Su un presunto diritto di mentire per amore degli esseri umani

tedesco

Immanuel Kant 1797 2011 Maria Chiara Pievatolo filosofia Su un presunto diritto di mentire per amore degli esseri umani Intestazione 11 maggio 2013 75% Da definire

Su un presunto diritto di mentire per amore degli esseri umani

[425] Nell'opera «Le reazioni politiche» di Benjamin Constant (La Francia nell'anno 1797, VI parte, n.1, p. 123) è contenuto il seguente passo:

Il principio morale che dire la verità è un dovere renderebbe ogni società impossibile, se fosse preso in modo incondizionato e isolato. Ne abbiamo la prova dalle conseguenze molto dirette che ha tratto da questo principio un filosofo tedesco, il quale arriva al punto di affermare che sarebbe un delitto la menzogna di fronte a un assassino che ci chiedesse se il nostro amico, da lui inseguito, non si sia rifugiato in casa nostra.1

A pagina 124 il filosofo francese confuta questo principio nel modo seguente:

Dire la verità è un dovere. Il concetto di dovere è inseparabile da quello di diritto. Un dovere è ciò che, in un soggetto, corrisponde ai diritti di un altro. Dove non ci sono diritti, non ci sono doveri. Dunque dire la verità è un dovere ma solo verso chi ha diritto alla verità. Ma nessun essere umano ha diritto a una verità che danneggia altri.

Qui il proton pseudos2 sta nella tesi: «Dire la verità è un dovere ma solo verso chi ha diritto alla verità.»

[426] Si deve notare in primo luogo che l'espressione "avere un diritto alla verità" è un discorso senza senso. Si deve piuttosto dire: l'essere umano ha diritto alla sua propria veridicità (veracitas), cioè alla verità soggettiva nella sua persona. Infatti avere oggettivamente un diritto a una verità sarebbe come dire che dipende dalla sua volontà, come nel caso del mio e del tuo in generale, se una data tesi debba essere vera o falsa, cosa che rappresenterebbe una logica davvero insolita.

Quindi la prima questione è se l'essere umano nei casi in cui non può evitare una risposta con sì o no abbia la facoltà di non essere veridico. La seconda questione è se egli non sia tenuto a essere insincero in una certa dichiarazione a cui lo necessita una coercizione ingiusta, per evitare a se stesso o a un altro un misfatto che lo minaccia.

La veridicità nelle dichiarazioni che non si possono eludere è un dovere formale dell'essere umano nei confronti di ognuno,3 per quanto grande possa essere lo svantaggio che ne deriva; e anche se non faccio ingiustizia (Unrecht) a chi ingiustamente mi necessita alla dichiarazione, quando la falsifico, tuttavia tramite tale falsificazione, che perciò può anche essere chiamata menzogna (sebbene non nel senso dei giuristi), commetto ingiustizia verso il dovere in generale nella sua parte più essenziale: cioè, per quanto dipende da me, faccio in modo che le dichiarazioni in generale non trovino fede e quindi cadano e perdano la loro forza anche tutti i diritti fondati su contratti - cosa che è un'ingiustizia arrecata all'umanità in generale.

Dunque, definita la menzogna semplicemente come una dichiarazione a un altro essere umano deliberatamente non vera, non occorre l'aggiunta che debba danneggiare un altro, come pretendono i giuristi (mendacium est falsiloquium in praeiudicium alterius). Infatti essa danneggia sempre altri, sebbene non un altro essere umano, bensì l'umanità in generale, in quanto rende inutilizzabile la sorgente del diritto. Questa menzogna benevola può anche però diventare punibile per accidente (casus) secondo leggi pubbliche; ma ciò che [427] sfugge alla punibilità solo per caso può essere condannato come contrario al diritto anche secondo leggi esterne. Cioè, se hai ostacolato di fatto con una menzogna uno che stava appunto meditando un tentativo di assassinio, ne sei giuridicamente responsabile per tutte le conseguenze che potrebbero derivarne.

Ma se sei rimasto con rigore nella verità, la giustizia pubblica non può contestarti nulla, qualsiasi siano le conseguenze impreviste. È anche possibile che, dopo che tu hai risposto sinceramente di sì all'assassino che ti chiede se il suo nemico è in casa, questi sia uscito senza farsi vedere, non si sia imbattuto nell'assassino e così il delitto non sia avvenuto; ma se hai detto mentendo che non è in casa e questi è in realtà uscito (però senza che tu ne sia consapevole), qualora l'assassinio andandosene lo incontri e commetta il suo misfatto, tu puoi a buon diritto essere accusato di aver promosso la sua morte. Infatti, se avessi detto la verità, per quanto ne sapevi, forse l'assassino sarebbe stato preso, mentre cercava il suo nemico in casa, dal vicinato accorso in aiuto e sarebbe stato impedito il misfatto. Quindi chi mente, per quanto benevolmente possa essere disposto, deve rispondere delle conseguenze e pagare per esse, per quanto impreviste possano essere, anche davanti al tribunale civile: perché la veridicità è un dovere che deve essere considerato come base di tutti i doveri fondati sul contratto, la cui legge è resa instabile e vana se solo si concede la pur minima eccezione.

Dunque essere veridici (onesti) in tutte le dichiarazioni è un sacro comandamento della ragione, incondizionatamente vincolante e non limitabile da nessuna convenienza.

Saggia e nello stesso tempo giusta è, a questo proposito, l'osservazione del signor Constant sul discredito di simili princípi rigidi, che si perdono in idee presumibilmente irrealizzabili e che sono perciò da respingere.

Ogni volta che un principio - scrive Constant a p. 123 in basso - provato come vero appare inapplicabile, ciò deriva dal fatto che non conosciamo il principio intermedio che contiene il mezzo della sua applicazione.

Egli adduce (p. 121) la dottrina dell' uguaglianza come il primo anello che compone la catena sociale:

che, cioè (p. 122), un essere umano non possa essere vincolato altrimenti che da quelle leggi alla cui formazione ha contribuito.4 In una società molto ristretta e chiusa questo principio può essere applicato in maniera immediata e [428] non ha bisogno di nessun principio intermedio per diventare d'uso comune. Ma in una società molto numerosa bisogna aggiungere a esso un nuovo principio che qui presentiamo. Questo principio intermedio è: i singoli possono contribuire alla formazione delle leggi o personalmente oppure tramite rappresentanti. Chi volesse applicare il primo principio a una società numerosa senza accogliere in aggiunta quello intermedio riuscirebbe immancabilmente a produrre la sua rovina. Ma questa circostanza, che testimonia solo dell'ignoranza o dell'inettitudine del legislatore, non proverebbe nulla contro quel principio.

A p. 125 Constant conclude così:

Non si deve mai abbandonare un principio riconosciuto come vero, per quanto rischioso esso possa apparire.

(Eppure il brav'uomo aveva egli stesso abbandonato il principio incondizionato della veridicità a causa del pericolo che produrrebbe per la società in sé: perché non era riuscito a scoprire nessun principio intermedio che servisse a evitare questo pericolo - e qui in effetti non se ne può inserire nessuno.)

Il "filosofo francese" - per conservare il suo modo di menzionare i nomi delle persone - ha scambiato l'azione attraverso la quale qualcuno danneggia un altro (nocet), dicendo una verità la cui confessione non può eludere, con quella attraverso la quale gli fa ingiustizia (laedit). Che la veridicità della dichiarazione abbia danneggiato chi era in casa è stato soltanto un caso (casus), non una azione libera (in senso giuridico). Infatti dal suo diritto di esigere da un altro una menzogna a suo favore seguirebbe una pretesa contrastante con ogni legittimità. Anzi, ogni essere umano non ha soltanto il diritto ma anche il più rigoroso dovere alla veridicità delle dichiarazioni che non può evitare, per quanto danneggino lui stesso o altri. Egli stesso, dunque, non fa con ciò propriamente danno a chi lo patisce, bensì lo causa il caso. Infatti egli non è affatto libero di scegliere: perché la veridicità (se proprio non può fare a meno di parlare) è un dovere incondizionato. - Il "filosofo tedesco" dunque non accoglierà fra i suoi princípi la tesi: «dire la verità è un dovere ma solo verso chi ha diritto alla verità» (p. 124): in primo luogo per la sua formula indistinta, in quanto la verità non è un possesso sul quale all'uno possa essere accordato il diritto e all'altro rifiutato; ma soprattutto perché il [429] dovere della veridicità (di questo soltanto si parla qui) non fa distinzione fra persone verso le quali si ha questo dovere e persone verso le quali si possa anche abbandonarlo, bensì è un dovere incondizionato che vale in tutte le situazioni.

Allora, per pervenire da una metafisica del diritto (che astrae da tutte le condizioni empiriche) a un principio della politica (che applica questi concetti a casi empirici) e, per suo tramite, alla soluzione di un problema di quest'ultima conformemente al principio universale del diritto, il filosofo offrirà:

  1. un assioma, cioè una proposizione apoditticamente certa che deriva immediatamente dalla definizione del diritto esterno (armonia della libertà di ciascuno con quella di ogni altro secondo una legge universale)
  2. un postulato della legge pubblica esterna come volontà unita di tutti secondo il principio dell' uguaglianza, senza il quale non avrebbe luogo la libertà di ciascuno
  3. un problema: come far sì che in una società così grande si mantenga nondimeno la concordia secondo i princípi della libertà e dell'uguaglianza (cioè mediante un sistema rappresentativo); la qual cosa sarà allora un principio di politica, il cui allestimento e ordinamento conterrà decreti che, tratti dalla conoscenza empirica degli esseri umani, abbiano di mira solo il meccanismo dell'amministrazione del diritto e la sua organizzazione funzionale. - Il diritto non deve mai conformarsi alla politica, ma sempre la politica al diritto.

L'autore dice: «Non si deve mai abbandonare un principio riconosciuto - io aggiungo: riconosciuto a priori e dunque apodittico - come vero, per quanto rischioso esso possa apparire.» Qui, però, non si deve intendere il pericolo come pericolo di nuocere (casualmente), bensì di commettere ingiustizia in generale; cosa che accadrebbe se io rendessi condizionato e subordinato a riguardi ulteriori il dovere della verità, che è interamente incondizionato e rappresenta, nelle dichiarazioni, la condizione giuridica suprema, e, anche se con una certa menzogna non faccio ingiustizia a nessuno, ledo però in generale il principio del diritto in considerazione di tutte le dichiarazioni inevitabilmente necessarie (faccio ingiustizia formaliter anche se non materialiter); ciò sarebbe molto peggiore di commettere un'ingiustizia nei confronti di qualcuno perché un'azione simile non sempre presuppone nel soggetto un principio indirizzato a essa.

[430] Chi non accoglie già con sdegno la domanda di un altro che gli chiede se nella dichiarazione che sta per fare vuol essere o no veridico, per il sospetto, in essa espresso, che possa anche essere un mentitore, ma richiede, in primo luogo, di rammentarsi di possibili eccezioni, è già un mentitore (in potentia); perché mostra che non riconosce la veridicità come dovere in sé, bensì si riserva eccezioni su una regola che è per sua natura incapace di eccezioni, perché chiaramente contraddirebbe se stessa.

Tutti i princípi giuridico-pratici devono contenere una verità rigorosa e quelli qui detti intermedi devono contenere solo una determinazione più precisa della loro applicazione ai casi che succedono (secondo le regole della politica), ma mai eccezioni: perché queste annullano l'universalità per la quale soltanto essi portano il nome di princípi.

Note

  1. «I.D. Michaelis a Göttingen ha esposto questa insolita opinione ancor prima di Kant. Che sia Kant il filosofo di cui parla questo passo, me lo ha detto lo stesso redattore di quest'opera» (K. Fr. Cramer) - Ammetto di averlo effettivamente detto da qualche parte di cui però ora non riesco più a ricordarmi. I. Kant [Carl Friedrich Cramer aveva tradotto in tedesco Des réactions politique, per la rivista Frankreich im Jahr 1797, Part IV, No. l., 1797. In questa veste aveva appreso da Constant che il filosofo tedesco a cui si riferiva era appunto Kant. (N.d.T.)]
  2. "Prima fallacia" [N.d.T].
  3. Qui non voglio acuire questo principio fino al punto di dire: "La non veridicità è violazione del dovere verso se stessi". Infatti questo fa parte dell'etica; qui però si tratta di un dovere di diritto. La dottrina della virtù bada in quella trasgressione solo all'indegnità il cui biasimo il mentitore attira su di sé.
  4. La definizione di libertà data da Constant e citata da Kant con approvazione è identica a quella, positiva, della Pace perpetua. [N.d.T.]