Pescatori d'Islanda/Parte II/Capitolo XII

Capitolo XII

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Pierre Loti - Pescatori d'Islanda (1886)
Traduzione dal francese di Carlo De Flaviis (1911)
Capitolo XII
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Capitolo Dodicesimo.


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Il mare, il mare grigio!

In quell’immensità per la quale passano, ogni estate, i pescatori d’Islanda, Yann filava dolcemente da una giornata.

Il giorno prima, quando eran partiti, al motivo dei vecchi cantici, soffiava una brezza del sud, ed i [p. 67 modifica]bastimenti, con tutte le vele spiegate, si eran dispersi come gabbiani.

Poi la brezza era andata diminuendo e la velocità con essa; una folta nebbia vagava sulle onde.

Yann era diventato più silenzioso del solito.

Egli si lagnava del tempo troppo calmo e sembrava aver bisogno di agitarsi, per scacciare dall’animo suo delle ossessioni. Ma, purtroppo, egli non aveva altro a fare che a scivolare tranquillamente in mezzo alla tranquillità dell’ambiente; egli non aveva che da respirare ed attendere. D’intorno non si vedeva che del grigio profondo ed il silenzio assoluto regnava....

A un tratto un rumore sordo, appena percettibile, ma insolito si fece sentire. E la Maria, interrompendo la sua traversata, restò immobile....

Incagliata! Dove? e su che? Probabilmente su qualche banco della costa inglese. Per la nebbia fittissima nulla si poteva scorgere.

Gli uomini si agitavano, correvano e la loro eccitazione contrastava con la tranquillità glaciale del loro battello.

In mezzo a quell’immensità di cose fluide che, per quel tempo molle, sembrava non avessero consistenza, la Maria era stata presa da un non so che di resistente e d’immutabile, nascosto sotto le acque; era stata ben presa e forse rischiava di morire.

Chi non ha visto un uccellino, o una povera mosca, attaccata per le zampe ad un vischio?

La prigionia non muta il loro aspetto; — per accorgersene bisogna sapere che sono presi al di sotto col pericolo di non staccarsi più.

E’ in seguito, quando, dibattendosi, il vischio imbratta loro le ali e la testa, che esse prendono quell’aria pietosa di bestie che stanno per morire.

Era così per la Maria; al principio non sembrava [p. 68 modifica]molto; si teneva un poco inclinata è vero, ma era in pieno mattino e in un bel tempo calmo; bisognava sapere del pericolo per comprendere la sua condizione molto grave.

Il comandante ispirava interesse pietoso; la colpa era un poco sua, perchè non si era occupato abbastanza del punto in cui erano; egli levava le mani in aria dicendo «E’ per lieve colpa mia!».

Presso di loro, in un chiarore, si disegnò un promontorio, che essi non riconoscevano bene. Si annebbiò quasi subito; e non lo si distinse più.

In principio nessuna vela in vista, nessun fumo; e per il momento erano più contenti di ciò: avevano timore di quei salvatori inglesi che vengono a tirarvi d’imbarazzo a viva forza, e dai quali bisogna difendersi come dai pirati.

Si davano tutti da lare, esasperatissimi. Turco, il loro cane, che non temeva i movimenti del mare, era molto emozionato di quell’incidente; quei rumori al disopra, quelle scosse dure, e poi quell’immobilità, anche a lui non apparivano naturali, e si nascondeva negli angoli, con la coda bassa.

Per dieci ore continue manovrarono invano: il povero battello arrivato la mattina così pulito ed azzimato prendeva già un brutto aspetto, inondato, sporco, in pieno disordine, sempre là, inchiodato come un battello morto.

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Sopraggiunse la notte, soffiava forte il vento; le cose si mettevano male per loro, quando, d’un colpo, verso le sei, essi si sentirono liberi da ogni ostacolo.

Allora si videro tutti gli uomini correre avanti e indietro e gridare: «Noi navighiamo!».

Ed effettivamente navigavano.