Poemetti (Rapisardi)/La Cometa

La Cometa

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Polifemo Metamorfose
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LA COMETA.


I.


A qual parte del cielo erano intèse,
     O Riccò, le tue lènti, allor che al nostro
     Sguardo si fe’ l’orrendo astro palese?

E dov’era allor fiso il pensier vostro,
     Spíatori del ciel, se inaspettato
     Raggiò sì presso a noi l’aereo mostro!

A Sirio opposto, ad Oríon da lato
     La chioma irta ei diffuse, e fu di strane
     Apparenze ad un tratto il ciel turbato:

Torbido fiammeggiò l’etereo Cane,
     E di solfureo vel cinta offuscossi
     Del gigante Algebár la spada immane;

Bianco si fece Aldebarán, che i rossi
     Crini mirando usurpar l’etra, a’ due
     Suoi compagni ristretto in mar calossi.

Come al sopravvenir d’occulta lue
     Trema il vulgo mortale, e tutte a’ lesti
     Piedi confida le speranze sue.

Atterrito così per le celesti
     Regíoni ad un’ora il siderale
     Popol fuggire e impallidir vedresti.

Esce a’ lidi ansioso, ai monti accorre,
     E muto, intènto nel funereo raggio,
     Alle porte urge dell’aerea torre,

Qual core allor fu il tuo, gregge mortale,
     Cui sapere e ragion tardi soccorre,
     Ma all’errore, al terror sì pronte hai l’ale!

Su la cui cima imperturbato il saggio
     Scruta dell’igneo drago il raro e il denso
     E l’orbe informe e l’inegual viaggio;

E se dismaga il basso error, l’immenso
     Terror non vince delle scarse menti,
     A cui più che ragion comanda il senso:

Mirano spaziar per le silenti
     Aure il nemico, e arcani influssi e morbi
     Novi e stragi fraterne ecco imminenti.

E quant’ei più s’appressa e di più torbi
     Sguardi infetta le stelle, e più gli umani
     Intelletti si fan trepidi ed orbi.

Di rosse spade, di serpenti strani
     Munito il corpo mostruoso pende
     Vasto e sanguigno per gl’impervj vani.

Oh spaventosi aspetti, oh notti orrende,
     Quando una pioggia di fulminee stelle
     Vibra e’ dall’arco e il nostro globo offende;

E ad ogni umano argomentar ribelle
     Altre vie s’apre, ed il mutevol crine
     In coda allunga o in fulvi orbi convelle!

Non questo della terra è dunque il fine?
     Non la minace profezia, che all’empie
     Tracotanze dell’uom segna un confine,

Per te, sterminatore angiol, s’adempie?


II.


Come su le spettrali ombre d’un bosco
     Pendulo su l’etnée balze, la luna
     Roggia e grande campeggia all’aer fosco:


Sorgon su da la terra umida e bruna
     Vaporosi fantasmi, e rubiconde
     L’ombre si fan che l’emisferio aduna;

Apron gli antri le bocche atre e profonde,
     E pavidi tremori e dètti strani
     Ricambiando si van l’aure e le fronde:

Così tetro grandeggia agli occhi umani
     Il dragon ruinoso, e i petti molli
     Di sogni inonda e di spaventi arcani.

Empj dètti, opre ree, proposti folli
     Odon campi e città, dove che raro
     Il popolo più erri o più s’affolli.

Ma chi fitto ha nel core il tarlo amaro
     Del tardo ripentire, e chi del punto
     Vano in che vive ha l’avvenir più caro;

Chi in turpi fatti al duro esodo giunto
     L’ora del gran Giudicio appressar vede,
     Pio per terrore e per viltà compunto,

Dell’insolito altar gittasi al piede,
     E al Dio, che già sprezzò, con disperati
     Pianti pietà per sè, pe’ suoi richiede.

Suona d’umili preci e d’ululati
     La reggia e il casolar; suonan le meste
     Vie d’un salmodíar lento di frati.

Pur non poche vi sono alme rubeste,
     Che nel periglio estremamente audaci
     A tutto osare, a tutto oprar son preste:

Indi un pazzo sitir d’oro e di baci,
     E ferali tripudj e nozze strane,
     Vendette orrende e generose paci.

Taccion le leggi, o son derise e vane:
     Tutti adegua il terrore, e ad una mensa
     Con la plebe il signor divide il pane;

Cade vinta in un dì l’opera immensa:
     Non trarre oro dal sangue osa il Giudeo,
     Non i solchi ad aprire il villan pensa.

Allor fu che felici al tempo reo
     Si strinsero d’amore Egle ed Antero,
     Ella di regio sangue, ei di plebeo.

Ben ella avea nel verginal pensiero
     Idoleggiato il fosco vate, a cui
     L’arte abbellía d’alte lusinghe il vero;

Ma ostia rassegnata al cenno altrui
     Nello splendor d’una regal magione
     Giorni ella visse inonorati e bui;

Dall’amor calpestata or la ragione,
     Lascia i palchi dorati, e in umil tetto,
     Nelle braccia di lui tutta si pone.

Oh inaspettato a lor di benedetto,
     Che nel tremore universal beati
     Bocca unirono a bocca e petto a petto!

Tutti allor memorando i giorni ingrati,
     Le pugne vane e la fatal minaccia
     Che alla progenie rea vibrano i fati,

All’imminente mostro erto la faccia
     Illuminata da una fiera Idea,
     Trasumanato nelle amate braccia,

Vaticinj ed amplessi egli mescea.

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III.


«Ascolta, o ciel, della mia voce il tuono;
     Porgi, o terra, al mio dir le orecchie intente;
     Odimi, o notte: la Giustizia io sono.

O morituri, a cui l’ora dolente
     L’animo pervicace umilia e scema,
     E voi che in traccia di piacer, la mente

Travagliate errabondi all’ora estrema,
     Tutti ascoltate la funerea voce
     Che su voi piomba, e ognun ne pianga o frema.

Io da voi nata e da voi posta in croce,
     Ecco libero il braccio, e in voi dall’alto
     Zolfo avvento e bitume e foco atroce:

Ecco le schiere mie lancio all’assalto
     De’ valli tuoi, plebe gandente, e mozzo
     Le tue moli di bronzo e di basalto.

Stolti assai non vi fu l’aver di sozzo
     Bacio sconciato il mio virgineo seno,
     E il mio corpo tuffato in luteo pozzo;

Voi di sangue mi avete e di veleno
     Abbeverata, e delle case mie
     Fatto avete e di me traffico osceno.

A che valse che poche anime pie
     Visser fide al mio culto? Un branco infame
     Le scherni per le reggie e per le vie.

Ma così paga sia l’onesta fame
     C’hanno di me l’austere anime, io tosto
     Di voi, stolti, farò stoppa e letame!

Come della prigione in cui fu pòsto
     Spezza fervido i cerchi, e dalle aperte
     Doghe prorompe gorgogliando il mosto;

Accorre il vinajuol tardi solerte
     Nel chiuso loco, e dall’afror percosso
     In ebbrezza mortal giù piomba inerte:


Così lo sdegno mio spumante e rosso
     Sfrenasi dal mio petto, e fulminato
     Primo ne andrà chi più si tien colosso!

O di neri avvoltoj stormo malnato,
     Che dell’umanità stolida a’ danni
     Fra l’are di Gesù vegli in agguato;

O di folli ignori e di tiranni
     Imbestiata genía, che treschi e razzi
     E a te gloria procacci, al mondo affanni;

Geldra rea, che in mio nome i ferri aguzzi,
     E leggi ordendo, anzi vendette, impregni
     D’odio la vita, e le mie nari appuzzi;

Stuol venale d’eroi, che i torvi ingegni
     Abbandonando alla ragion dell’armi,
     Ire, rapine e fratricidj insegni;

Scribi che in prose abjette, in turpi carmi
     Schernite a prezzo Aristide e Catone
     Per votare a Tersite onor di marmi,

Ecco, irrompe su voi la mia ragione,
     E tra le mèssi all’opra altrui rapite
     Gira in cerchio ed avventa il suo tizzone!

Ecco, scendo tra voi, torme aborrite:
     Al passo mio, che nella notte romba,
     Tentennan come canne aule e meschite;

Ecco, già scocca la siderea fromba,
     E sossoprando le terraquee grotte,
     Da l’uno all’altro polo apre una tomba.

Scatena i flutti il mar simili a frotte
     D’ippopótami urlanti, e nel vorace
     Gorgo le razze e i continenti inghiotte;

Ma vinto anch’ei da la solar fornace,
     Fervendo sfuma; e tu per l’universa
     Vacuità cercando invan la pace,

Fatta pomice, o terra, andrai dispersa!»