti dai molti bicchierini variopinti che doveva aver già centellinati nella giornata. Di là risalendo sul cassero, trovammo delle novità: la signora argentina, vera imperatrice del piroscafo, con un corteo d’ammiratori intorno, vestita d’una veste color vaniglia, che dava un [p. 215 modifica] risalto maraviglioso alla sua calda e florida carnagione di creola, e tutta raggiante in viso, come se fosse contenta d’entrare nella metà del mondo ch’era sua; e la signora svizzera che passeggiava per la prima volta col suo antico deputato, senza che alcuno avesse osservato in che giorno e in che modo fosse avvenuta la riconciliazione. Mezz’ora della sua conversazione scucita, sbalzellante, vuota, tutta piccole sciocchezze color di rosa e risatine spostate di sartina brilla, ci persuase che essa era felice d’aver rimesso la sua zampetta bianca nel Parlamento di Buenos Ayres. E pareva anche felice il marito delle sue escursioni professorali fra gli emigranti, poiché stava raccogliendo nuove nozioni geografiche dal Secondo, con una carta marina spiegata sotto gli occhiali. In tutti gli occhi pareva che balenasse una speranza confusa, quale si suol vedere in faccia alla gente l’ultimo giorno dell’anno, come se confidassero tutti di essere aspettati nell'emisfero di sotto da una miglior fortuna di quella che avevano avuta nell’altro.

E l’allegria crebbe ancora a pranzo, dove, eccettuati il garibaldino e la signora della spazzola, che rimase muta e digiuna con lo scopo [p. 216 modifica]visibilissimo di fare un dispetto visibile a suo marito, tutti chiacchierarono calorosamente, come una gran tavolata di buoni amici. E si ebbe la grande sorpresa, quella sera, di sentir la voce dei coniugi brasiliani, i quali, messi sul discorso dagli argentini, ed eccitati a poco a poco dall’amor di patria, descrissero con una eloquenza ammirabile, che ci fece rimaner tutti, le bellezze del loro paese, dalla grande baia di Rio Janeiro, coronata di monti a pan di zucchero, e tempestata d’isolette coperte di palme e di felci gigantesche, alle vaste foreste oscure, somiglianti a fitti colonnati di cattedrali senza termine, popolate di scimmie e di pantere, corse da sciami di pappagalli verdi e rosati, sorvolate da nuvoli di gemme e di fiori con l’ali, e di coleotteri accesi. E la conversazione essendosi allargata su quell’argomento, tutti i passeggieri che avevan visitato il Brasile si misero a raccontare e a descrivere insieme, e allora tutta la flora e la fauna brasiliana furono messe sossopra, e passarono sopra la tavola i tapiri e i cocodrilli dei fiumi immensi, i rospi enormi che latrano, i pipistrelli mostruosi che dissanguano i cavalli, le serpi orribili che succhiano il seno alle donne, e le rane che cantano sulle cime degli alberi, e le tartarughe lunghe due metri, e [p. 217 modifica]le enormi formiche di San Paolo che gl’indigeni mangiano fritte; e alla descrizione aggiungendosi l’armonia imitativa, fu un frastuono di muggiti, di gracchi e di sibili che pareva d’essere davvero in mezzo a una foresta dei tropici, e in qualche momento si provava un senso di ribrezzo. I soli che non sentissero nulla erano gli sposi, che approfittando della distrazione dei parlatori, si passavano con riguardo il braccio intorno alla vita, bruciati con gli occhi dalla pianista; e la signora bionda, la quale distribuiva occhiate luccicanti all’argentino, al peruviano, al toscano, al tenore, con una prodigalità veramente un po’ troppo vistosa; tanto che il comandante, alla fine, si lasciò scappare di bocca la sua frase d’ammonizione: — Quella scignôa a me comença a angosciâ 1. — Ma fu rasserenato dal brindisi del marsigliese; il quale si levò in piedi, e sporgendo innanzi il busto patagonico, e alzando sopra il capo la tazza dello Champagne, disse con accento grave: — Je bois à la santé de notre brave Commandant.... à la Socìétè de navigation.... à l’Italie, messieurs! — E tutti applaudirono, fuorché il mugnaio. Ed io gli perdonai in quel momento lo strazio che [p. 218 modifica] faceva della mia lingua, e quello che s’immaginava di aver fatto delle mie concittadine.

Levatici da tavola, salimmo sul terrazzino del palco di comando, preceduti dal quarto ufficiale che portava una bracciata di razzi, di girandole e di candele romane. A stento vi si stava tutti, ed io fui spinto a sinistra, davanti al Commissario, e in mezzo all’“impiccato„ e al “direttore della società di spurgo inodoro„. La prua era già tutta affollata, ma il cielo essendo coperto di nuvole dense, e non mandando che una luce velata i tre fanali bianco, rosso e verde, che ardevano, come tre occhi, alle due estremità del terrazzino e alla testa d’albero, tutta quella folla rimaneva quasi all’oscuro; e da quell’oscurità venivan su cento suoni confusi di canti di briachi, di risa di donne e di grida di bimbi, che parevan d’una moltitudine dieci volte maggiore. Mi sembrava di essere sul terrazzo d’una casa municipale, la sera d’una dimostrazione carnevalesca contro il sindaco. Quando si accese il primo fuoco di bengala, s’udì uno scoppio di evviva, e si videro mille e seicento visi illuminati, una vasta calca di gente ritta sulle boccaporte e sui parapetti, accucciata sul tetto dell’osteria e sulle gabbie, [p. 219 modifica] afferrata ai paterazzi, arrampicata sulle sartie, in piedi sulle seggiole, sulle bitte, sulle botti, sui lavatoi; e siccome non restava scoperto neanche un palmo di tavolato, ed anche i contorni del bastimento erari nascosti dalle persone, così tutta quella folla pareva sospesa per aria, e che volasse lenta sopra il mare, come uno sciame di spettri. Nel grande silenzio ammirativo s’alzavano voci solitarie di burloni: — Ooooh Baciccia!Dagh on tajCodia, monsù Tasca! — Poi tutti zitti, e si risentiva distinto il fischio dei fuochi, e il rumor cadenzato della macchina. Delle pioggie di fuoco cadevano sul mar quieto e oleoso, non increspato da una bava di vento, e i razzi scoppiavano e svanivano nell'immenso cielo silenzioso, quasi senza far rumore, come nel vuoto. Ad ogni sprazzo di luce m’appariva nella folla qualche viso conosciuto: ora la faccia superba della Bolognese, che s’alzava dalla cintola in su sopra le sue vicine; ora il viso estatico dello scrivanello; ora la negra dei brasiliani, stretta in un cerchio di visi accesi; lì sotto la faccetta rotonda della contadina di Capracotta, vicino al macello la faccia impassibile del frate, in fondo al castello di prua la maschera misteriosa del saltimbanco. E si vedevano qua e là delle coppie strettissime, [p. 220 modifica]che l’irradiazione improvvisa d’una girandola costringeva a correggere in fretta l’atteggiamento, e le risa soffocate, le voci di rimprovero e gli strilli che scoppiavano ogni tanto, tradivano un gran lavorio di pizzicotti e di palpatine audaci e ostinate. — Questa sera, — disse il Commissario, — il povero gobbo avrà da sudar sangue. — Intanto la luce di bengala tingeva successivamente tutte quelle facce di porpora, di bianco, di verde, e ad ogni nuovo scoppio di razzo, sonavano più alte le grida: — Viva l’America! — Viva il Galileo! — e più rade: — Viva l’Italia! — E al disopra delle teste si vedevano muovere cappelli, fazzoletti, bicchieri, e bimbi sorretti dalle madri, che agitavano lo braccia nude: vere immagini viventi della spensieratezza infantile di quella gioia di popolo, la quale soffocava per un momento tanti dolori. Finalmente i fuochi finirono, e il piroscafo, ridiventato nero, ma senza che cessasse la festa, si sprofondò gridando e cantando nelle tenebre dell’altro emisfero.

Ma la gioia senza causa di quella folla, su quel confine d’un nuovo mondo, in quella solitudine, di notte, mi fece più pietà che non me n’avesse mai fatta la sua tristezza, mi parve come [p. 221 modifica]una luce sinistra che gettasse essa medesima sulle sue miserie, e mi oppresse l’anima. O miseria errante del mio paese, povero sangue spillato dalle arterie della mia patria, miei fratelli laceri, mie sorelle senza pane. Ai padri dei soldati che han combattuto e che combatteranno per la terra in cui non poterono o non potranno vivere, io non v’ho mai amati, non ho mai sentito come quella sera che dei vostri patimenti, della diffidenza bieca con cui ci guardate qualche volta, siamo colpevoli noi dei difetti e delle colpe che vi rinfacciano nel mondo, siamo macchiati noi pure, perché non v’amiamo abbastanza, perché non lavoriamo quanto dovremmo pel vostro bene. E non ho provato mai tanta amarezza come in quell’ora di non poter dare per voi altro che parole. All’ultimo sogno di Fausto pensai: aprire una terra nuova a mille e a mille, e vederla fiorire di messi e di villaggi sui passi d’un popolo operoso, libero e contento. Per questo solo importerebbe di vivere, perché la patria e il mondo siete voi, e finché voi piangerete sopra la terra, ogni felicità degli altri sarà egoismo, e ogni nostro vanto, menzogna.

  1. Quella signora mi comincia a stomacare.