Sessanta novelle popolari montalesi/XX

XX. Il Canto e ’l Sòno della Sara Sibilla

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XX. Il Canto e ’l Sòno della Sara Sibilla
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NOVELLA XX


  • Il Canto e 'l Sòno della Sara Sibilla

(Raccontata dalla Luisa vedova Ginanni)


C'era una volta un Re d'una gran città, che ugni mattina lui voleva all'otto dell'ova a bere, ma fresche; sicché il su' servitore andeva per le strade a girare e urlava: - Chi ha ova fresche da vendere per il Re? Una mattina che passava per una straduccia for di mano, questo servitore sentette delle ragazze che discorrivano infra di loro dientro a una casa; sicché lui si fermò per sapere quel che loro dicevano. Le ragazze gli eran tre, insenza mamma né babbo, e campavano la vita con il su' lavoro. La maggiore dunque diceva: - S'i' potessi aver per isposo il fornaio del Re, i' fare' pane in un giorno solo quanto ne mangia la Corte in un anno. Mi garba tanto quel giovanotto! Doppo di lei disse la mezzana: - E i' vorre' per isposo il vinaio del Re, che mi va a genio, e con un bicchier di vino vorre' 'mbriacare tutta la Corte. Ma la più piccina, che 'gli era anco la più bella, disse: - Io poi vorrei per isposo il Re medesimo; e se lui mi pigliassi, gli vorre' fare a un parto du' bambini con una collana d'oro al collo e una bambina con una stella in sulla testa. Quando il servitore fu ritorno al palazzo, in quel mentre che lui vestiva il Re, gli raccontò i ragionari di quelle tre ragazze, e il Re incuriosito a bono gli disse al servitore: - Vammi a chiama subbito la maggiore, che la voglio vedere. A male brighe che la maggiore 'gli ebbe quell'ambasciata tutte e tre le sorelle si sturborno, perché avevano una gran [196] paura per [p. 196 modifica]via del discorso fatto dalla più piccina; ma bisognò ubbidire al Re, perché lui è quello che comanda. Arriva che fu alla presenzia del Re, lui volse da lei risapere che discorsi lei aveva fatto; e nun gli valse il prutesto che eran parole di chiassata, perché Sua Maestà s'incaponì di risentirle in ugni mo' dalla su' propria bocca della ragazza, sicché la ragazza gliele disse. - Nun c'è nulla di male, - disse il Re. - Si chiami 'l fornaio e sarà subbito vostro sposo. E fece davvero accosì. Poi doppo mandò il servitore che gli menassi la sorella mezzana, e anco lei fu ubbligata a rifargli quel discorso sentuto, e il Re la contentò col dargli il vinaio di Corte per marito. Finalmente si viense alla più piccina delle tre sorelle. Bisognava vederla, genti mia! come 'gli era bella e garbosina, con gli occhi neri e co' su' capelli neri! E più anco, dalla vergogna 'gli era diventa tutta rossa rossa in nel viso. - State vispola, - gli disse il Re: - e nun abbiate sospetto. I' vo' soltanto che mi ridite da voi le parole che v'ènno nuscite di bocca a udita del mi' servitore. Via, su, dite pure alla libbera. Lei proprio nun sapeva d'addove cominciare; ma poi, fa' e rifai, di' e ridii, si diede un animo e pian pianino la disse: - Maestà! 'gli era per chiasso, per ragionare di qualcosa, insenza un malo pensiero al mondo. Guà! i' dissi, che, se il Re mi pigliava per su' legittima sposa, i' gli are' partorito tutti assieme du' bambini con la collana d'oro al collo, e una bambina con una stella risplendente in sulla testa. - E vo' saresti bona a mantiener la 'mprumessa? - Di sicuro, Maestà, ch'i' mi credo capace di mantienerla la mi' 'mprumessa. Allora il Re, che a sentirla parlare se ne' era 'nnamorato, gli disse: - Vi piglio 'n parola e vo' sarete la mi' legittima sposa e Regina in sul trono. Sicché dunque, doppo averla fatta 'struire con una bona aducazione, seguirno le nozze reali con grandi allegrie per tutto il Regno, e le sorelle della Regina il Re gliele mettiede a servirla 'n Corte per su' propria compagnia. Ma loro però nun ci s'adattavano a esser da meno, e l'astiavano la Regina con un rodimento di core, che nun si pole nemmanco raccontare; e se gli potevano far de' dispetti, nun si rispiarmavano mica. Passato che fu del tempo, du' mesi, via! la Regina 'gli era gravida, e al Re gli toccò d'andare alla guerra, e lassarla lì la [ [p. 197 modifica]197] su' sposa sola in nel palazzo; ma lui, prima di partire, l'arraccomandò a tutti e alle sorelle, che gliela tienessino bene custodita e l'ubbidissano ne' su' comandamenti, e che poi gli scrivessano a lui al campo quando lei partoriva. E accosì la Regina, quando fu il su' mese, partorì du' be' bambini con la collana d'oro al collo e una bambina con la su' stella luccichente in sul capo. Figuratevi l'ascherezza delle su' sorelle maligne! Che ti fanno? S'accordano assieme, e di niscosto che nissun se n'avvedde, cavorno dal letto quelle tre creature e ci messano 'nvece du' cani e una cagna, e poi diviato loro scrissano al Re, che la Regina aveva mantienuto la su' 'mprumessa a quel mo', col partorirgli du' cani e una cagna. Quando il Re lesse la lettera cascò giù per le terre istramortito dal gran dolore; ma rivienuto in sé, mandò ordine in Corte, che la Regina fusse in nel mumento presa e murata viva a piè della scala del palazzo con solo la faccia scoperta, e che tutti quelli che passavano per di lì, pena la testa, gli avessino a dare uno stiaffo o sputargli 'n viso; e le sorelle gli eran sempre le prime a fargli quegli spregi e la martirizzavano quella poera donna 'nnocente in tutte le maniere. Ma torniamo alle creature, che le zie avean cavato via dal letto della Regina insenza che lei se n'addassi. Loro mandorno a chiamare una vecchiaccia, di nome Menga, e gli dissano: - Piglia queste tre creature, serrale in una scatola di legno, e buttala 'n mare, ché gli affoghino. E bada di stare zitta, se la tu' pelle ti preme. Poi alla vecchia gli regalorno dimolti quattrini, e lei, ubbidiente al comando, se n'andiede al mare e ci scaraventò la scatola con le creature dientro; la scatola imperò, perché 'gli era di legno, rimanette a galla, e l'acqua, dimenala di qua, dimenala di là, e' la fece approdare a un'isola, in dove steva di casa un Eremita. Quest'Eremita un giorno spasseggiava per la su' isola, e vede a un tratto la scatola in sulla spiaggia; lui corre e l'alza di peso in mano, poi l'apre e resta com'un allocco in nel trovarci serrate quelle tre belle creature vive, ma che cominciorno a piagnere dalla fame che avevano. L'Eremita subbito arritornò alla su' capanna, e siccome tieneva delle capre, lui gli mettiede sotto le tre creature, che puppavano puppavano, e nun ismessano se nun quando furno satolle. [198] [p. 198 modifica]A questo mo' l'Eremita rallevò le creature, e quando le diventorno grandicelle, lui gl'imparò a leggere e a scrivere, e in su i tredici o quattordici anni i ragazzi gli andevano a caccia per il campamento, e la ragazza badava a casa e lavorava. Ma poi doppo del tempo l'Eremita s'accorgé di dover presto morire; gli pigliò un male che nun ci fo scampo. Le coia vecchie tanto nun reggano! Allora lui chiamò d'attorno il su' lettuccio i ragazzi e la sorella, e gli fece un bel discorso: che stessin d'accordo e si volessin bene, e che i fratelli aessano a difendere ugni sempre la su' sorella, e che forse, abbeneché poeri a quel mo', potevan col tempo diventar ricchi e arritrovare i su' genitori; e alla ragazza gli regalò una bacchetta fatata che a picchiarla per le terre compariva tutto quello che uno voleva. Doppo rendette l'anima a Dio l'Eremita. A mala pena che l'Eremita fu spirato, con pianti e lamenti que' tre gli dettano sepoltura, e poi pensorno al modo di sortire da quell'isola, e con la bacchetta fatata la ragazza comandò che tutti fussan portati in nel Regno vicino. E quando si trovorno in terra, loro camminavan insenza sapere che strada era quella, e a buio deccoteli tutti e tre in mezzo a un bosco, con una fame che propio nun ne potevan più. Dice il maggiore: - Qui bisogna fermarsi. Sorellina, via! con la tu' bacchetta fa' comparire qualcosa di bono - Volenchieri! - disse lei. - I' farò comparire un bel palazzo tutt'ammannito per darci albergo e con una cena imbandita in sulla tavola. E pigliata la bacchetta, in un lampaneggio subbito appare il palazzo, ma ricco con tanti lumi, e la cena in sulla tavola; sicché loro nun feciano altro che rientrar dientro e mettersi giù a sedere per mangiare. A farla corta, que' tre se ne stevan lì come 'n casa sua, e i ragazzi sortivan fora tutte le mattine a cacciare, e la ragazza tieneva il quartieri ravviato, oppuramente leggeva o cuciva, secondo come più gli garbava. Infrattanto il Re lo rodeva ugni sempre una gran passione. Poer'omo! Lui dalla guerra 'gli era torno vincitore, ma a vedere la su' moglie lì murata a piè della scala nun si poteva dar pace, e se nun fussi stato per la su' parola di Re, quasimente e' l'arebbe anco fatta levare le mille volte da quella pena. Ma per isvagarsi lui nusciva, si pole dire, ugni giorno la mattina [ [p. 199 modifica]199] presto e 'gli andeva pe' boschi a caccia; e gira e gira, sicché quando arrivieniva al palazzo 'gli era tanto stracco, che nun si reggeva 'n piedi dallo strapazzo. Insomma, una volta 'gli accadette che lui si smarrì per una macchia e avea propio sperso la via a ritornare in nella città; sicché a notte fatta, per nun essere sbranato dagli animali, abbeneché aessi detto a ugni mumento che per lui 'gli era meglio morire, s'arrampicò 'n vetta a un albero folto con l'idea di aspettar lassù il giorno. Ma in nell'assettarsi per nun cascare e' vedde a un tratto un lumicino lontano lontano, e ripensò che ci doveva essere qualche casa laoni 'n fondo; sicché scende e s'avvìa per quel verso, e tanto camminò, che finalmente viense per l'appunto al palazzo de' su' figlioli. Lui però nun lo sapeva ch'erano i su' figlioli. Picchia al portone, e di dientro la ragazza domanda: - Chi èn egli a quest'ora? - I' sono un Re, e mi son sperso a caccia per la selva. Datemi un po' d'albergo, che ho paura degli animali che mi sbranino. Tutti scesano co' lumi e apersano al Re, lo menorno in una cammera dinanzi al foco e lo asciugorno tutto dalle guazze, e poi gli diedano de' panni perché si mutassi; e quando si fu riavuto per bene, lo volsano a cena con loro. Il Re nun capiva in sé dall'allegrezza per que' complimenti, e badava a dire in nel su' core: - Decco! pur'io i' potevo avere di questi figlioli, se nun era la mi' moglie a mancarmi di parola. Paian propio quelli che m'aveva lei 'mprumesso. Alla mattina, quando fa giorno, il Re s'alzò da letto per andarsene, e doppo culizione gli abbracciò e baciò tutti que' giovinetti, e nun si sapeva staccar di lì: pareva che lui ci fosse 'nchiodato. Ma da ultimo si fece un animo e gli disse addio, con questo però, che lui volse che andessano a trovarlo e stessano a desinar con lui al su' palazzo reale, almanco tra una settimana. Loro l'accompagnorno giù per insino al portone, e daccapo con gli abbracci, i baci e i pianti del Re, ognuno se n'andette per i fatti sua. Arrivo che fu il Re alla su' abitazione, in quel mentre che era a tavola, raccontò tutte le cose che gli erano intravvienute e di quelle belle creature che gli avean dato albergo con tanta carità, e che lui e' l'avea anco invite al su' desinare tra una settimana. In nel sentire queste novità le zie, ossia le cognate [200] [p. 200 modifica]del Re, ci mancò poco che nun si cacorno dientro alle gonnelle dalla pena, perché loro capirno bene che que' giovanotti con la ragazza gli eran propio i figlioli del Re, e se lui lo scopriva, loro dicerto e' l'ammazzava. Sicché dunque infurite corsano quelle malandrine dalla solita vecchia: - Oh! Menga, e che ne facessi voi di quelle creature che vi si diede per buttarle 'n nel mare e affogarle? Dice la vecchia: - Guà! la scatola in nel mare ce la buttai, ma' gli era di legno e steva a galla. Se poi gli andette a fondo o no, nun stiedi mica lì a vedere. - Oh! sciaurata, - scramano le zie: - le creature ènno sempre vive e il Re l'ha 'ncontrate, e se lui per disgrazia le ricognosce per sue, no' siem tutte morte. - Che rimedio c'è? - Il rimedio 'gli è questo. Che vo' andate, Menga, al palazzo, quando i giovanotti én fori a caccia, a cercar di lemosina. Vierrà la ragazza e in nel discorrire vo' gli ate a domandare se i su' fratelli gli voglian bene. Lei dirà di sì. Ma vo' avete a rispondere: "Se vi volessin bene, vi porterebbano IL CANTO E IL SÒNO DELLA SARA SIBILLA." Se loro vanno a trovarlo nun tornan più mai, e la su' sorella creperà dalla pena. Fisso che loro gli ebbano accosì, la Menga subbito si vestiede come una pitocca e diviata se n'andette a quel palazzo 'n mezzo al bosco e picchiò al portone: - Chi è? - Una poera vecchia tribolata. Fatemi un po' di lemosina per l'amor di Dio e vo' n'arete rimerito 'n Paradiso. La ragazza dunque, che era sola 'n casa, scendé con la lemosina e la diede a quella vecchiaccia birbona, e cominciorno a attaccar discorso. - Chi siete? Da dove vienite voi? - Eh! i' son di lontano e vo' a cercar di pane: nun bo più nimo de' mia. E voi che ci state sola in questo bel palazzo? - Che! i' ho anco du' fratelli, che mi voglian un ben dell'anima. Ma tutte le mattine loro vanno a caccia. - Vi voglian bene? Che vo' abbia pacenzia! Ma se loro vi volessin bene... - Che volete vo' dire? - scramò la ragazza. - Mi parete una bella sfacciata, - Eh! 'gnora no. I' so ben quel ch'i' mi dico. Se loro vi volessin bene, nun vi porterebbano i vostri fratelli degli animali morti soltanto, bensì il Canto e il Sòno della Sara Sibilla. Quello davvero sarebbe un bel regalo! Alla ragazza (si sa, le donne son tutte compagne) quelle parole della vecchia gli messano il foco 'n corpo per la [ [p. 201 modifica]201] smania d'avere quel regalo; sicché dunque quando i su' fratelli tornorno da caccia, lei non era più allegra e contenta al solito. Dicon loro: - Oh! che hai? T'è egli intravvienuta qualche disgrazia? - No. - Ti senti male? Ti dole 'l corpo? - No, no. - Oh! e dunque, che ha' te di novo? - I' hoe che vo' nun mi volete tutto quel bene che vo' dite. - Come nun ti si voi bene? Che ti manch'egli? - Cari fratelli, mi manca il Canto e il Sòno della Sara Sibilla, e se vo' mi volete bene, andatemelo a prendere. - Ma 'n dov'è questo Canto e Sòno? Se no' si sapess'in dov'è, fuss'anco 'n capo al mondo, s'anderà per esso, perché te sia contenta. - Ma! i' nun lo so. Eppure, esserci ci ha da essere. Me l'ha detto una che lo sapeva. Il su' logo però nun me l'ha detto. Insomma, per nun vederla a quel mo' appassionata la sorella e anco avean loro 'mprumesso all'Eremita d'ubbidirla 'n tutto, il fratello maggiore delibberò d'andare il primo a cercarlo, se ma' lo trovava, il Canto e il Sòno della Sara Sibilla, e 'nnanzi di partire lui mettiede sur una tavola una boccia d'acqua chiara e disse: - Se quest'acqua s'intorbisce, vole dire ch'i' sono o sperso o morto, e che nun torno più. Addio. Parte accosì il fratel maggiore e camminò dimolti giorni, insino a che viense a un logo, dove c'era un vecchino: - Addove andate, giovanotto? Ma lui 'ngrugnito gli arrispose: - La gente di bon affare nun domanda delle cose degli altri. - E vo', tanto superbioso, nun arritornerete arrieto. E pur troppo gli accadette a quel mo', perché il giovanotto nel logo in dove 'gli andò ci rimase statua di marmo. Doppo questa disgrazia dunque, l'acqua della boccia la veddano torba in nel palazzo, sicché il fratello più piccino volse anco lui far subbito partenza, tanto per trovare il fratel maggiore che il Canto e il Sòno della Sara Sibilla, e come quell'altro lassò una boccia d'acqua alla sorella, perché lei s'accorgessi se lui 'gli era sperso o morto. Arriva doppo dimolti giorni a quel vecchino: - Addove andate, giovanotto? - Vo addove mi pare, e se vo' avessi un po' di giudizio nun mi dimanderessi de' fatti mia. - Andate, andate pure! Anco un altro superbioso come vo' siete addietro nun c'è ritorno. Ma il giovanotto nun lo stiede a sentire, e arrivo che fu al posto del su' fratello [202] rimanette lì statua [p. 202 modifica]di marmo. Figuratevi la disperazione della sorella, quando vedde intorbita l'acqua della boccia del fratel minore! - I' son io la sciaurata che gli ho morti. Ma, tant'è, vo' ire a ricercargli. Difatto la si mette 'n via e lei pure arriva in dove era il solito vecchino; lei però nun gli arrispose a traverso, quando lui gli domandò: - Ragazzina, in dove andate a coresto modo solingola? - Che volete! I' avevo du' fratelli e mi viense la brama che mi portassino il Canto e il Sòno detta Sara Sibilla, e loro gli andettano a cercarlo: ma nun gli ho più visti e dicerto sono morti a quest'ora. Me sciaurata! I' son io che gli ho morti! - Eh! Se mi devan retta, la disgrazia nun gli accadeva, - disse quel vecchino. - Come? Oh! che gli avete visti? Addov'ènno? Per carità, ditemelo. Ma che son morti loro? - Morti no, ma quasimente. Èn diventi du' belle statue di marmo e della compagnia nun gliene manca. Ma se vo' mi date retta, ragazzina, vo' poteressi riavergli sani e vispoli, purché vi rinusca impadronirvi del Canto e Sòno della Sara Sibilla. Del coraggio n'aete voi? Badate, veh! che ce ne vole dimolto, ma dimolto del coraggio. Dice lei: - Purch'i' ritrovi i fratelli, i' son disposta ad ugni cosa. Del coraggio a me nun me ne manca, e i' n'ho a dovizia. Dunque che ho io da fare? - Decco. Vo' vedete questo stradone lungo lungo: bisogna ripire per insino in vetta. Lassù c'è un prato e d'attorno tante statue di marmo, e le prime son quelle de' vostri fratelli: tutte quell'altre sono di cavaglieri, di re, di principi che han cerco il Canto e il Sòno della Sara Sibilla, e rimasano lì impietriti in pena del su' ardimento. In sull'entrata del prato ci stanno du' leoni feroci a far la guardia, e nun lassan passare nimo, se nun gli si dà un pane per uno a mangiare; ma quando l'han mangio, loro s'abboniscano e vanno a accompagnare il forastiero. Quand'uno è dientro al prato, bisogna che nun si fermi mai, e giri e giri in tondo a guardare tutte quelle statue: poi, alle ventiquattro, che sarà buio, s'ha da metter ritto e fermo 'n mezzo del prato e aspettare che sòni la mezzanotte. A mezzanotte 'n punto nasceranno de' gran rumori e comparirà una scala di cento scalini: subbito bisogna montarla per insino a cinquanta scalini e lì aspettare daccapo. Ma non ci vole temenza, veh! Perché si vede scendere un'ombra smensa, [203] [p. 203 modifica]co' capelli lunghi ciondoloni per le spalle, che è la Sara Sibilla. Lei, guà! scende insenza sospetti, e però bisogna di repente acciuffargli i capelli con le mane e badare di chienerla forte che nun iscappi. Allora lei principierà a urlare: "Ohi! ohi! Che cercate da me" - "Cerco il Canto e il Sòno della Sara Sibilla." - "Chi ve l'ha detto? Chi vi ci ha mando?" Arrispondete diviato: "Vo' nun ci avete a pensare. Datemi il Canto e il Sòno e po' vi lasso." Lei dirà: "Lo volete rosso? Lo volete celeste, verde?" Vo' avete a rispondere sempre di no insin tanto che lei non dice: "Lo volete color di rosa?" E quando la Sara Sibilla v'averà dato quell'arnese, lei sparirà con la su' scala e vo' dovete rimanere sul posto in mezzo del prato e aspettare la levata del sole, e poi toccando le statue col Canto e il Sòno della Sara Sibilla, le statua ridiventeranno omini vivi. Avete vo' 'nteso? La ragazza tutta contenta delle 'struzioni del vecchino lo ringraziò a modo, si fece dare i pani per i leoni, e po' via su per lo stradone, sicché 'gli arrivò all'entrata del prato ch'eran vicine le ventiquattro. Per nun andar tanto per le lunghe, insomma, lei ubbidì in tutto e per tutto alle parole del vecchino, e più brava di quegli che c'erano stati prima di lei, potette impadronirsi del Canto e Sòno della Sara Sibilla, e quando l'ebbe avuto in nelle mane codesto arnese (un arnese, ma com'era fatto nun si sa), si mettiede a toccar le statue, e in un mumento il prato fu pieno di persone vive. I fratelli l'abbracciavano la su' sorella; i cavaglieri, i re e i principi badavano a ringraziarla del su' coraggio; e chi gli profferiva una cosa e chi un'altra, o ricchezze, o tesori, o il Regno con la mana di sposo: lei però nun volse nulla. Dissano finalmente i su' fratelli: - E ora in dove si va? Dice la ragazza: - Nun s'ebbe noi l'invito d'andare a desinare dal Re? Dunque andiamo a mantienergli la 'mprumessa. Si mettiedano subbito in viaggio con tutto quel corteo dreto, perché tutti volsan fare l'onoranza a quella che gli aveva libberati da morte a vita. Genti mia! Nel vedere arrivare 'n citta quella schiera di cavaglieri con alla testa la ragazza, che gli splendeva la stella in sul capo, il popolo correva e gli accompagno per insino al portone del palazzo. Il Re poi scese giù a riscontrargli, e quando fu per [204] [p. 204 modifica]salire la scala, disse: - Qui c'è una legge. Prima di vienir su bisogna dare uno stiaffo, oppuramente sputare 'n faccia a questa sciaurata confitta dientro al muro. Dice la ragazza: - A questa legge noi nun ci si sta. Che! Nun si fanno di simili birbonate. E insenza tanti discorsi se n'andette co' su' fratelli a albergo in una locanda. Il Re era disperato, perché e' nun volea mancare alla su' legge, e gli rincresceva che quelle tre belle persone nun stessano a desinare con lui, anco per rimerito del bene che loro gli avean fatto in nel bosco. Manda un'ambasciata, che lui si contenta che passino insenza ubbidire alla su' legge; ma la ragazza disse: - Quando si viene a desinare dal Re, a tavola ci ha da essere anco la padrona. Nun si pole star allegri con la padrona a quel gastigo. Il Re nun sapeva propio come rigirarla; ma poi lo vincé la brama che que' tre fussano alla su' mensa, comandò che la moglie si levasse di drento al muro e la si rivestisse da Regina. Poera donna! 'Gli era secca rifinita, allampanita, che nun si reggeva in sulle gambe, tanto aveva patito per tant'anni! Quando tutti furno a tavola che mangiavano allegramente (allo 'nfora delle zie, che tremavano come foglie dalla paura che si scopriss'ugni cosa), la ragazza tirò dalla su' tasca il Canto e il Sòno della Sara Sibilla, e quell'arnese principiò a ballare e sonare in sulla mensa, e cantava a tutto potere: - Quest'è la mamma e questi i su' figlioli, e le zie l'hanno tradita. Il Re a sentir quel canto viense in sospetto e le zie in quel mentre gli eran casche stramortite lì per le terre; sicché il Re le fece arrestare e mettere 'n prigione, e la su' moglie gli raccontò quel che loro gli avean fatto, e subbito cercano della Menga e sì seppe da lei tutto 'l tradimento. Il Re allora inviperito comandò che s'arrizzassi 'n piazza una catasta di stipa, e sopr'essa volse che ci bruciassin vive tutt'e tre quelle porche lezzone, e gastigate accosì fu finita la miseria.