Storia di Lauretta/Parte seconda

Parte seconda

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Non vi può essere che un segreto motivo d’interesse, il quale induca i caratteri volgari a sostenere lungamente la vicinanza de’ generosi. Non mancava questo motivo né ad Eugenia, né al contino Frivolucci. L’occasione svelò l’arcano.

Era d’estate, quando il filosofo solitario ed il poeta cercano pensosi le inspirazioni della verità nel silenzio de’ boschi; quando il povero benedice il sole che lo tormenta, ma che gli dispensa più largo tempo al lavoro; quando l’inerte ricco ed il patrizio languiscono tra le mura infiammate de’ loro patagi. Eugenia spossata dal caldo s’annoiava di tutto. La piccola provvisione di novellette, di bons-mots, di libretti licenziosi, colla quale il contino aveva trionfato della sua fragile virtù, non gli giovava oramai per combattere la di lei noja. Oppressi dal peso della propria nullità, mal atti a pascersi l’animo di sentimenti, e d’idee, correvano da una sensazione nell’altra in traccia di quella soddisfazione che immaginavano e non rinvenivano.

– Così l’inesperto compositore corre e ricorre il suo piano-forte senza trarne pur mai un solo pensiero musicale. – Lo stato di quelle due anime dormigliose faceva compassione a Lauretta, la quale non aveva ancora imparato, nell’età sua giovanile, quanto facilmente la sciocchezza dipinta di bonarietà s’accoppi in segreto colla corruzione. Ella studiavi a il carattere d’Eugenia, e non giungeva a capirlo. Costei s’era formato un tal misto d’idee claustrali e d’idee mondane, che la sua povera testa era veramente un piccolo caos. Pregava il cielo, e tradiva il marito; vantava la sensibilità, e voleva essere occhieggiata, ed occhieggiare; si regolava colle massime più triviali, e voleva pure che la sua vita avesse una tinta di romanzesco e di straordinario. Un giorno si recò con sua madre da Lauretta, e baciatala e ribaciatala tenerissimamente le disse: «domani è il mio giorno natale; io voglio celebrarlo tra gli amici, ma senza fasto, con una festa data di cuore, all’elvetica. Prego voi, vostro marito e il sig. Annibale di venire alla vicina mia campagna posta sul lago. Sarò a prendervi di gran mattino, e spero che non ci annojeremo. Già mio marito non ci disturberà colle sue citazioni delle leggi e dei regolamenti, perché dimani appunto ei deve render conto ad un ricco pupillo dell’amministrazione de’ suoi beni, e non sarà della partita». In questa, entra Carlo; ella rinnova premurosamente l’invito, che viene accettato. Alle ore tre e mezzo dell’indomani, mentre biancicavano i primi raggi dell’alba, ecco giungere a casa Belmonte tre belle carrozze annunciate a tutto il vicinato, che dormiva, da un frastuono infinito di corni e di frustate scoppianti nell’aria. Il contino ed Eugenia smontarono sveltamente per incontrare gl’invitati, che già discendevano le scale. «Vi cedo Frivolucci, disse Eugenia a Lauretta, attaccandosi al braccio del colonnello; e voi sig. Annibale avrete la bontà di salire nella carozza di mia madre, la quale occupa gran sito, e vi attende tutta sola». Entrarono dunque nella prima vettura Lauretta, il contino, e l’eccellente Buontempi. Si collocarono nella seconda Eugenia e Carlo, assieme a don Gaudenzio, che vi si era prima adagiato. Chiudeva la caravana il cocchio di Eufrosia, colla cui compagnia il povero Annibale doveva essere punito de’ suoi peccati giovenili.

Si correva a quattro cavalli, e varie piccole commedie si sceneggiavano nelle tre camerette ambulanti. È necessario che il mio lettore ne sia informato. Lauretta, assai malcontenta di essere stata divisa dal marito, si lasciò sfuggire in sulle prime qualche sospiro, mezzo per noja e mezzo per desiderio. Modestissimo il contino interpretò quell’atto secondo i suoi fini, e cominciò sentimentalissimamente a soffiare intorno a Lauretta un vero turbine di sospiri. Lauretta si meravigliava e prendeva sospetto che l’ordine del viaggio fosse stato architettato a bell’arte. «Ha un gran caldo, e ben a ragione il contino» diceva con aria maliziosa il sig. Buontempi.

A questa breve introduzione tutta buffa tenne dietro la prima parlata tutta seria del giovane Amoroso. «Bellissima Lauretta, egli proruppe, è gran tempo che io affretto questo momento felice.... Perdonate se oso favellarvi d’amore: io non posso più resistere.... tutto l’inesprimibile incanto che circonda la vostra persona mi ha rapito a me stesso, e ad Eugenia. Me misero se sdegnate d’ascoltarmi! una passione invincibile spalancherà il mio sepolcro. Io non vedo che voi, non deliro che voi, non dormo, non mi nutro più. Può dirlo Buontempi, il confidente delle mie pene, egli che si divora tutto solo i miei pranzi». Una contegnosa, la cui saviezza stesse tutta nelle forme esteriori della virtù, si sarebbe accigliata, e fra le nuvole dello sdegno avrebbe lasciato trasparire qualche debole raggio di speranza. Ben altrimenti si condusse la figlia del pittore. «Ella soffre senza dubbio sig. contino una passione micidale; vedo difatto che le sue guance sono più floride che mai!». «Dunque non mi credete? Crudele! Questo è un odiarmi, un odiarmi mortalmente ». «Io so ch’ella è giovane avventurato in amore, e che io non ho bellezze da meritare la di lei attenzione ». «Che affettata modestia! Non siate sì fredda, ve ne scongiuro, non siate sì indiscreta, per seguire le gotiche massime d’una vecchia morale. È egli possibile di amare un marito, e un marito che è meno giovane di me?». «È egli possibile, riprese Lauretta, che ella sia una sì brutta copia dei Loveloce e dei Valmonti? Quei romanzi che si bruciano nel monastero dove fu educata la nostra Eugenia, mi preservano ora dalle lusinghe ch’ella ha felicemente impiegate con lei. Cessiamo la burla sig. conte, e si parli del giorno natalizio della mia buona amica».

Così si combatteva nella prima linea. Vediamo l’altra parte dell’esercito. Don Gaudenzio aveva dogmatizzato una buona mezz’ora sull’amore intensivo e sull’apprezzativo che dobbiamo avere per Dio. E preso da stanchezza dopo avere scoccato cinque o sei silogismi scolastici per convincere Eugenia, la quale non disputava e nulla sapeva né di silogismi, né di scolastica, s’addormentò.

Così s’addormentano anche le coscienze quando i soavi precetti della religione invece d’essere raccomandati al cuore col calore dell’eloquenza sono ravviluppati dagli ecclesiastici nelle formole aride e tenebrose della dialettica. Intanto Carlo per distrarre Eugenia le narrava le avventure della sua vita militare, e nei momenti più patetici fissava gli occhi in quelli della sua leggiera ascoltatrice. Questo bastò perché ella si persuadesse intieramente d’esserne amata. Ben tosto la vanità femminile se ne compiacque, e aggiunse vigore al desiderio contro le deboli difese del rimorso. Eugenia era una guerriera, nuda di elmo e di scudo, che dimandava d’essere vinta.

Ma nella terza carrozza la divota donna Eufrosia aveva passati in rivista, per puro amore dei prossimo, gli orrendi scandali dati giornalmente da molte persone di sua conoscenza. Il buon pittore aveva un bel fare è un bel dire per ridurla al silenzio e disserrare le di lei pupille alla contemplazione dello splendido giorno che cominciava a sorgere. La natura era uno spettacolo morto per l’arido cuore di donna Eufrosia. «Che natura, che natura! ci vuol altro», replicava ella ad ogni momento. «Aveste fatto il vostro meglio, signor padre senza giudizio, a porre in monastero vostra figlia quando perdeste la moglie. Sono sicura che non l’avete custodita abbastanza. Chi sa, mio Dio, chi sa quanti pericoli ha corsi quella povera anima per colpa vostra». Annibale arrabbiava. Quando, felicemente inspirato: «Voi avete»; diss’egli a donna Eufrosia, «la più bella, la più amabile fisonomia da Tisifone che io m’abbia mai veduta. State ferma e tacete, per quanto è possibile, mentre su questo pezzo di carta, facendomi leggio del mio cappello, io mi provo a disegnare la vostra faccia». «Chi è questa signora Tisifone?» dimandó la caustica vecchia già pronta a tener immobili le sue gote lanose. «È una gentile divinità degli antichi», rispose Annibale sorridendo, e disegnando a dilungo.

Grazie ai postiglioni ed alle belle strade la malcontenta brigata giunse in pochissimo tempo al luogo di delizie di Eugenia. Una turba di pastori e di pastorelle, di silvani, di driadi, di satiri nascosti dietro i tronchi altissimi di un lungo viale di quercie, accolse cantando a coro la signora del locò ed i suoi ospiti. Questa era una sorpresa fatta alla dama dal contino, il quale si piccava di classicissimo gusto. I versi imparati da que’ poveri diavoli tra lunghi e brevi, tra giusti e fallati non erano meno di duecento. Gli aveva composti un vecchio traduttore d’Orazio....

Ma che dico composti! gli aveva cuciti insieme quel vecchio traduttore staccandoli da questa e da quell’ode del lirico latino, e contentandosi della mercerie di due zecchini. Vendeva a buon patto, come fanno i ladri che vendono l’altrui. È vero però che quel poetico centone calzava tanto bene ad Eugenia, quanto potrebbero ora convenirle le mode di diciannove secoli fa per comparire ben messa in una festa da ballo.

Non mi perderti a descrivere né la colezione tutt’altro che campestre, né i varj giuochi coi quali si procacciò inutilmente di ammazzare il tempo. Quasi tutti confessavano di divertirsi, e sbadigliavano nel dirlo. Fo un’eccezione per donna Eufrosia e per don Gaudenzio; giuocarono clamorosamente col sig. Buontempi, e per quattro ore di seguito, il tarrocco in tre

. . . . non senza molto
Tentennar di parucche e cuffie alate.
PAR.

Intanto alla lauta colezione successe il lautissimo pranzo, che durò sin quasi al tramonto del sole. I vini più squisiti, cui l’industria degli uomini conduca a traverso de’ mari e delle tempeste onde beare le difficili gole de’ più dotti epicurei, zampillavano versati in limpidi cristalli.

Il contino non era classico in tutto. Si burlava dei vini medicati degli antichi, e anteponeva al Cecubo ed al Falerno le buone bottiglie del Capo e lo Sciampagna. «Beviamo, diceva egli, agitando le spume nel suo bicchiero.

Come le bottiglie sono la vita delle mense, le donne sono l’anima della vita, e l’Amore è l’anima delle belle donne ». Egli siede ora in mezzo ad Eugenia ed a Lauretta. S’accorge che l’una è caduta nelle mani dell’Imeneo, e la raccomanda a Lucina; guarda l’altra quasi consolandosi, e intuona lietamente il viva per questa suo giorno natale....

Evviva, evviva, replicarono tutti con un gran batter di mani. Lauretta disse all’orecchio cento cose gentili ad Eugenia. Il colonnello era serio. Don Gaudenzio ed Eufrosia avevano talmente assaporato il dolce latte de’ vecchi, che non intesero una sola parola del colpevole brindisi fatto dal contino. Annibale in mezzo a quel frastuono andava immaginando un bellissimo quadro di caricature. Ove te lascio, altero eroe del convito, illustre Buontempi! Chi potrà enumerare i pasticci diroccati, le pernici inghiottite, i bicchieri tracannati? Tanto non osa la mia debole fantasia, costretta a stendere un velo sulle tue geste gloriose.

Uscita di tavola la compagnia si divise in vari gruppi, e si sparse nel vasto giardino, che era fatto all’inglese dalle stesse mani della natura. Avrei qui una bellissima opportunità di sminuzzarne in cinque pagine la descrizione, seguendo così gli antichi e venerati precetti dell’arte del dire. Qualunque novelliere che sapesse accostarsi al Boccaccio od al Padre Cesari non si lascerebbe certo sfuggire l’arbusto più meschino, l’erbetta più occulta, ed otterrebbe fama di esemplare redivivo presso i seguaci della buona scuola. Ma io so pur troppo che sono della cattiva. Confesso i miei falli, risparmio al lettore una nuova amplificazione, e per ottenere più facilmente il suo perdono sospendo in questo istante medesimo il racconto della mia storia.