Ricordanze della mia vita/Parte terza/XVI. Ricordi

XVI. Ricordi

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Parte terza - XV. Il natalizio del figlio Parte terza - XVII. Amarezze politiche

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XVI

(Ricordi).

Santo Stefano, 12 aprile 1854.

Chi mi porta su la collina di Posilipo, in quel mio vago giardino tutto fiorito di rose, e profumato dal soave odore della magnolia? Chi mi ridona di potere di lá salutare il sole che il mattino si leva dal Vesuvio, come giovane innammorato, e riguarda la cittá che come bellissima donzella sovra un letto di verdura, posa il capo alla collina e stende i piedi sino al mare? Perché piú non lo saluto quando si nasconde dietro Miseno, e pare addolorato che non seguita a rimirare tanta bellezza? Non vedo piú i campi sparsi di case che fumano in su la sera; non odo la canzone villereccia che dal fondo della valle saliva liquida e soave sino all’altura; non mi viene all’anima il canto dell’usignuolo nella pace della sera. Dove sono i miei figliuoletti che mi ruzzavano intorno, e la donna mia che meco passeggiava al chiaror della luna? Come odorava la terra, l’erba, gli alberi, i fiori! che soave brezza veniva dal mare, nel quale come in uno specchio d’argento, si mirava dubbiosa la luna? Dopo le lunghe fatiche della giornata che dolcezza era per me montar la collina, entrar nel podere, udire il latrato di Turco il cane del colono, fare un fischio, udirmi rispondere «papá» da due care vocine, e correndo tra gli alberi venirmi incontro i due figliuoli miei baciarmi, dimandarmi se avessi portato loro qualche cosa e prendendomi uno da una mano una dall’altra, giungere presso alla casina, dove la mia Gigia dal balcone m’aspettava e mi salutava con un sorriso d’amore. Il sole seguita ad illuminare quella collina, ma non vi trova piú la mia famigliuola, il mio cuore che lo salutava con tanto affetto, gli occhi miei che lo miravano con tanta gioia, l’anima mia che volando si riposava [p. 360 modifica]in lui, e poi saliva sino a Dio. Quella terra e quei campi sono ancora belli di erbe, di fiori; quell’aere ancora olezza; ma chi vi vide, come vi vedeva io, passeggiare ninfe e sirene e lievissimi spiriti? chi sente risonare in quell’aere una poetica melodia, un inno d’ineffabile dolcezza? chi va ad adorare la tomba di Virgilio, e sfogliando le rose e spargendovele sopra, vi ripete quei cari versi? Spargite humum foliis? chi vi aspetta zefiro che tornando da lontane contrade rabbellisce la terra di erbe, di fiori e di mille soavitá d’odori, e poi che l’ha abbigliata come giovane sposa la vezzeggia e la bacia con l’alito delle aurette e coi lievi sussurri, mentre gli uccelli venuti con lui da lontani lidi gli cantano con tante voci la canzone delle nozze? O uccelli che passate per questo spazio di cielo che ricopre l’ergastolo, e non vi curate de’ dolori che qui sono, o fortunati uccelli, andate su quel colle, ché non trovereste altrove piú bel verde, piú sereno aere, piú dolce riposo: lá fatevi il nido, ed allevate i figliuoli vostri, come io v’allevava i miei. O mesto usignuolo, va su la tomba del tuo poeta, dove è l’ombra di un alloro, appiccavi il nido, ché lá nessuno aratore ti strapperá gl’implumi figliuoletti, e tu non piangerai, ma canterai d’amore, ed il tuo canto parrá forse a qualche anima il canto del poeta. Ma tu lo conosci quel luogo, o mesto usignuolo, tu piú volte hai fatto il nido sopra gli alberi vicino alla tomba, e forse tu fosti quello che con la melodia del tuo canto rapisti tutte le potenze dell’anima mia, e mi facesti credere di vedere la romana ombra del poeta andar lieve vagolando sul pendio della collina, ed io andargli incontro reverente, e salutarlo nel latino idioma, e nell’italiano con le parole di Dante:

«Oh se’ tu quel Virgilio, quella fonte
     che spande di saper sí largo fiume?»
     risposi lui con vergognosa fronte.
«O degli altri poeti onore e lume
     valgami il lungo studio e il grande amore
     che m’han fatto cercar lo tuo volume.
Tu se’ lo mio maestro, e ’l mio autore».

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Io l’ho veduto ne’ delirii della mia fervida giovinezza, io l’ho veduta l’ombra del gran poeta, e le ho parlato, e ne ho avuto un sorriso: io non mentisco, io l’ho veduta, e le ho parlato davvero. Ancora me ne ricorda, ancora ho innanzi agli occhi quelle onorate sembianze, ancor mi suonano dentro il cuore le sue parole di gravitá soave. Oh, chi mi ritorna ai delirii della mia giovinezza, chi mi ridona un sol giorno della primavera della mia vita? O fortunato inglese che riposi presso la tomba di quel poeta1; come è bello il dormire a canto a Virgilio! Oh potessi anch’io passare in quel luogo questa carne travagliata e queste ossa, vorrei pure morir presto e non indugiarmi d’un giorno. Chi è sepolto colá deve certamente avere anche sotterra qualche sentimento, qualche amore, qualche idea, qualche fantasia: perché quella terra non è terra bruta, ma è viva e palpitante, e quasi parla e canta. Ahi misero me! Dove io vedo spalancata la fossa per me? qui: in una fossa cogli assassini e i parricidi. Ahi strazio crudele! oh disperazione! Deh voi, che siete nemici della vita e della mente mia, che m’odiate vivo, non siate crudeli anche con un morto, rendete le mie ossa ad una mano amica, che le poserá in un angolo remoto di quella terra.

Non vedo il mare, non vedo la terra, vedo solamente tanto spazio di cielo quanto ne ricopre l’ergastolo, e pur nell’aria che va facendosi tiepida e nel cielo purissimo io sento e ricordo il ritorno della quarta primavera che qui mi ritrova.

Ah perché non distendon le nubi
su l’ergastolo un funebre velo?
Perché tanto sorriso di cielo
su lo scoglio del vile dolor?


Note

  1. A pochi passi dalla tomba di Virgilio sta una colonnetta sepolcrale, su cui è scritto il nome di un inglese, ch’io non ricordo: il nome solo, e l’anno della morte: che altro vi si poteva scrivere?