Rosmonda/Nota storica

Nota storica

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Atto V
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NOTA STORICA

Mentre gli applausi del pubblico al Belisario lusingavano ancora l’animo del giovane poeta, Goldoni finiva di compiere e consegnava alla compagnia del teatro di S. Samuele, per la quale si era impegnato, la Rosmonda, che venne recitata in quel carnovale, la sera dei 17 gennaio 1735 (la data precisa si trova nelle Memorie francesi, P. 1, ch. XXXVI; quella che reca l’ed. Zatta, deve senza dubbio intendersi more veneto). Qualcuno, ingannato dal titolo, potrebbe pensare alle varie Rosmunde e Rosimonde che si incontrano nella storia del teatro italiano, da quella del Rucellai (1516) a quella dell’Alfieri (1779) oppure di Sem Benelli (1911); ma la Rosmonda del Goldoni non è attinta dalla storia, bensì dal romanzo: non ci trasporta sul Ticino, fra i Longobardi, bensì fra la gente lontana dei Goti, in una fantastica capitale del settentrione. Un frate domenicano del Seicento, il p. Giammaria Muti (1649-1729: su questo scrittore di romanzi e d’opere ascetiche, dimenticato dal Belloni e dall’Albertazzi, ma ricordato dal Cinelli e dai compilatori del Nuovo Dizionario Istorico di Bassano, t. XII, 1796, v. a lungo E. Cicogna, Inscrizioni Veneziane, vol. III, fasc. 9, p. 24) prestò la favola. Il nome di “Arana” città reale di Gotia” dove si svolge l’azione e quelli dei personaggi principali, Alvida, Germondo, Rosmonda stessa, si trovavano già nel Torrismondo (1587) di Torquato Tasso.

Il Goldoni dunque non rifece per le scene veneziane la Rosimonda vendicata (1729) in cui pochi anni prima il marchese Gorini-Corio di Milano aveva rifuso una sua più antica Rosmunda (1722), ma cercò più liberamente nel regno della fantasia il soggetto e l’anima della sua nuova creazione; tentativo forse troppo audace per un giovane autore a que’ tempi, perchè il popolo gode sapere che l’azione tragica riposa in qualche tradizione mitologica o storica, È vero tuttavia che tra le varie Rosmunde derivate dal Rucellai (l’Alfieri tolse, come si sa, da Prévost) e la Rosmonda goldoniana esiste un punto comune di somiglianza: poichè anche qui il dramma sorge dal sangue di un parente ucciso da vendicare. Come il ricordo del padre ucciso fa armare la regina longobarda contro il barbaro marito, così la morte del fratello impedisce la principessa dei Goti dall’accettare in isposo l’eroico re di Norvegia. Ma l’origine è altrove; dal suolo cavalleresco della Spagna la lotta dell’onore e dell’amore è fatta trasmigrare in un incerto paese, senza tempo e senza confini, fra Goti e Normanni: siamo ricongiunti al contrasto fatale tra il dovere di figlia e di sorella e la passione di donna: siamo nel regno del Cid. Come Chimene, anche la pallida Rosmonda goldoniana può rispondere:

Dedans mon ennemi je trouve mon amant.


(Basterà segnare alcune date: Las Mocedades del Cid di Guglielmo di Castro 1599? stamp. 1621: le Cid di Pietro Corneille 1636: prima trad. ital. in versi, di Andrea Valfrè, Carmagnola 1647: libera vers. in prosa, l’Amante inimica, ovvero il Rodrigo gran Cid delle Spagne, Bologna 1699; el Honrador de su padre di G. B. Diamante 1658).

Tuttavia il Goldoni non volle o non seppe sviluppare la potenza drammatica dei due personaggi principali, Rosmonda e Germondo; e in luogo di [p. 180 modifica]una tragedia dell’amore, creò la tragedia dell’odio. Una sola figura grandeggia a quando a quando in questo infelice saggio drammatico: quella di Alerico, re dei Goti. Ben avverte Rosario Bonfanti nel seguire i primi passi del futuro commediografo sul teatro: “Nella Rosmonda non v’ha niente che offenda la serietà tragica, hanno i personaggi alcun vigore nelle loro passioni: quel che difetta è la forma, tanto il dialogo è pedestre, tanto son privi questi principi e principesse dell’arte della parola, che pur avrebbero sentimenti straordinari da esprimere. Vuote esclamazioni e continue querele, nelle quali talora il contrasto di supremi interessi assume il tono, di volgar battibecco” (La Donna di garbo di C. G., Noto, 1899, p. 40). È vero, purchè per forma si intenda poesia, arte: quel segreto che l’autore dei Rusteghi possedette mirabilmente, di far parlare nella commedia i personaggi più umili, di penetrare così nelle loro semplici anime da tenerle nella sua mano, gli manca del tutto in questo mondo shakspeariano a lui ignoto, nell’atrio di una reggia dove si espande immortale la nobile voce di Sofocle o quella di Corneille.

Eppure il Goldoni riuscì a creare “un personaggio tragico fra i più efficaci del tempo” (G. Ortolani, Della vita e dell’arte di C. G., Ven. 1907, p. 26. Mario Penna che nella Rosimonda, come dice sempre per isbaglio, scopre un “tentativo d’analisi psicologica”, benchè sia “opera d’arte mancata”, crede di poter accostare Alerico a Osroa, nell’Adriano in Siria del Metastasio: Il noviziato di C. Goldoni, Torino, 1925, pp. 28-30): lo creò malamente lo abbozzò con rozza mano, ma lo vide nella fantasia fin dalla prima scena quando il vecchio Alerico vuol uccidere anche la figlia, vittima innocente offerta all’ombra invendicata del figlio, prima di immergersi egli stesso la spada nel petto; riesce a strappargli qualche accento solenne in quell’odio cupo contro Germondo, in quel suo disprezzo per la vita, in quella sua ostinazione feroce. Bisogna sfogliare tante e tante tragedie classiche di tutto il nostro teatro per trovare, prima dell’Alfieri, un’altra scena come l’ultima in cui il vecchio re, senza più regno, senza più trono, senza più figlia, ha in dono per castigo la vita dal suo odiatissimo nemico. Ma il dottor Goldoni, un po’ inesperto, un po’ inetto, sciupa ben presto ogni effetto drammatico, lacera da sé la trama della sua creazione, ricade nel nulla, nelle apostrofi, nei luoghi comuni, nella più sterile declamazione. Qualche somiglianza con Alerico avrebbe Alvida, la donna dell’odio, ma il disegno della sua figura si sbiadisce, si confonde con la Teodora del Belisario.

Il Goldoni era ben persuaso che la Rosmonda fosse “meglio scritta, e meglio condotta del Belisario” e attribuì il cattivo esito in parte all’argomento, in parte alla prima donna, Adriana Bastona, l’interprete principale, che non era fatta per simili personaggi (v. Memorie, nel I vol. della presente edizione, p. 106). A proposito di questa recita racconta per ridere che “mancando la ballerina che danzava fra gli atti, e gridando il popolo: furlana, furlana, ch’è il ballo favorito dei Veneziani, sortì la Bastona vestita all’eroica, e Rosmonda ballò la furlana” (ivi, p. 100). Il pubblico veneziano non capì la Rosmonda, si annoiò, come l’autore confessa (l. c., pag. 106 e Mémoires, l. c.); perciò la tragedia restò sepolta fino al 1793, quando lo Zatta la stampò per i lettori, nella sua grande edizione del teatro goldoniano.

G. O.