IV

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III V

Quel sonno intriso di champagne e di chartreuse lo aveva indubbiamente raddolcito e calmato, perché si svegliò di ottimo umore. Vestendosi, valutava, soppesava e riassumeva le impressioni del giorno prima, cercando di scoprirne in modo chiaro e completo le cause reali e segrete, le cause personali e quelle esterne.

Poteva darsi, infatti, che la ragazza della birreria avesse avuto un cattivo pensiero, un vero pensiero da prostituta, nell’apprendere che uno solo dei figli di Roland ereditava da uno sconosciuto; ma le donne di quel genere non hanno, forse, sempre sospetti simili, senza l’ombra di un motivo, su tutte le donne oneste? Non le si sente, ogni volta che aprono la bocca, insultare, calunniare tutte quelle che esse sentono irreprensibili? Ogni volta che, in loro presenza, si fa il nome di una persona ineccepibile, si arrabbiano quasi fossero state offese a morte, e urlano: «Ah, le conosco, sai, le tue donne sposate! Bella roba! Hanno più amanti di noi, soltanto li nascondono perché sono ipocrite. Ah, sì; bella roba!»

In qualunque altra occasione, egli non avrebbe raccolto e neppure supposto possibili insinuazioni di quel genere sul conto di sua madre, così buona, così semplice, così degna. Ma aveva l’animo turbato da quel lievito di gelosia che fermentava in lui. Il suo spirito eccitato, in agguato, per così dire, per tutto ciò che avrebbe potuto nuocere a suo fratello, aveva forse anche attribuito a quella venditrice di birra intenzioni odiose che lei non aveva. Forse solo la sua fantasia aveva creato, inventato quel dubbio atroce. Quella fantasia che lui non riusciva a dominare, che sfuggiva di continuo alla sua volontà e se ne andava libera, ardita, avventurosa e sorniona nell’universo infinito delle idee e, talvolta, ne riportava di inconfessabili e vergognose che egli nascondeva in sé, nei profondi insondabili recessi del cuore, come cose rubate. Perfino il suo cuore aveva segreti per lui e forse quel cuore ferito aveva trovato nel dubbio vergognoso un modo per privare suo fratello dell’eredità che egli invidiava? Ora sospettava di se stesso, interrogando, come fanno le persone devote, con la propria coscienza, tutti i misteri del proprio pensiero.

Certo, la signora Rosémilly, sebbene non intelligentissima, aveva il tatto, il fiuto e la sensibilità delle donne. Ora, quel pensiero non le era venuto, perché aveva bevuto, con perfetta semplicità, alla memoria benedetta del povero Maréchal. Se l’avesse sfiorata il minimo sospetto, non lo avrebbe fatto. Ormai egli non dubitava più, il suo involontario malumore per la fortuna capitata al fratello ed anche, certamente, il suo religioso amore per la madre, avevano esaltato i suoi scrupoli, scrupoli pii e rispettabili, ma esagerati.

Nel formulare quella conclusione, fu contento come per una buona azione compiuta e decise di mostrarsi gentile con tutti, cominciando da suo padre, che lo irritava continuamente con le sue manie, le affermazioni banali, le idee volgari e la mediocrità troppo evidente. Tornò a casa puntuale, per l’ora di colazione e divertì tutta la famiglia con il suo spirito e il suo buonumore.

La madre, felice, gli diceva:

«Pierrot mio, tu non immagini come sai essere divertente e spiritoso, quando vuoi.»

Ed egli parlava, trovava battute allegre, faceva ritratti arguti dei loro amici. Beausire gli serviva da bersaglio ed anche un po’ la signora Rosémilly; ma in maniera discreta, non troppo cattiva. E pensava, guardando il fratello: «Ma difendila, dunque, stupido: sì, sarai ricco, ma io, basta che voglia, riuscirò sempre ad eclissarti.»

Al caffè, disse a suo padre:

«Ti servi della Perle, oggi?»

«No.»

«Posso prenderla con Jean Bart?»

«Ma sì, fin che vuoi.»

Comprò un buon sigaro al primo spaccio di tabacchi che trovò e, con passo allegro, scese verso il porto.

Guardava il cielo limpido, luminoso, d’un chiaro e fresco azzurro, lavato dalla brezza marina.

Il marinaio Papagris, detto Jean Bart, sonnecchiava in fondo alla barca, che doveva tener pronta ad uscire ogni giorno, a mezzogiorno, quando non si andava a pescare la mattina.

«A noi due, capo!» gridò Pierre.

Scese la scaletta di ferro della banchina e saltò nell’imbarcazione: «Che vento c’è?» domandò.

«Sempre vento da terra, signor Pierre. Abbiamo una buona brezza al largo.»

«Va bene, andiamo!»

Issarono il trinchetto, levarono l’ancora e la barca, libera, prese a scivolare lentamente verso il molo, sull’acqua tranquilla del porto. Il debole soffio d’aria che veniva dalle strade cadeva sull’alto della vela, così lievemente che non si sentiva nemmeno, la Perle pareva animata da una sua vita, la vita delle barche, e spinta da una forza misteriosa nascosta in essa. Pierre s’era messo al timone e, con il sigaro tra i denti, le gambe allungate sul sedile, gli occhi socchiusi sotto i raggi accecanti del sole, guardava passare i grossi pali incatramati della diga.

Quando uscirono in mare aperto, al di là della punta nord del molo, la brezza, più fresca, scivolò sul volto e sulle mani del dottore come una carezza un po’ fredda, entrò nel suo petto che si aprì con un lungo sospiro per berla e, gonfiando la vela scura, che s’arrotondò, fece inclinare la Perle e la rese più agile.

Jean Bart, all’improvviso, issò il fiocco, il cui triangolo, pieno di vento, sembrava un’ala, poi, raggiunta in due salti la poppa, sciolse la terza vela legata al suo albero.

Allora, sul fianco della barca, piegata bruscamente e che, ora, filava a tutta velocità, si udì un lieve e vivace fruscio d’acqua che ribolle e che fugge.

La prora tagliava il mare come il vomere di un aratro impazzito e l’onda, sollevata, agile e bianca di spuma, si gonfiava e ricadeva come ricade, scura e pesante, la terra arata dei campi.

Ad ogni onda (erano brevi e frequenti) un urto scuoteva la Perle dalla cima del fiocco al timone, che vibrava nella mano di Pierre e, quando il vento, per alcuni secondi, spirava più forte, le onde sfioravano il bordo, come per invadere l’imbarcazione. Una nave carboniera di Liverpool era ancorata in attesa della marea. Girarono dietro e poi passarono in rassegna, una dopo l’altra, le navi in rada, quindi si allontanarono un po’ per veder sfilare la costa.

Per tre ore, Pierre, sereno, calmo e felice, vagabondò sull’acqua che fremeva, guidando quella cosa di legno e tela che andava e veniva secondo il suo capriccio, alla sola pressione delle sue dita, come una bestia alata rapida e docile.

Egli fantasticava, come si fantastica in groppa ad un cavallo o sul ponte di una nave, pensava al suo avvenire, come sarebbe stato bello, e alla dolcezza di vivere con intelligenza. Il giorno seguente, avrebbe chiesto a suo fratello di prestargli per tre mesi mille e cinquecento franchi per potersi stabilire subito nel grazioso appartamento del boulevard Francesco I.

Ad un tratto, il marinaio disse:

«La nebbia, signor Pierre: bisogna tornare.»

Egli alzò gli occhi e vide, verso il nord, un’ombra grigia, profonda e Lieve, che sommergeva il cielo e copriva il mare, correndo verso di loro come una nuvola caduta dall’alto. Virò di bordo e, con il vento in poppa, fece rotta verso il molo, seguito dalla nebbia, che arrivava veloce. Quando raggiunse la Perle, avvolgendola nel suo impercettibile spessore, Pierre rabbrividì di freddo e un odore di fumo e di muffa, l’odore strano delle nebbie marine, lo indusse a chiudere la bocca per non inghiottire quella nuvola umida e ghiacciata. Quando la barca riprese il solito posto nel porto, l’intera città era già sepolta sotto quel sottile vapore, che, senza cadere, bagnava come una pioggia e scivolava sulle case e le strade, come un fiume che scorre.

Pierre, con i piedi e le mani gelati, rincasò presto e si gettò sul letto per fare un sonnellino fino all’ora di cena. Mentre entrava nella sala da pranzo, la madre stava dicendo a Jean:

«La galleria sarà bellissima. Vi metteremo dei fiori. Vedrai. Penserò io a curarli e a cambiarli. Il colpo d’occhio sarà favoloso, quando darai qualche festa.»

«Di che cosa state parlando?» domandò il dottore.

«D’un delizioso appartamento che ho affittato per tuo fratello. Un’occasione. Si tratta d’un ammezzato che dà su due strade.»

Pierre impallidì. La collera gli stringeva il cuore.

«Dov’è?»

«Sul boulevard Francesco I.»

Egli non ebbe più dubbi e sedette, esasperato al punto di aver voglia di gridare: «È troppo, adesso! Tutte le fortune a lui?»

La madre, raggiante, continuava:

«E figurati che l’ho avuto per duemila e ottocento franchi. Ne volevano tremila; ma ho ottenuto duecento franchi di sconto, facendo un contratto di tre, sei o nove anni. Tuo fratello si troverà benissimo. Basta un appartamento elegante per far la fortuna di un avvocato: attira il cliente, lo seduce, gli ispira rispetto e gli fa capire che un uomo con un appartamento simile non può non far pagare a caro prezzo le sue parole.»

Tacque per pochi secondi, poi ripigliò:

«Bisognerebbe trovare anche per te qualche cosa di simile; molto più modesto, perché tu non hai niente, ma abbastanza grazioso, ad ogni modo. Ti assicuro che ti avvantaggerebbe molto.»

Pierre rispose sdegnoso:

«Oh, io arriverò con il lavoro e la scienza.»

La madre insistette:

«Sì; ma ti assicuro che un appartamento grazioso ti servirebbe molto lo stesso.»

Verso la metà del pranzo, Pierre domandò ad un tratto:

«Come avevate conosciuto quel Maréchal?»

Papà Roland alzò la testa e si mise a cercare tra i propri ricordi.

«Aspetta; non ricordo troppo bene. È passato tanto tempo! Ah, sì, ecco! Tua madre lo conobbe in negozio; non è vero, Louise? Egli era venuto ad ordinare qualche cosa e poi è tornato spesso. Lo abbiamo conosciuto come cliente, prima di conoscerlo come amico.»

Pierre che mangiava dei fagiolini infilzandoli uno dopo l’altro sulla forchetta, come su uno spiedo, riprese:

«E quando avete fatto questa conoscenza?»

Papà Roland cercò di nuovo; ma, non ricordando più, fece appello alla memoria della moglie.

«Vediamo un po’, Louise; in quale anno? Tu, che hai così buona memoria, non devi averlo dimenticato. Vediamo, fu nel... nel... cinquantacinque o cinquantasei?... Ma pensaci un po’, tu devi saperlo meglio di me!»

Lei cercò per un po’ di tempo, infatti; poi, con voce sicura e tranquilla, disse:

«Fu nel cinquantotto, caro. Pierre aveva, allora, tre anni. Sono sicurissima, perché fu l’anno in cui il bambino prese la scarlattina e Maréchal, che conoscevamo ancora molto poco, ci fu di grande aiuto.»

Roland esclamò:

«È vero, è vero: quella volta, anzi, fu ammirevole! Siccome tua madre non ne poteva più dalla stanchezza ed io ero occupato in negozio, andava lui dal farmacista a comprare le medicine per te. Era veramente un uomo di cuore. E non puoi immaginare come sia stato contento e come ti baciava, quando sei guarito. Da allora, appunto, diventammo amici intimi.»

E, nell’animo di Pierre, penetrò come una palla che fora e lacera, questo pensiero brusco, violento: «Se mi ha conosciuto per il primo ed è stato così affezionato a me, visto che la causa della sua grande amicizia con i miei genitori son io, perché ha lasciato tutto il suo patrimonio a mio fratello e a me niente?»

Non fece più domande e rimase cupo, assorto più che pensoso, chiudendo in sé una inquietudine nuova, ancora non definita, il germe segreto di un nuovo male.

Uscì presto e ricominciò a girare per le strade, sepolte sotto la nebbia che rendeva la notte pesante, opaca e nauseabonda. Sembrava che un fumo pestilenziale fosse calato sulla terra. Si vedeva la nebbia passare sui fanali a gas e, a momenti, pareva spegnerli. I selciati delle strade diventavano scivolosi come nelle serate di gelo e pareva che dai ventri delle case si sprigionassero tutti gli odori cattivi, puzza di cantine, di fossi, di fogne, di cucine povere, per mescolarsi all’orribile sentore di quella nebbia vagante.

Pierre, con le spalle curve e le mani in tasca per non restar fuori con quel freddo, si recò da Marowsko.

Il vecchio farmacista dormiva come il solito sotto la fiammella a gas, che vegliava per lui. Appena riconobbe Pierre verso il quale nutriva un affetto da cane fedele, si scosse dal suo torpore, andò a prendere due bicchierini e portò la ribesetta.

«Ebbene?» chiese il dottore. «A che punto è con il suo liquore?»

Il polacco annunciò che quattro tra i principali caffè della città acconsentivano a metterlo in circolazione e il «Phare de la Côte» e il «Sémaphore havrais» gli avrebbero fatto la pubblicità in cambio di medicinali messi a disposizione per i redattori.

Dopo un lungo silenzio, Marowsko s’informò se Jean era entrato definitivamente in possesso della sua eredità; poi fece ancora due o tre domande un po’ vaghe sullo stesso argomento. Il suo affetto fedele e ombroso a Pierre si ribellava a quella preferenza. E a Pierre pareva di sentire il pensiero di lui, indovinava, comprendeva, leggeva nei suoi occhi sfuggenti nel tono esitante della sua voce, le parole che gli salivano alle labbra, che non diceva, che non avrebbe mai detto, lui così timido e cauto.

Non aveva più dubbi: il pensiero del vecchio era questo: «Non avreste dovuto lasciargli accettare questa eredità; farà parlar male di vostra madre.» Forse, anche lui credeva che Jean fosse figlio di Maréchal. Certamente lo credeva! Come poteva non crederlo, se la cosa doveva sembrare verosimile, probabile, evidente? Lui stesso, non lottava da tre giorni, con ogni sua energia, con tutte le sottigliezze del suo cuore, per ingannare la propria ragione, non lottava contro quel terribile sospetto?

E, di nuovo, all’improvviso, il bisogno di esser solo per pensare, per discutere con se stesso, per guardare coraggiosamente in faccia quella cosa possibile e mostruosa, s’impossessò di lui, così prepotente che, senza neanche bere il suo bicchierino di ribesetta, si alzò, strinse la mano al farmacista stupefatto e s’inoltrò di nuovo nella nebbia della strada.

«Perché mai quel Maréchal ha lasciato tutto il suo patrimonio a Jean?» si chiedeva.

E, ora, non era più la gelosia a indurlo a cercar la risposta; non era più l’invidia istintiva e un po’ gretta, che egli sapeva nascosta dentro di sé e contro la quale lottava da tre giorni; ma il terrore di una cosa spaventosa, il terrore di credere, a sua volta, che Jean, che suo fratello, fosse figlio di quell’uomo!

No, non lo credeva, non poteva neppure rivolgersi quella domanda orribile! Tuttavia bisognava che quel sospetto così lieve, così inverosimile fosse respinto per sempre. Gli occorreva la luce, la certezza; nel suo cuore era necessaria la sicurezza piena, perché egli non amava altri al mondo che sua madre.

E vagando solo nella notte, compiva, nei suoi ricordi, nella sua ragione, un’inchiesta minuziosa dalla quale sarebbe risultata la verità lampante. Dopo, tutto sarebbe finito; non ci avrebbe pensato più, mai più. Sarebbe andato a dormire.

Pensava: «Vediamo un po’, esaminiamo prima d’ogni altro i fatti; poi ricorderò tutto quello che conosco di lui, del suo modo di fare verso mio fratello e verso di me, cercherò le cause che hanno potuto motivare questa preferenza... Egli ha visto nascere Jean (sì; ma conosceva me prima). Se avesse avuto per mia madre un amore muto e riservato, avrebbe preferito me, perché fu grazie a me, alla scarlattina, che divenne amico intimo dei miei genitori. Dunque, logicamente, egli avrebbe dovuto scegliere me, nutrire per me un affetto più vivo, a meno che non avesse sentito per mio fratello, vedendolo crescere, un’attrazione, una predilezione istintiva.»

Allora, con una tensione disperata di tutto il suo pensiero, di tutte le sue facoltà intellettuali, cercò nella sua memoria di ricostruire, di rivedere, di riconoscere, di penetrare l’uomo, quell’uomo che gli era passato accanto indifferente al suo cuore per tutti gli anni trascorsi a Parigi.

Ma sentì che il camminare, il lieve movimento dei suoi passi turbava un poco le sue idee, impediva loro di fissarsi e annebbiava la sua memoria.

Se voleva gettare sul passato e sugli avvenimenti sconosciuti quello sguardo acuto al quale nulla doveva sfuggire, doveva restare immobile in un luogo vasto e vuoto. E decise di andarsi a sedere sul molo, come l’altra notte.

Nell’avvicinarsi al porto udì, verso il largo, un ululato lamentevole e sinistro, simile al muggito d’un toro, ma più lungo e più potente. Era il suono d’una sirena, il grido delle navi perdute nella nebbia.

Un brivido gli corse per il corpo, gli strinse il cuore, tanto forte risuonò nella sua anima e nei suoi nervi quel grido d’angoscia, che gli pareva d’aver lanciato lui stesso. Un’altra voce simile gemette, a sua volta, un po’ più lontana; poi, vicinissima, la sirena del porto, in risposta, emise un urlo lacerante.

Pierre raggiunse il molo rapidamente non pensando più a niente, soddisfatto di immergersi in quelle tenebre lugubri e mugghianti.

Sedette all’estremità del molo, chiuse gli occhi per non vedere i fanali elettrici, velati di nebbia, che rendono il posto accessibile di notte, né la luce rossa del faro sul molo a sud, che, tuttavia, si distingueva appena. Poi, volgendosi a metà, appoggiò i gomiti sul granito e nascose il volto tra le mani.

La sua mente, senza che le sue labbra pronunciassero quel nome, ripeteva come per chiamarlo, per evocare e provocare la sua ombra: «Maréchal! Maréchal!...». E, ad un tratto, nel buio delle palpebre abbassate, lo rivide come lo aveva conosciuto. Era un uomo di sessant’anni, con la barba bianca tagliata a pizzo, sopracciglia folte pure bianche. Non era né alto, né basso, aveva l’aria affabile, gli occhi grigi e dolci, il gesto modesto, l’aspetto d’una brava persona, semplice e affettuoso. Chiamava Pierre e Jean «miei cari ragazzi», non aveva mai dimostrato di aver preferenze per l’uno o per l’altro e li invitava insieme a pranzo.

E Pierre, con una tenacia di cane che segua una pista svanita, si mise a ricercare le parole, i gesti, le intonazioni, gli sguardi di quell’uomo ormai scomparso. Lo ritrovava a poco a poco, interamente, nella sua casa di via Tronchet quando ammetteva alla sua tavola suo fratello e lui. Li servivano due cameriere, entrambe vecchie, che avevano preso l’abitudine, da molto tempo indubbiamente, di dire: «Signor Pierre» e «Signor Jean».

Maréchal tendeva le mani ai due giovani, la destra all’uno, la sinistra all’altro, a caso, secondo come entravano.

«Buon giorno, ragazzi,» diceva. «Avete notizie dei vostri genitori? A me non scrivono mai.»

Chiacchieravano dolcemente e familiarmente, di cose comuni. Non c’era niente di straordinario nella intelligenza di quell’uomo, ma era spiritoso, affascinante e gradevole. Certo, era per loro un buon amico, uno di quei buoni amici ai quali non si pensa affatto, perché li si sentono molto sicuri.

I ricordi, ora, affluivano alla mente di Pierre. Maréchal, vedendolo più volte preoccupato e intuendo la sua povertà di studente, gli aveva offerto e prestato spontaneamente del denaro, alcune centinaia di franchi, forse, dimenticate dall’uno e dall’altro e mai restituite. Quell’uomo, dunque, continuava a volergli bene, s’interessava sempre a lui, dato che si preoccupava dei suoi bisogni. Allora... allora perché lasciare tutto il suo patrimonio a Jean? No, egli non era mai stato più affettuoso in modo evidente con il fratello minore che con il maggiore, più preoccupato dell’uno che dell’altro, meno tenero in apparenza con questo che con quello. Allora... allora ci doveva essere una ragione potente e segreta per dar tutto a Jean - tutto - e a Pierre niente?

Più ci pensava, più riviveva il passato degli ultimi anni e più il dottore giudicava inverosimile, incredibile quella netta differenza creata tra loro due.

E una sofferenza acuta, un’angoscia inesprimibile, penetrandogli nel petto, gli faceva battere il cuore come uno straccio agitato dal vento. Pareva che le molle fossero rotte e il sangue vi passava a ondate, liberamente, sballottandolo tumultuosamente.

Allora, a mezza voce, come si parla negli incubi, egli mormorò: «Devo sapere, mio Dio; devo sapere!»

Cercava più lontano, ora, nei tempi più remoti, quando i suoi genitori vivevano a Parigi. Ma i volti gli sfuggivano e ciò confondeva i ricordi. Si accaniva, specialmente, a ritrovare Maréchal con i capelli biondi, castani o neri. Non poteva, perché l’ultimo aspetto di quell’uomo, il suo aspetto da vecchio aveva cancellato gli altri. Ricordava, tuttavia, ch’egli era più magro, che aveva le mani morbide e che portava spesso dei fiori, molto spesso, perché suo padre ripeteva continuamente: «Ancora fiori? Ma è una pazzia, mio caro, lei andrà in rovina a furia di rose!»

Maréchal rispondeva: «Lasci fare! è un piacere per me.»

E, all’improvviso, il tono di voce di sua madre che sorridendo diceva: «Grazie, amico mio» gli attraversò la mente, in modo così chiaro, che gli parve di udirlo. Le doveva aver pronunciate molto spesso quelle tre parole, se s’erano incise così nella memoria del figlio!

Maréchal, dunque, portava dei fiori, lui, l’uomo ricco, il signore, il cliente, a quella piccola bottegaia, alla moglie di quel modesto gioielliere. L’aveva amata? Come sarebbe diventato amico di quei negozianti se non avesse amato lei? Era un uomo istruito, brillante. Quante volte aveva parlato di poeti e di versi con Pierre! Non apprezzava gli scrittori da artista, ma da borghese sensibile. Il dottore, spesso, aveva sorriso di quelle ingenue commozioni. Oggi capiva che quell’uomo sentimentale non avrebbe mai potuto essere amico di suo padre, così positivo, terra terra, noioso, per il quale la parola poesia significava stupidaggine.

Dunque, quel Maréchal, giovane, libero, ricco, sentimentalmente disponibile, era entrato un giorno per caso in un negozio, forse perché lo aveva colpito la bella padrona. Aveva comperato qualcosa, era tornato, si era messo a chiacchierare, di giorno in giorno con maggiore familiarità, pagando con frequenti acquisti il diritto di sedersi in quella casa, di sorridere alla giovane donna e di stringere la mano al marito.

E poi dopo... dopo... Oh, Dio! Dopo?...

Egli aveva amato e accarezzato il primo figlio, il figlio del gioielliere, fino alla nascita dell’altro, poi era rimasto impenetrabile fino alla morte. Chiusa la sua tomba, decomposta la sua carne, cancellato il suo nome dai vivi, tutto il suo essere scomparso per sempre, non dovendo più farsi riguardi, più nulla da temere o da nascondere, aveva lasciato tutto il suo patrimonio al secondo figlio! Perché? Quell’uomo era intelligente... Avrebbe dovuto comprendere e prevedere che poteva, che in quel modo quasi immancabilmente lasciava supporre che quel figlio era suo. Egli, dunque, disonorava una donna? Come avrebbe potuto far ciò, se Jean non fosse stato suo figlio?

E, improvvisamente, un ricordo preciso, terribile, attraversò l’anima di Pierre. Maréchal era stato biondo, biondo come Jean. Egli ricordava, ora, una piccola miniatura vista, in passato, a Parigi, sul camino del loro salotto e attualmente scomparsa. Dov’era? Persa, o nascosta! Oh, se avesse potuto averla, non fosse altro che per un secondo! Forse la madre l’aveva conservata nel cassetto sconosciuto, dove si chiudono le reliquie d’amore.

A tale pensiero la sua angoscia divenne così lacerante che egli emise un gemito, uno di quei brevi lamenti che certi dolori troppo violenti strappano al cuore. E, a un tratto, come se lo avesse udito e capito, la sirena del molo in risposta urlò vicinissima a lui. Il suo urlo di mostro soprannaturale, più fragoroso del tuono, ruggito selvaggio e tremendo, fatto per dominare le voci del vento e delle onde, dilagò nell’oscurità sul mare invisibile, sepolto sotto la nebbia.

Allora, nella foschia, vicine e lontane, grida simili si elevarono di nuovo nella notte. Erano spaventosi quei richiami lanciati dalle grandi navi cieche.

Poi tutto tacque ancora.

Pierre aveva aperto gli occhi e guardava, sorpreso di trovarsi lì, risvegliato dal suo incubo.

«Son pazzo, pensò; sospetto di mia madre.» E un’ondata di affetto, di tenerezza, di pentimento, di preghiera e di desolazione sommerse il suo cuore. Sua madre! Come aveva potuto sospettare di lei, conoscendola come la conosceva? L’anima, la vita di quella donna semplice, pura e leale non eran forse più limpide dell’acqua? Come non giudicarla insospettabile, quando la si era vista e conosciuta? E proprio lui, suo figlio, aveva dubitato di lei! Oh, se avesse potuto stringerla tra le braccia in quel momento, come l’avrebbe baciata, accarezzata, come si sarebbe inginocchiato per chiederle perdono!

Aveva dunque ingannato suo padre? Suo padre! Certo, era un brav’uomo, onesto e rispettabile negli affari; ma il suo spirito non aveva mai oltrepassato l’orizzonte del suo negozio. Come mai quella donna, una volta molto bella (lui lo sapeva e del resto si vedeva ancora) con un’anima delicata, affettuosa, tenera, aveva accettato per fidanzato e per marito un uomo così diverso da lei?

Perché indagare? S’era sposata, come si sposano le ragazzine, al buon partito che i genitori presentano. Si erano sistemati nel loro negozio di rue Montmartre, e la giovane donna, imperando dal suo banco, animata dallo spirito della nuova famiglia, da quel senso sottile e sacro dell’interesse comune, che sostituisce l’amore e perfino l’affetto nella maggior parte delle famiglie di commercianti di Parigi, s’era messa a lavorare con tutta la sua intelligenza attiva e accorta per la sperata fortuna della loro casa. E così, la sua vita era trascorsa, uniforme, tranquilla, onesta, senza tenerezza!

Senza tenerezza?... Era mai possibile che una donna non amasse? Una donna giovane, graziosa, che viveva a Parigi, leggeva libri, che applaudiva le attrici che morivano di passione sulla scena, poteva andare dall’adolescenza alla vecchiaia senza che il suo cuore fosse colpito una sola volta? Di un’altra non lo avrebbe creduto: perché avrebbe dovuto crederlo di sua madre?

Certo, anche lei aveva amato come le altre per quale ragione doveva essere diversa? Perché era sua madre?

Era stata giovane, con tutti i poetici abbandoni che turbano i cuori dei giovani. Chiusa, imprigionata nel negozio, accanto ad un marito volgare che parlava sempre d’affari, aveva sognato il chiaro di luna, viaggi, baci scambiati nell’ombra della sera. E poi, un giorno, un uomo era entrato, come nei libri entrano gli innamorati, ed aveva parlato come parlano loro.

Lei lo aveva amato. Perché no? Era sua madre! Ebbene. Bisognava essere ciechi e stupidi al punto di negare l’evidenza solo perché si trattava di sua madre?

Si era concessa?... Ma certo, perché quell’uomo non aveva avuto altre amiche; ma certo perché era rimasto fedele a lei ormai invecchiata e lontana ed aveva lasciato tutto il suo patrimonio a suo figlio, al loro figlio!

E Pierre si alzò, in preda a un tale furore che avrebbe voluto uccidere qualcuno! Il suo braccio teso, la mano aperta avevano voglia di colpire, di picchiare, di distruggere, di strangolare. Chi? Tutti: suo padre, suo fratello, Maréchal, sua madre!

Si slanciò per tornare a casa. Che cosa avrebbe fatto?

Passando davanti a un posto di vedetta accanto all’albero dei segnali, l’urlo stridulo della sirena lo colpì sul volto. La sua sorpresa fu così violenta che per poco non cadde. Indietreggiò fino al parapetto di granito, dove si sedette, senza più forza, distrutto dalla pena.

Il piroscafo che rispose per primo pareva vicinissimo e si presentava all’entrata, poiché la marea era alta.

Pierre si volse e vide il suo occhio rosso appannato dalla nebbia. Poi, sotto il diffuso chiarore delle luci elettriche del porto, una grande ombra nera si disegnò tra i due moli. Dietro di lui la voce del guardiano, voce arrochita di vecchio capitano a riposo, gridava:

«Il nome della nave?»

E, tra la nebbia, la voce, anch’essa roca, del pilota ritto sul ponte, rispose:

«Santa Lucia

«Il paese?»

«Italia.»

«Il porto?»

«Napoli.»

Allora Pierre credette di vedere, davanti ai suoi occhi turbati, il pennacchio di fuoco del Vesuvio, mentre ai piedi del vulcano, nei boschetti d’aranci di Sorrento o di Castellammare, danzavano le lucciole. Quante volte aveva sognato quei nomi familiari, come se conoscesse i loro paesaggi! Oh, se avesse potuto andarsene subito, non importava dove e non tornare mai più! Non scrivere, non far sapere più niente di sé! Ma no; bisognava tornare, tornare a casa e coricarsi.

Al diavolo! Non sarebbe rientrato, avrebbe aspettato l’alba. La voce delle sirene gli piaceva. Si alzò e prese a camminare come un ufficiale che faccia il turno di guardia sul ponte.

Un’altra nave si avvicinava dietro la prima, enorme e misteriosa. Era un piroscafo inglese che tornava dalle Indie.

Ne vide arrivare ancora molti, che sbucavano uno dopo l’altro dall’ombra impenetrabile. Poi, siccome la umidità della nebbia diventava insopportabile, si rimise in cammino verso la città. Aveva un gran freddo, entrò in un caffè di marinai per bere un «grog» e, quando l’acquavite drogata e calda gli ebbe bruciato il palato e la gola, sentì rinascere in sé una speranza.

Si era ingannato, forse? Conosceva così bene la sua vagabonda insensatezza! Di sicuro si era ingannato! Aveva accumulato indizi, come si prepara una requisitoria contro un innocente facile da condannare quando si vuole crederlo colpevole. Dopo aver dormito avrebbe ragionato in altro modo.

Allora rincasò per andare a letto e, a forza di volontà, finì ad addormentarsi.