Prose della volgar lingua/Libro secondo/III

Secondo libro – capitolo III

../II ../IV IncludiIntestazione 01 ottobre 2009 75% Saggi

Libro secondo - II Libro secondo - IV

Perciò che ritornati gli tre, desinato che essi ebbero, a casa mio fratello, sí come ordinato aveano, e facendo freddo per lo vento di tramontana, che ancor traeva, d’intorno al fuoco raccoltisi, preso prima da ciascun di loro un buon caldo, essi a seder si posero, e mio fratello con esso loro altresí. Il che fatto e cosí un poco dimorati, cominciò Giuliano verso gli altri cosí a dire: - Io non so, se la gran voglia che io ho, che messer Ercole si disponga allo scrivere e comporre volgarmente, ha fatto che io ho questa notte un sogno veduto, che io raccontar vi voglio; o se pure alcuna virtú de’ cieli o forse delle nostre anime, la quale alle volte per questa via le cose che a venir sono, prima che avengano, sí come avenute usi agli uomini far vedere, se l’ha operato; il che a me giova di credere piú tosto. Ma come che sia, a me parea, dormendo io questa notte come io dico, essere sopra una bellissima riva d’Arno, ombrosa per molti allori e tutta d’erbe e di fiori coperta infino all’acqua, che purissima e alta, con piacevole lentezza correndo, la bagnava. E per tutto il fiume, quanto io gli occhi potea stendere, mi parea che bianchissimi cigni s’andassero sollazzando; e quale compagnia di loro, che erano in ogni parte molti, incontro al fiume le palme de’ piedi a guisa di remo sovente adoperando montava; quale col corso delle belle acque accordatasi si lasciava da loro portare, poco movendosi; e altri nel mezzo del fiume o accanto le verdi ripe, il sole, che purissimo gli fería, ricevendo, si diportavano; da’ quali tutti uscire sí dolci canti si sentivano e sí piacevole armonia, che il fiume e le ripe e l’aere tutto e ogni cosa d’intorno, d’infinito diletto parea ripieno. E mentre che io gli occhi e gli orecchi di quella vista e di quel concento pasceva, un candidissimo cigno e grande molto, che per l’aria da mano manca veniva, chinando a poco a poco il suo volo, in mezzo il fiume soavemente si ripose, e, ripostovisi, a cantare incominciò ancora egli, strana e dolce melodia rendendo. A questo uccello molto onore parea che rendessero tutti gli altri, allegrezza della sua venuta dimostrando e larga corona delle loro schiere facendogli. Della qual cosa maravigliandomi io, e la cagione cercandone, m’era non so da cui detto, che quel cigno, che io vedea, era già stato bellissimo giovane, del Po figliuolo, e quegli altri similmente erano uomini stati, come io era. Ma questi in grembo del padre cangiata forma, e nel Tevere a volo passando, avea le ripe di quel fiume buon tempo fatte risonare delle sue voci, e ora ad Arno venuto, volea quivi dimorarsi altrettanto; di che facevano maravigliosa festa quegli altri, che sapevano tutti quanto egli era canoro e gentile. Lasciommi appresso a questo il sonno; laonde io sopra le vedute cose pensando, e al presente stato di messer Ercole, per gli ragionamenti fatti ieri, traendolene, piglio speranza che egli da noi persuaso, abbia in brieve a rivolgere alla volgar lingua il suo studio, e con essa ancora tante cose e cosí perfettamente a scrivere, chenti e quali egli ha per adietro scritte nella latina. Di che io per me son acconcio a niuna cosa tacergli, che io sappia, della quale esso m’addomandi, come ci disse ieri di voler fare. E medesimamente conforto voi, messer Federigo e messer Carlo, che facciate; e cosí insieme tutti e tre ogni diligenza, che tornare a suo profitto ci possa, usiamo. - Usiamo, - disse incontanente messer Federigo - né vi si manchi da verun lato per noi; il che fare tanto piú volentieri ci si doverà, quanto ce ne invita il sogno di Giuliano, il quale io per me piglio in luogo d’arra, e parmi già vedere messer Ercole, dalle romane alle fiorentine Muse passando, quasi cigno divenuto, nuovi canti mandar fuori, e spargere per l’aere in disusata maniera soavissimi concenti e dolcezze -. Allora disse mio fratello: - Se allo scrivere volgarmente si darà lo Strozza giamai, il che io voglio credere, messer Federigo, che possa essere agevolmente altresí come voi credete, ché non do men fede al sogno di Giuliano che diate voi, sicuramente egli non pur cigno ci parrà che sia, ma ancora fenice, in maniera per lo cielo ne ’l porterà quel suo rarissimo e felicissimo ingegno. Perché io il saperei confortare, che egli a sé stesso non mancasse; e io, quanto appartiene a me, ne lo agevolerò volentieri, se saperò come o quando il poter fare. - Voi di troppo piú m’onorate, - disse a queste parole lo Strozza - che io non ardisco di disiderare, non che io stimi che mi si convenga. E il sogno di Giuliano, veramente sogno è in tutte le altre sue parti, in questa sola potrebbe egli forse essere visione, che io sia per iscrivere volgarmente a qualche tempo, se io averò vita; perciò che, da poca ora in qua, tanto disio me ne sento per le vostre persuasioni esser nato, che non fia maraviglia se io procaccierò, quando che sia, di trarmene alcuna voglia. Ma tornando alle nostre quistion d’ieri, per le quali fornire oggi ci siamo qui venuti, io vorrei, messer Carlo, da voi sapere, poscia che detto ci avete che egli si dee sempre nello scrivere a quella maniera che è migliore appigliarsi, o antica e de’ passati uomini che ella sia, o moderna e nostra, in che modo e con qual regola hass’egli a fare questo giudicio, e a quale segno si conoscono le buone volgari scritture dalle non buone e, tra due buone, quella che piú è migliore e quella che meno, e in fine di questa medesima forma di componimenti, della quale si ragionò ieri, de’ presenti toscani uomini, e voi dite non essere cosí buona come è quella con la quale scrisse il Boccaccio e il Petrarca, perché si dee credere e istimare che cosí sia. - Per questo, se io vi voglio brievemente rispondere, - disse mio fratello - che ella cosí lodati scrittori non ha come ha quella. Che perciò che, come sapete, tanto ciascuno scrittore è lodato, quanto egli è buono, ne viene che dalla fama fare si può spedito argomento della bontà. Ché sí come tra’ greci scrittori, né poeta niuno si vede essere né oratore di tanto grido, di chente Omero e Demostene sono; né tra’ Latini è alcuno, al quale cosí piena loda sia data, come a Virgilio si dà e a Cicerone; per la qual cosa dire si può che essi migliori scrittori siano, sí come sono, di tutti gli altri; cosí medesimamente dico, messer Ercole, del nostro volgare avenire. Che perciò che, tra tutti i toscani rimatori e prosatori, niuno è la cui maniera dello scrivere di loda e di grido avanzi o pure agguagli quella di costor due che voi dite o, credere si dee che le guise delle loro scritture migliori sieno che niune altre. Oltra che se alcuno eziandio volesse, senza por mente alla fama degli scrittori, pure da’ loro scritti pigliarne il giudicio e darne sentenza, sí si può questo fare per chi diligentemente considera le parti tutte delle scritte cose, che sono in quistione, e cosí facendosi, piú certa e piú sicura sperienza se ne piglierebbe, che in altra maniera. Con ciò sia cosa che egli può bene avenire che alcuno viva, il quale miglior poeta sia o migliore oratore, che niuno degli antichi, e nondimeno egli non abbia tanto grido e tanta fama raccolta dalle genti, quanta hanno essi; perciò che il grido non viene cosí subitamente a ciascuno, e pochissimi sono quelli che, vivendo, tanto n’abbiano, quanto si convien loro.