Satira IV

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Aulo Persio Flacco - Satire (I secolo)
Traduzione dal latino di Vincenzo Monti (1803)
Satira IV
III V
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SATIRA IV.



E a maneggiar tu imprendi la repubblica?
     (Che sì ragioni il grave Sofo imagina,
     Cui diro di cicuta beveraggio
     Spense). E in cui fidi? Il mostra, o del gran Pericle
     5Pupillo. Oh sì davvero; in te fu celere,
     Più che il pelo, l’ingegno ed il giudizio,
     E sai che dire, e che tacer. Se fervida
     Bile a tumulto la canaglia stimola,
     Tu dunque speri l’acquetar coll’arbitra
     10Maestà della mano? E che dir poscia?
     Questo, o Quiriti, ingiusto parmi, e pessimo
     Quello; meglio quest’altro: chè d’ancipite
     Libra tu sai ne’ gusci il giusto appendere,
     Sai la retta avvisar quando l’interseca
     15La curva, o falla con piè torto il regolo;
     E puoi del negro theta il vizio imprimere.
     Perchè dunque anzi tempo, e indarno lucido
     Sol nella buccia all’adulante popolo
     Lisci la coda adulator perpetuo,
     20Quando merti sorbir le prette Anticire?

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     Quale estimi ben sommo? Il sempre vivere
     Con lauto piatto, e sotto sole assiduo
     Profumar la cotenna? Odi rispondere
     Quella vecchia altrettanto. Or vanne, e spampana:
     25Io son figlio a Dinomaca. Si? gonfiati.
     Son bello. — Il sii; a patto che non s’abbia
     Di te men senno la cenciosa Bauci,
     Quando al mozzo sbracato grida: impiccati.
Gran che! nullo si studia in sè discendere,
     30Nullo: e soltanto a riguardar soffermasi
     L’appesa al tergo anteríor bisaccia.
Dimanderai: conosci di Vettidio
     Le tenute? — Di chi? — Di quel ricchissimo
     Che semina in Sabina quanto un nibbio
     35Non girerebbe. — Di lui parli? — Intendesi.
     Maledetto da Giove, e dal suo Genio
     Sai che fa? Quando attacca nel crocicchio
     Il vomere, raschiando con cuor trepido
     Il vecchio limo al botticello, un gemito
     40Rompe, e in sè dice: i numi me la mandino
     Buona. Quindi col sal morde le tuniche
     D’una cipolla, e posta, con gran plauso
     De’ suoi famigli, una polenta in tavola,
     Sorbe di morto aceto le filaccia.
45Ma tu, che trinci altrui, se al sole in ozio
     L’unta cute sporrai, non visto e prossimo
     Tal v’avrà, che al compagno dia di gomito,
     Acre sputando contra il tuo mal vivere,
     Contra te, che il cotale e delle natiche
     50Ronchi i boschi segreti, e le già fracide

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     Fiche squaderni del diretro al pubblico.
     Mentre la felpa profumata pettini
     Della mascella, perchè poi dall’inguine
     Raso ti guizza d’ogni pelo il tonchio?
     55Ancorchè cinque palestriti svellano
     Quella selvaccia, e con mollette affliggano
     Le flosce chiappe, nò, per verun vomere
     Una felce siffatta unqua non domasi.
Così tagliamo altrui le gambe, e stolidi
     60Diam le nostre a tagliarsi; e così vivesi,
     Così noi stessi conosciam. Ti macera
     Occulta piaga il pube, ma ricoprela
     Largo aurato pendon. Dalla ad intendere
     Come ti piace, e se puoi, gabba i muscoli
     65Dolorati. — Ma egregio uomo mi predica
     Il vicinato: non terrogli io credito? —
     Se visto l’auro, o ghiottoncello, impallidi,
     Se fai tutto, che detta la prurigine
     Del menatojo che in amaro tornasi,
     70Se al Puteale il debitor tuo scortichi
     Cauto usurajo, invan tu porgi al popolo
     L’avide orecchie. I non tuoi merti ai diavolo,
     E le ciabatte al ciabattier. Teco abita,
     E vedrai non t’aver che cenci e zacchere.