Atto terzo

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Atto secondo
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ATTO TERZO

SCENA I

Cortile.

Cosroe ed Arasse.

Cosroe. No, no; voglio che mora.
Abbastanza finora
pietosa a me per lui parlò natura.
Arasse. Signor, chi t’assicura
che, Siroe ucciso, il popolo ribelle
non voglia vendicarlo; e, quando speri
i tumulti sedar, non sian piú fieri?
Cosroe. Sollecito e nascosto
previeni i sediziosi. A lor si mostri,
ma reciso, del figlio il capo indegno.
Vedrai gelar lo sdegno,
quando manchi il fomento.
Arasse. Innanzi a questo
violento rimedio, altro possiamo
men funesto tentarne.
Cosroe. E quale? Ho tutto
posto in uso finora: Idaspe ed io
sudammo invano. Il figlio contumace
morto mi vuol, ricusa i doni e tace.
Arasse. Dunque degg’io...
Cosroe. Sí, vanne: è la sua morte
necessaria per me. Pronuncio, Arasse,
il decreto fatal; ma sento, oh Dio!

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gelarsi il core, inumidirsi il ciglio:
parte del sangue mio verso nel figlio.
Arasse. Ubbidirò con pena;
ma pure ubbidirò. Di Siroe amico
io sono, è ver, ma son di te vassallo;
e sa ben la mia fede
che al dover di vassallo ogni altro cede.
          Al tuo sangue io son crudele,
     per serbarti fedeltá.
          Quando vuol d’un re l’affanno
     per sua pace un reo trafitto,
     è virtú l’esser tiranno,
     e delitto è la pietá. (parte)
Cosroe. Finché del ciel nemico
io non provai lo sdegno,
mi fu dolce la vita e dolce il regno:
ma, quando il conservarli
costa al mio cor cosí crudel ferita,
grave il regno è per me, grave è la vita.

SCENA II

Laodice e detto.

Laodice. Mio re, che fai? Freme alla reggia intorno
un sedizioso stuol, che Siroe chiede.
Cosroe. L’avrá, l’avrá. Giá d’un mio fido al braccio
la sua morte è commessa, e forse adesso
per le aperte ferite
fugge l’anima rea. Cosí gliel rendo.
Laodice. Misera me, che intendo!
E che facesti mai?
Cosroe. Che feci? Io vendicai
l’offesa maestá, l’amore offeso,
i tuoi torti ed i miei.

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Laodice. Ah, che ingannato sei! Sospendi il cenno.
Nell’amor tuo giammai
il prence non t’offese; io t’ingannai.
Cosroe. Che dici!
Laodice. Amore invano
chiesi da Siroe, e il suo disprezzo volli
con l’accusa punir.
Cosroe. Tu ancor tradirmi?
Laodice. Sí, Cosroe, ecco la rea:
questa s’uccida, e l’innocente viva.
Cosroe. Innocente chi vuol la morte mia?
Viva chi t’innamora?
È reo di fellonia;
è reo perché ti piace, e vuo’ che mora.
Laodice. La vita d’un tuo figlio è sí gran dono,
ch’io temeraria sono,
se spero d’ottenerlo. A che giovate,
sembianze sfortunate?
Se placarti non sanno,
mai non m’amasti, e fu l’amore inganno.
Cosroe. Pur troppo, anima ingrata, io t’adorai.
Fin della Persia al trono
sollevarti volea; né tutto ho detto.
Ho mille cure in petto,
ti conosco infedele;
e pur, chi ’l crederia? nell’alma io sento
che sei gran parte ancor del mio tormento.
Laodice. Dunque alle mie preghiere
cedi, o signor. Sia salvo il prence, e poi
uccidimi, se vuoi. Sarò felice
se il mio sangue potrá...
Cosroe. Parti, Laodice.
Chiedendo la sua vita,
colpa gli accresci, e il tuo pregar m’irríta.
               Laodice. Se il caro figlio
          vede in periglio,

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          diventa umana
          la tigre ircana;
          e lo difende
          dal cacciator.
               Piú fiero core
          del tuo non vidi;
          non senti amore,
          la prole uccidi;
          empio ti rende
          cieco furor. (parte)

SCENA III

Cosroe e poi Emira.

Cosroe. Vediam fin dove giunge
del mio destino il barbaro rigore:
tutto soffrir saprò...
Emira. Rendi, o signore,
libero il prence al popolo sdegnato.
Minaccia in ogni lato
co’ fremiti confusi
la plebe insana; e s’ode in un momento
di Siroe il nome in cento bocche e cento.
Cosroe. Tanto crebbe il tumulto?
Emira. Ogni alma vile
divien superba. In mille destre e mille
splendono i nudi acciari, e fuor dell’uso
i tardi vecchi, i timidi fanciulli,
fatti arditi e veloci,
somministrano l’armi ai piú feroci.
Cosroe. Se ancor pochi momenti
l’impeto si sospende, io piú nol temo.
Emira. Perché?
Cosroe. Giá il fido Arasse
corse a svenar per mio comando il figlio.

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Emira. E potesti cosí... Rivoca, oh Dio!
la sentenza funesta:
nunzio n’andrò di tua pietade io stesso...
Porgimi il regio impronto.
Cosroe. Invan lo chiedi:
la sua morte mi giova.
Emira. Ah! Cosroe, e come
cosí da te diverso? E dove or sono
tante virtú, giá tue compagne al trono?
Che mai dirá la Persia?
Il mondo che dirá? Fosti finora
amor de’ tuoi vassalli,
terror de’ tuoi nemici;
l’armi tue vincitrici,
colá sul ricco Gange,
colá del Nilo in su le foci estreme,
e l’Indo e l’Etiòpe ammira e teme.
Quanto perdi in un punto! Ah, se ti scordi
le leggi di natura,
un fatto sol tutti i tuoi pregi oscura.
Deh! con miglior consiglio...
Cosroe. Ma Siroe è un traditor.
Emira. Ma Siroe è figlio;
figlio che, di te degno,
dalle paterne imprese
l’arte di trionfar sí bene apprese,
che fu, bambino ancora,
la delizia di Cosroe e la speranza.
So che, a pugnar qualora
partisti armato o vincitor tornasti,
gli ultimi e i primi baci erano i suoi;
ed ei lieto e sicuro
al tuo collo stendea la mano imbelle,
né il sanguinoso lume
temea dell’elmo o le tremanti piume.
Cosroe. Che mi rammenti!

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Emira. Ed or quel figlio istesso,
quello s’uccide: e chi l’uccide? Il padre.
Cosroe. Oh Dio! Piú non resisto.
Emira. Ah! se alcun premio
merita la mia fé, Siroe non mora.
Vado? Risolvi. Or ora
trattener non potrai la sua ferita.
Cosroe. Prendi, vola a salvarlo. (gli dá l’impronto regio)
Emira. (Io torno in vita.)

SCENA IV

Arasse e detti.

Emira. Arasse! Oh cieli!
Cosroe. Ah, che turbato ha il ciglio!
Emira. Vive il prence?
Arasse. Non vive.
Emira. Ah, Siroe!
Cosroe. Oh, figlio!
Arasse. Ei cadde al primo colpo; e l’alma grande
sul moribondo labbro
soltanto s’arrestò, finché mi disse:
— Difendi il padre; — e poi fuggí dal seno.
Cosroe. Deh! soccorrimi, Idaspe, io vengo meno.
Emira. Tu, barbaro! tu piangi! E chi l’uccise?
Scellerato! chi fu? Di chi ti lagni?
Va’, tiranno! e dal petto,
mentre palpita ancor, svelli quel core.
Sazia il furore interno,
torna di sangue immondo,
mostro di crudeltá, furia d’Averno,
vergogna della Persia, odio del mondo.
Cosroe. Cosí mi parla Idaspe! È stolto o finge?

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Emira. Finsi finor, ma solo
per trafiggerti il cor.
Cosroe. Che mai ti feci?
Emira. Empio! che mi facesti?
Lo sposo m’uccidesti;
per te padre non ho, non ho piú trono.
Io son la tua nemica, Emira io sono.
Cosroe. Che sento!
Arasse. Oh meraviglia!
Cosroe. Adesso intendo
chi mi sedusse il figlio.
Emira. È ver, ma invano
di sedurlo tentai. Per mia vendetta
e per tormento tuo, perfido! il dico:
sappi ch’ei ti difese
dall’odio mio; ch’ei ti recò quel foglio;
che innocente morí; ch’ogni sospetto,
ch’ogni accusa è fallace.
Va’, pensaci e, se puoi, riposa in pace.
Cosroe. Serba, Arasse, al mio sdegno,
ma fra’ ceppi, costei.
Arasse. Pronto ubbidisco.
Olá! deponi...
Emira. Io stessa
disarmo il fianco mio. Prendi! (dá la spada ad Arasse,
il quale, presala, entra e poi esce con guardie)
(a Cosroe) T’inganni
se credi spaventarmi.
Cosroe. Ah! parti, ingrata:
d’un’alma disperata
l’odiosa compagnia troppo m’affligge.
Emira. Perché tu resti afflitto,
basta la compagnia del tuo delitto. (parte con guardie)

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SCENA V

Cosroe ed Arasse.

Cosroe. Ove son? Che m’avvenne? E vivo ancora?
Arasse. Consòlati, signor. Pensa per ora
a conservarti il vacillante impero;
pensa alla pace tua.
Cosroe. Pace non spero.
Ho nemici i vassalli,
ho la sorte nemica; il cielo istesso
astri non ha per me che sian felici;
ed io sono il peggior de’ miei nemici.
               Gelido in ogni vena
          scorrer mi sento il sangue;
          l’ombra del figlio esangue
          m’ingombra di terror.
               E per maggior mia pena
          veggio che fui crudele
          a un’anima fedele,
          a un innocente cor. (parte)

SCENA VI

Arasse, poi Emira con guardie e senza spada.

Arasse. Ritorni il prigioniero. I miei disegni
secondino le stelle. Olá! partite, (al comando d’Arasse
le guardie conducono fuori Emira, indi partono)
Emira. Che vuoi, d’un empio re piú reo ministro?
Forse svenarmi?
Arasse. No; vivi e ti serba,
illustre principessa, al tuo gran sposo.
Siroe respira ancor.
Emira. Come!

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Arasse. La cura
d’ucciderlo accettai, ma per salvarlo.
Emira. Perché tacerlo al padre
pentito dell’error?
Arasse. Parve pietoso,
perché piú nol temea: se vivo il crede,
la sua pietá di nuovo
diverrebbe timor. Cede alla téma
di forza la pietade:
quella dal nostro, e questa
solo dall’altrui danno in noi si desta.
Emira. Siroe dov’è?
Arasse. Fra’ lacci
attende la sua morte.
Emira. E nol salvasti ancor?
Arasse. Prima degg’io
i miei fidi raccórre,
per scorgerlo sicuro ove lo chiede
il popolo commosso. Or che dal padre
si crede estinto, avremo
agio bastante a maturar l’impresa.
Emira. Andiamo. Ah! vien Medarse.
Arasse. Non sbigottirti: io partirò; tu resta
i disegni a scoprir del prence infido.
Fidati, non temer.
Emira. Di te mi fido. (parte Arasse)

SCENA VII

Emira e Medarse.

Emira. Che ti turba, o signor?
Medarse. Tutto è in tumulto,
e mi vuoi lieto, Idaspe?
Emira. (Ignota ancor gli son.) Dunque n’andiamo
ad opporci a’ ribelli.

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Medarse. Altro soccorso
chiede il nostro periglio. A Siroe io vado.
Emira. E liberar vorresti
l’indegno autor de’ nostri mali?
Medarse. Eh! tanto
stolto non son; corro a svenarlo.
Emira. Intesi
che giá Siroe morí.
Medarse. Ma per qual mano?
Emira. Non so. Dubbia e confusa
giunse a me la novella. E tu nol sai?
Medarse. Nulla seppi.
Emira. Saranno
popolari menzogne.
Medarse. Estinto o vivo,
Siroe trovar mi giova.
Emira. Io ti precedo.
De’ tuoi disegni avrai
Idaspe esecutor. (Scopersi assai.) (parte)

SCENA VIII

Medarse.

Se la strada del trono
m’interrompe il germano, il voglio estinto.
È crudeltá, ma necessaria; e solo
quest’aita permette
di sí pochi momenti il giro angusto.
Ne’ mali estremi ogni rimedio è giusto.
          Benché tinta del sangue fraterno,
     la corona non perde splendor.
          Quella colpa, che guida sul trono,
     sfortunata non trova perdono;
     ma, felice, si chiama valor. (parte)

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SCENA IX

Luogo angusto e racchiuso nel castello destinato a Siroe per carcere.

Siroe, poi Emira.

Siroe. Son stanco, ingiusti numi,
di soffrir l’ira vostra. A che mi giova
innocenza e virtú? Si opprime il giusto;
s’innalza il traditor. Se i merti umani
cosí bilancia Astrea,
o regge il caso, o l’innocenza è rea.
Emira. (Arasse non mentì: vive il mio bene.)
Siroe. Ed Emira fra tanti
rigorosi custodi a me si porta?
Emira. Questo impronto real fu la mia scorta.
Siroe. Come in tua man?
Emira. L’ebbi da Cosroe istesso.
Siroe. Se del mio fato estremo
scelse te per ministra il genitore,
per cosí bella morte
io perdono alla sorte il suo rigore.
Emira. Senti Emira qual sia...

SCENA X

Medarse e detti.

Medarse. Non temete, o custodi: il re m’invia.
Emira. (Oh numi!)
Medarse. Idaspe è qui! Senza il tuo brando
ti porti in mia difesa?
Emira. In su l’ingresso
mel tolsero i custodi.
(Giungesse Arasse!) (guardando per la scena)

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Siroe. Ad insultarmi ancora
qui vien Medarse! E in qual remoto lido
posso celarmi a te?
Medarse. Taci, o t’uccido.
(snuda la spada)
Emira. È lieve pena a un reo
la sollecita morte. Ancor sospendi
qualche momento il colpo. Ei ne ravvisi
tutto l’orror. Potrò sfogare intanto
seco il mio sdegno antico.
Tu sai ch’è mio nemico e che, stringendo
contro di me fin nella reggia il ferro,
quasi a morte mi trasse.
Siroe. E tanto ho da soffrir?
Emira. (Giungesse Arasse!)
(guardando per la scena)
Siroe. E Idaspe è cosí infido,
che, unito a un traditor...
Medarse. Taci, o t’uccido.
Siroe. Uccidimi, crudel! Tolga la morte
tanti oggetti penosi agli occhi miei.
Medarse. Mori!... (Mi trema il cor.)
Emira. (Soccorso, o dèi!)
Medarse. (Sento, né so che sia,
un incognito orror che mi trattiene.)
Siroe. Barbaro! a che t’arresti?
Emira. (E ancor non viene!)
(come sopra)
Medarse. (Chi mi rende sí vile?)
Emira. Impallidisci!
Dammi quel ferro: io svenerò l’indegno;
io svellerò quel core. Io solo, io solo
basto di tanti a vendicar gli oltraggi.
Medarse. Prendi; l’usa in mia vece. (dá la spada ad Emira)
Siroe. A questo segno
ti sono odioso?
Emira. Or lo vedrai, superbo:

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se speri alcun riparo...
Difenditi, mia vita; ecco l’acciaro!
(Emira dá la spada a Siroe)
Medarse. Che fai, che dici, Idaspe? E mi tradisci,
quando a te m’abbandono?
Emira. No, piú non sono Idaspe; Emira io sono.
Siroe. (Che sará?)
Medarse. Traditori!
Verranno ad un mio grido
i custodi a punir...
Siroe. Taci, o t’uccido.

SCENA XI

Arasse con guardie, e detti.

Arasse. Vieni, Siroe.
Medarse. Ah! difendi,
Arasse, il tuo signor.
Arasse. Siroe difendo.
Medarse. Ah, perfido!
Arasse. (a Siroe) Dipende
la cittá dal tuo cenno. Andiam: consola
con la presenza tua tant’alme fide:
libero è il varco; e lascio
questi in difesa a te. Vieni, e saprai
quanto finor per liberarti oprai.
(parte, e restano con Siroe le guardie)

SCENA XII

Siroe, Emira e Medarse.

Medarse. Numi! ognun m’abbandona.
Emira. Andiamo, o caro.
Dell’amica fortuna

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non si trascuri il dono.
Siegui i miei passi; ecco la via del trono.
Siroe. È pur vero, idol mio,
che non mi sei nemica? Oh Dio! che pena
il crederti infedele!
Emira. E tu potesti
dubitar di mia fé?
Siroe. Perdona, o cara:
tanto in odio alle stelle oggi mi vedo,
che per mio danno ogn’impossibil credo.
     Emira. Ch’io mai vi possa
lasciar d’amare,
non lo credete,
pupille care;
né men per gioco
v’ingannerò.
     Voi foste e siete
le mie faville,
e voi sarete,
care pupille,
il mio bel foco,
finch’io vivrò. (parte)

SCENA XIII

Siroe e Medarse.

Medarse. Siroe, giá so qual sorte
sovrasti a un traditor. Piú della pena
mi sgomenta il delitto. Al soglio ascendi:
svenami pur; senza difesa or sono.
Siroe. Prendi, vivi, t’abbraccio e ti perdono.
(gli dá la spada)
               Se l’amor tuo mi rendi,
          se piú fedel sarai,

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          son vendicato assai,
          piú non desio da te.
               Sorte piú bella attendi,
          spera piú pace al core,
          or che al sentier d’onore
          volgi di nuovo il piè. (parte con le guardie)

SCENA XIV

Medarse.

Ah! con mio danno imparo
che la piú certa guida è l’innocenza.
Chi si fida alla colpa,
se nemico ha il destino, il tutto perde.
Chi alla virtú s’affida,
benché provi la sorte ognor funesta,
pur la pace dell’alma almen gli resta.
               Torrente cresciuto
          per torbida piena,
          se perde il tributo
          del gel che si scioglie,
          fra l’aride sponde
          piú l’onde non ha.
               Ma il fiume che nacque
          da limpida vena,
          se privo è dell’acque
          che il verno raccoglie,
          il corso non perde,
          piú chiaro si fa. (parte)

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SCENA XV

Gran piazza di Seleucia con veduta del palazzo reale e con apparata magnifico, ordinato per la coronazione di Medarse, che poi serve per quella di Siroe. Nell'aprir della scena si vede una mischia tra i ribelli e le guardie reali, le quali sono rincalzate e fuggono.

Cosroe, Emira e Siroe, l’uno dopo l’altro con ispada nuda; indi Arasse con tutto il popolo.

Cosroe, difendendosi da alcuni congiurati, cade.

Cosroe. Vinto ancor non son io.
Emira. Arrestatevi, amici; il colpo è mio.
Siroe. Ferma! Emira, che fai? Padre, io son teco:
non temer.
Emira. Empio ciel!
Cosroe. Figlio, tu vivi!
Siroe. Io vivo, e posso ancora
morir per tua difesa.
Cosroe. E chi fu mai
che serbò la tua vita?
Arasse. Io la serbai.
Libero il prence io volli,
non oppresso il mio re. Di piú non chiede
il popolo fedel. Se il tuo contento
non fa la mia discolpa,
puoi la colpa punir.
Cosroe. Che bella colpa!

SCENA ULTIMA

Medarse, Laodice e detti.

Medarse. Padre!
Laodice. Signor!
Medarse. Del mio fallir ti chiedo
il perdono o la pena.

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Laodice. Anch’io son rea;
vengo al giudice mio: l’incendio acceso
in gran parte io destai.
Cosroe. Siroe è l’offeso.
Siroe. Nulla Siroe rammenta. E tu, mio bene, (ad Emira)
deponi alfin lo sdegno. Ah! mal s’unisce
con la nemica mia la mia diletta:
o scòrdati l’amore o la vendetta.
Emira. Piú resister non posso. Io, con l’esempio
di sí bella virtú, l’odio abbandono.
Cosroe. E, perché quindi il trono
sia per voi di piacer sempre soggiorno,
Siroe sará tuo sposo.
Emira e Siroe. Oh lieto giorno!
Cosroe. Ecco, Persia, il tuo re. Passi dal mio
su quel crin la corona: io, stanco alfine,
volentier la depongo. Ei, che a giovarvi
fu da’ prim’anni inteso,
saprá con piú vigor soffrirne il peso.
(siegue l’incoronazione di Siroe)

Coro.
               I suoi nemici affetti
          di sdegno e di timor
          il placido pensier
          piú non rammenti.
               Se nascono i diletti
          dal grembo del dolor,
          oggetto di piacer
          sono i tormenti.