Per la pace perpetua

tedesco

Immanuel Kant 1795/1796 2011 Maria Chiara Pievatolo filosofia Per la pace perpetua Intestazione 10 maggio 2013 75% Da definire

Per la pace perpetua

Un progetto filosofico di Immanuel Kant1

Alla pace perpetua

[343] Se questa iscrizione satirica sull'insegna di quell'oste olandese sulla quale era dipinto un cimitero, riguardi generalmente gli es umani o particolarmente ‪ i capi di stato che non riescono mai a saziarsi di guerra, oppure forse soltanto i filosofi che sognano quel dolce sogno, è questione che qui possiamo lasciar stare. Ma il redattore del presente testo si riserva quanto segue: poiché il politico pratico, nei confronti di quello teoretico, sta in un rapporto tale da guardarlo dall'alto al basso, con grande autocompiacimento, trattandolo come uno scolastico che, con le sue idee vuote, non può arrecar pericolo allo stato che ha da derivare da princípi di esperienza, e che si può lasciar giocare con l'impossibile, senza che l'uomo di stato informato del mondo debba curarsene, egli deve anche procedere, nel caso di un contrasto con lui, in maniera conseguente e non subodorare un rischio per lo stato dietro alle sue opinioni azzardate alla ventura e pubblicamente espresse; - in virtù di questa Clausula salvatoria2 il redattore vuole esplicitamente sapersi premunito, e nella forma migliore, contro ogni interpretazione malevola.

Prima sezione, che contiene gli articoli preliminari per la pace perpetua fra gli stati

1. Nessuna conclusione di pace, che sia stata fatta con la riserva segreta della materia di una guerra futura, deve passare per tale

Allora, infatti, sarebbe un semplice armistizio, una dilazione delle ostilità, non pace, che significa fine di ogni ostilità, e a cui l'aggiunta dell'epiteto perpetua è già un pleonasmo sospetto. Le cause presenti della guerra futura, sebbene forse al momento non ancora note ai negoziatori stessi, sono complessivamente eliminate tramite la conclusione della pace, si possano pur estrarre da documenti d'archivio [344] con abilità investigativa anche perspicace. - La riserva (reservatio mentalis) di vecchie pretese da escogitare per primi in futuro, delle quali per ora nessuna parte desidera far menzione, perché entrambe sono troppo spossate per continuare la guerra, nella volontà cattiva di servirsi a questo scopo della prima occasione favorevole, appartiene alla casistica gesuitica, ed è al di sotto della dignità dei capi di stato, così come la condiscendenza a simili deduzioni è al di sotto della dignità di un loro ministro, se si giudica la cosa com'è in se stessa.

Ma se, secondo i concetti illuminati della prudenza politica, il vero onore dello stato è posto in un costante aumento di potenza, con qualsiasi mezzo, allora un simile giudizio appare di certo scolastico e pedante.

2. Nessuno stato che sussiste in modo indipendente (piccolo o grande, qui è indifferente) deve poter essere acquistato da un altro per eredità, permuta, compravendita o donazione.

Uno stato, cioè, non è (com'è, in qualche modo, il territorio su cui ha sede) un avere (patrimonium). È una società di esumani, su cui non deve comandare e disporre nessun altro se non lo stato stesso. Ma annetterlo come un innesto a un altro stato, mentre, in quanto tronco, aveva la sua propria radice, significa annullare la sua esistenza come persona morale e fare di quest'ultima una cosa, e dunque contraddice l'idea del contratto originario, senza il quale non si può pensare nessun diritto su un popolo.3 In quale pericolo il pregiudizio di questa modalità di acquisto nei nostri tempi, fino ai più recenti, abbia portato l'Europa – perché le altre porzioni del mondo non ne hanno mai saputo nulla -, è noto a ognuno: che, cioè, anche gli stati possano sposarsi fra loro, in parte come un'industria di nuovo tipo, per rendersi potentissimi anche senza dispendio di forze tramite alleanze di famiglia, in parte anche in modo tale da estendere il proprio possesso territoriale. - È da annoverarsi qui anche l'affitto delle truppe di uno stato a un altro contro un nemico che non è comune; perché i sudditi vengono in questo caso usati e consumati come cose da maneggiare a discrezione.

[345] 3. Gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono col tempo del tutto cessare.

Infatti essi minacciano incessantemente di guerra altri stati con la disposizione ad apparirvi sempre preparati; li istigano a superarsi l'un l'altro nella moltitudine degli armati, che non conosce limiti, e, poiché, per le spese dedicatevi, la pace infine diventa ancor più opprimente di una guerra breve, per disfarsi di questo fardello sono essi stessi causa di guerre d'aggressione; a ciò si aggiunge che venir assoldati per uccidere o essere uccisi sembra racchiudere in sé un uso degli esseri umani come semplici macchine e utensili in mano a un altro (lo stato) che mal si concilia col diritto dell'umanità nella nostra propria persona. Le cose stanno in modo completamente diverso nel caso dell'esercizio volontario dei cittadini in armi intrapreso periodicamente, allo scopo di assicurare se stessi e la loro patria contro gli attacchi dall'esterno. - Allo stesso modo, con l'accumulazione di un tesoro avverrebbe che esso, considerato dagli altri stati come una minaccia di guerra, li necessiterebbe ad aggressioni preventive (perché fra i tre poteri – il potere dell'esercito, quello delle alleanze e quello del denaro – quest'ultimo potrebbe ben essere lo strumento di guerra più efficace, se non gli si opponesse la difficoltà di indagarne la grandezza).

4. Non si devono fare debiti pubblici in relazione a conflitti esterni dello stato.

La risorsa di cercare aiuto all'interno o all'esterno dello stato per l'uso dell'economia del paese (per il miglioramento delle strade, per nuovi insediamenti, o l'istituzione di magazzini che provvedano alle annate di cattivo raccolto e così via) non è sospetta. Ma in quanto macchina di contrapposizione reciproca fra le potenze, un sistema creditizio il quale consiste in debiti indefinitamente crescenti e però sempre assicurati per la pretesa del momento (perché essa non avverrà da parte di tutti i creditori in una volta sola) – l'invenzione ingegnosa, in questo secolo, di un popolo commerciante – è un potere finanziario [Geldmacht] pericoloso, cioè un tesoro per condurre guerre che oltrepassa i tesori di tutti gli altri stati presi insieme e che può essere esaurito solo con l'incombente disavanzo delle imposte (il quale tuttavia verrà dilazionato ancora a lungo anche in virtù dello stimolo al commercio prodotto dalla ripercussione sull'industria e sul profitto). Questa facilità alla guerra, connessa con l'inclinazione dei potenti a farla, che sembra innata nella natura umana, è dunque un grande ostacolo alla pace perpetua, per vietare il quale ci deve essere tanto più [346] un articolo definitivo in proposito, perché la bancarotta di stato alla fine inevitabile coinvolge necessariamente nel danno degli altri stati senza colpa, cosa che sarebbe una lesione pubblica di questi ultimi. Quindi gli altri stati sono perlomeno in diritto di coalizzarsi contro un tale stato e le sue pretese.

5. Nessuno stato deve interferire con la forza nella costituzione e nel governo di un altro stato.

Infatti che cosa può dargliene diritto? Forse lo scandalo che dà ai sudditi di un altro stato? Esso può anzi servire da ammonimento con l'esempio dei grandi mali che un popolo si è attirato per il suo essere senza legge: e il cattivo esempio che una persona libera dà all'altra (come scandalum acceptum)4 non è in generale una lesione nei suoi confronti. - In ciò non sarebbe certo da far rientrare la situazione in cui uno stato, per interiore discordia, si spaccasse in due parti, ciascuna delle quali rappresenta di per sé uno stato particolare che avanza pretese sull'intero: in tal caso, il prestare assistenza a uno dei due non potrebbe essere imputato a uno stato esterno come interferenza nella costituzione dell'altro (perché allora si tratta di anarchia). Ma finché questo conflitto interno non è ancora deciso, questa interferenza di una potenza esterna sarebbe violazione del diritto di un popolo che non dipende da nessun altro e lotta soltanto con la sua malattia interna, quindi uno scandalo dato [ein gegebenes Skandal] essa stessa, e renderebbe insicura l'autonomia di tutti gli stati.

6. Nessuno stato in guerra con un altro deve permettersi ostilità tali da rendere impossibile la fiducia reciproca nella pace futura: come per esempio l'impiego di sicari (percussores), di avvelenatori (venefici), l' infrazione della resa, l' istigazione al tradimento (perduellio) nello stato con cui si è in guerra etc.

Questi sono stratagemmi disonorevoli. Infatti in piena guerra deve rimanere ancora una qualche fiducia nella disposizione d'animo del nemico, perché altrimenti non si potrebbe neppure concludere una pace e l'ostilità degenererebbe in una guerra di sterminio (bellum internecinum): poiché la guerra è però il triste strumento imposto dalla necessità nello stato di natura (ove non esiste nessun tribunale che possa giudicare in modo giuridicamente valido), per affermare il proprio diritto con la violenza e in questo caso nessuna delle due parti può essere interpretata come un nemico ingiusto (perché questo presuppone già una sentenza giudiziaria), bensì solo l'esito della guerra stessa (proprio come in un [347] cosiddetto giudizio di Dio) decide da che lato è il diritto, fra stati non si può pensare una guerra punitiva (bellum punitivum) (perché fra loro non ha luogo una relazione di sovraordinato e subordinato). - Da ciò allora segue che una guerra di sterminio in cui la distruzione può toccare a entrambe le parti nello stesso tempo, e assieme a queste anche a ogni diritto, farà sì che la pace perpetua abbia luogo solo nel grande cimitero del genere umano. Quindi una tale guerra, e perciò anche l'uso dei mezzi che conducono a essa, deve essere assolutamente vietata. - Ma che i menzionati mezzi vi conducano inevitabilmente risulta chiaro dal fatto che quelle arti infernali - come per esempio l'impiego di spie (uti exploratoribus) in cui si adopera solo la mancanza d'onore di altri (che non si potrà certo mai estirpare) -, dal momento che sono abiette in se stesse, una volta venute in uso non si mantengono a lungo entro i limiti della guerra, ma passerebbero anche nello stato di pace e così ne annienterebbero interamente l'intento.

Per quanto le leggi menzionate siano oggettivamente, cioè nell'intenzione di chi è al potere, evidenti leggi proibitive (leges prohibitivae), però alcune di esse sono di tipo stretto, valide senza distinzione di circostanze (leges strictae). Esse esigono subito una abolizione (come gli articoli 1, 5, 6). Altre invece (come gli articoli 2, 3, 4) sono soggettivamente estensive (leges latae) certo non come eccezione della regola di diritto, ma tuttavia per la facoltà della loro applicazione fra le circostanze, e contengono permessi di differirne il compimento, senza però perderne di vista il fine, che non consente di disporre al giorno del mai (ad calendas graecas, come Augusto era solito promettere) questo differimento, per esempio la restituzione secondo l'articolo 2 della libertà sottratta a certi stati fino a mancare, conseguentemente, di risarcirla, bensì si permette solo la dilazione, perché il ripristino non avvenga in modo precipitoso e dunque contrario all'intento stesso. Qui infatti la proibizione riguarda solo il modo di acquisizione, che non deve valere per l'avvenire, non però lo stato di possesso, il quale, sebbene non abbia il titolo giuridico richiesto, era considerato a suo tempo (nel momento dell'acquisizione putativa) conforme al diritto da tutti gli stati, secondo l'opinione pubblica di allora.[348]5

Seconda sezione, che contiene gli articoli definitivi della pace perpetua tra stati

Lo stato di pace fra esseri umani che vivono in reciproca vicinanza non è uno stato di natura (status naturalis), il quale è piuttosto uno stato di guerra,[349] cioè, sebbene non sempre uno scoppio delle ostilità, una continua minaccia delle medesime. Esso dunque deve essere istituito, perché la loro omissione non è ancora la sua assicurazione, e senza che quest'ultima sia prestata da un vicino all'altro (cosa che però può avvenire solo in uno stato [Zustand] legale), questi può trattare come un nemico colui al quale ne6 abbia fatto richiesta.7

Primo articolo definitivo per la pace perpetua: in ogni stato la costituzione civile deve essere repubblicana

La costituzione istituita in primo luogo secondo i princípi della libertà dei membri della società (come esseri umani); in secondo luogo secondo le regole fondamentali della dipendenza di tutti da un'unica legislazione comune (come sudditi) e [350] in terzo luogo secondo la legge dell'uguaglianza degli stessi (come cittadini) è quella repubblicana8 – l'unica che proviene dall'idea del contratto originario, sulla quale deve essere fondata ogni legislazione di un popolo conforme al diritto -. Essa è dunque in se stessa, per ciò che concerne il diritto, quella che sta originariamente a fondamento di ogni tipo di costituzione civile; ora resta solo la questione se sia anche l'unica che possa condurre alla pace perpetua.

[351] Ebbene, la costituzione repubblicana, oltre alla limpidezza della sua origine, l'essere scaturita dalla pura fonte del concetto di diritto, ha in più la prospettiva della conseguenza desiderata, cioè la pace perpetua, il cui fondamento è questo. - Se (come non può essere altrimenti in questa costituzione) è richiesto l'assenso dei cittadini, per decidere “se debba essere guerra, o no”, allora niente è più naturale che essi, poiché dovrebbero decidere di infliggere a se stessi tutte le tribolazioni della guerra (come combattere essi stessi, pagare le spese della guerra col proprio patrimonio, por rimedio miseramente alla desolazione che lascia dietro di sé, e infine, per colmare la misura del male, assumersi il peso di un debito mai liquidabile (a causa di sempre nuove guerre successive), il quale rende amara la pace stessa, rifletteranno molto per cominciare un così cattivo gioco. Di contro, in una costituzione in cui il suddito non è cittadino e dunque non è repubblicana, la guerra è la cosa che al mondo richiede meno riflessione, perché il capo non è socio dello stato, ma suo proprietario, e con la guerra non si priva minimamente dei suoi banchetti, delle sue cacce, dei suoi castelli di svago, delle sue feste di corte e simili, e quindi può deciderla per cause insignificanti, come una specie di viaggio di piacere, la cui giustificazione può lasciare con indifferenza, per decoro, al corpo diplomatico a ciò sempre pronto.

Perché non si scambi (come generalmente accade) la costituzione repubblicana con quella democratica, si deve notare quanto segue. [352] Le forme di uno stato (civitas) possono essere classificate o secondo la differenza delle persone che detengono il potere supremo dello stato, o secondo il modo di governo del popolo da parte del suo capo, chiunque egli sia; la prima si chiama propriamente la forma del dominio (forma imperii), e ne sono possibili soltanto tre: o solo uno, o alcuni fra loro collegati, o insieme tutti quelli che compongono la società civile posseggono il potere sovrano [Herrschergewalt] (autocrazia, aristocrazia e democrazia, potere del principe, potere della nobiltà e potere del popolo). La seconda è la forma del governo (forma regiminis) e concerne il modo, fondato sulla costituzione (l'atto della volontà generale tramite il quale una moltitudine diventa un popolo), in cui lo stato fa uso della pienezza della potenza; ed è, in questo rispetto, o repubblicana o dispotica. Il repubblicanesimo è il principio politico [Staatsprincip] della divisione del potere esecutivo (del governo) dal legislativo; il dispotismo è il principio dell'esecuzione arbitraria da parte dello stato delle leggi che esso stesso ha dato, dunque la volontà pubblica nella misura in cui è adoperata dal governante come sua volontà privata. - Tra le tre forme di stato, la democrazia, nell'accezione propria della parola, è necessariamente un dispotismo, perché fonda un potere esecutivo in cui su uno e eventualmente contro uno (il quale dunque non è d'accordo) decidono tutti, quindi dei tutti che però non sono tutti; il che è una contraddizione della volontà generale con se stessa e con la libertà.

In effetti, ogni forma di governo che non sia rappresentativa è propriamente informe [eine Unform], perché il legislatore può essere contemporaneamente in una e medesima persona esecutore della sua volontà (può esserlo tanto poco quanto, in un sillogismo, l'universale della premessa maggiore può essere nello stesso tempo la sussunzione del particolare sotto di esso nella premessa minore) e, sebbene le altre due costituzioni politiche siano sempre difettose nella misura in cui danno spazio a un tale tipo di governo, in esse è però almeno possibile che assumano un modo di governare conforme allo spirito di un sistema rappresentativo - per esempio Federico II diceva almeno di essere solo il supremo servitore dello stato9 - mentre invece la costituzione democratica [353] lo rende impossibile, perché il tutto vi vuol essere signore. - Si può quindi dire che quanto minore è il personale del potere dello stato (il numero dei sovrani) e quanto maggiore di contro la rappresentazione del medesimo, tanto più la costituzione dello stato si accorda con la possibilità del repubblicanesimo e può sperare alla fine di elevarvisi tramite riforme graduali. Per questo motivo, pervenire a questa unica costituzione compiutamente conforme al diritto è già più difficile nell'aristocrazia che nella monarchia, ma nella democrazia è impossibile se non attraverso una rivoluzione violenta. Ma per popolo è senza paragone più importante il modo di governo10 [Regiergungsart] che la forma di stato (sebbene la sua maggiore o minore adeguatezza a quello scopo dipenda moltissimo anche dalla forma di stato). Però per quello, se deve essere conforme al concetto del diritto, c'è bisogno del sistema rappresentativo, nel quale soltanto è possibile un modo di governo repubblicano, e senza il quale (qualsiasi sia la costituzione) esso è dispotico e violento. - Nessuna delle cosiddette repubbliche antiche ha conosciuto questo, ed esse dovettero poi risolversi semplicemente nel dispotismo, che sotto la dittatura di uno solo è ancora il più sopportabile di tutti. [354]

Secondo articolo definitivo per la pace perpetua: il diritto internazionale deve essere fondato su un federalismo di liberi stati11

I popoli, in quanto stati, possono essere giudicati come esseri umani singoli, i quali, nel loro stato di natura (cioè nell'indipendenza da leggi esterne) si ledono già per il loro essere l'uno accanto all'altro, e dei quali ognuno, per amore della propria sicurezza, può e deve pretendere dall'altro di entrare con lui in una costituzione simile a quella civile, in cui possa venir assicurato a ciascuno il suo diritto. Questa sarebbe una lega di popoli [Völkerbund]12 che però non dovrebbe [müßte] nondimeno essere uno stato di popoli. In ciò ci sarebbe una contraddizione; perché ogni stato contiene la relazione di un superiore (che legifera) con un inferiore (che ubbidisce, e cioè il popolo), però molti popoli in uno stato ammonterebbero a un popolo soltanto, cosa che contraddice l'assunzione (poiché qui abbiamo da prendere in considerazione il diritto dei popoli l'uno nei confronti dell'altro, nella misura in cui compongono stati tanto diversi e non devono fondersi insieme in uno stato).

Noi guardiamo con profondo disprezzo l'attaccamento dei selvaggi alla loro libertà senza legge di azzuffarsi incessantemente piuttosto che sottomettersi a una coercizione legale che essi stessi dovrebbero costituire, e quindi la preferenza per la libertà folle a quella ragionevole, e lo consideriamo rozzezza, villania e degradazione bestiale dell'umanità, e così – si dovrebbe pensare – i popoli di buoni costumi (ciascuno per sé associato a uno stato) dovrebbero affrettarsi a venir fuori al più presto da una situazione tanto abietta. Invece ogni stato pone la propria maestà (perché la maestà del popolo è un'espressione insensata) proprio nel non essere soggetto a nessuna coercizione legale esterna e il lustro del suo capo consiste nel fatto che, senza che egli stesso possa porsi in pericolo, molte migliaia stanno ai suoi ordini, a farsi sacrificare13 per una cosa che a loro non interessa per niente, e la differenza dei selvaggi europei da quelli americani consiste principalmente nella circostanza che, mentre qualche tribù dei secondi è stata mangiata interamente dai suoi nemici, i primi sanno fare degli sconfitti un uso migliore di quello di cibarsene e riescono, piuttosto, ad accrescere il numero dei loro sudditi [355], e dunque la quantità degli strumenti con i quali fare guerre ancora più estese.

Nella malvagità della natura umana, che si fa vedere apertamente nel libero rapporto dei popoli (mentre è molto velata, per la coercizione del governo, nella condizione civile-legale), c'è pur da stupirsi che non si sia ancora riusciti a esiliare interamente la parola diritto, in quanto pedante, dalla politica di guerra, e che nessuno stato abbia ancora avuto l'audacia di dichiararsi pubblicamente a favore di quest'ultima opinione; infatti, sebbene il loro codice, composto filosoficamente o diplomaticamente, non abbia, o possa anche avere, il minimo vigore legale (perché gli stati come tali non stanno sotto una coercizione esterna comune), Ugo Grozio, Pufendorf, Vattel e altri (solo dei fastidiosi consolatori14) vengono ancora addotti in buona fede a giustificazione di una aggressione bellica, senza che ci sia un caso in cui uno stato sia mai stato indotto, con argomenti armati delle testimonianze di uomini tanto importanti, a desistere dal suo progetto. - Questo omaggio che ogni stato presta al concetto di diritto (almeno a parole) prova però che nell'essere umano è da trovarsi una disposizione morale ancora maggiore (sebbene al momento dormiente) ad aver un giorno ragione sul cattivo principio in lui (cosa che egli non può negare) e a sperare questo anche dagli altri: perché altrimenti la parola diritto non verrebbe mai in bocca agli stati che vogliono combattersi a vicenda se non per farsene beffe, come dichiarava quel principe gallo: «È il privilegio che la natura ha dato al più forte sul più debole, che questi gli debba obbedire.»15

Dal momento che il modo in cui gli stati perseguono il loro diritto non può mai essere il processo, come in un tribunale esterno, ma solo la guerra; che però tramite questa e il suo esito favorevole, la vittoria, non viene deciso il diritto, e con il trattato di pace si pone certo fine (una fine che non si può neppure dichiarare ingiusta perché in questa situazione ciascuno è giudice in causa propria) a questa particolare guerra, ma non alla situazione di guerra (al trovare sempre nuovi pretesti per farne una), e tuttavia per gli stati, secondo il diritto internazionale, non può valere nemmeno quanto vale per gli esseri umani nella situazione priva di legge, secondo il diritto di natura, che «si deve uscire da questo stato» (perché essi, in quanto stati, hanno già internamente una costituzione giuridica, e dunque si sono sottratti alla coercizione da parte di altri a portarli sotto una costituzione legale allargata secondo i loro concetti di diritto [356), mentre però la ragione, dall'alto del trono del supremo potere moralmente legislatore condanna assolutamente la guerra come procedura di diritto e fa di contro della condizione di pace un dovere immediato, che pure non può essere istituito o assicurato senza un contratto dei popoli fra loro, - allora ci deve [muß] essere una lega [Bund] di tipo particolare, che si può chiamare lega di pace (foedus pacificum), la quale sarebbe differente dal trattato di pace (pactum pacis) in quanto questo cerca semplicemente di finire una guerra, ma quella tutte le guerre per sempre. Questa lega non si indirizza all'acquisto di una qualche potenza politica, bensì esclusivamente alla conservazione e alla salvaguardia della libertà di uno stato per se stesso e allo stesso tempo per gli altri stati, senza che questi debbano perciò assoggettarsi (come esseri umani nello stato di natura) a leggi pubbliche e a una coercizione sotto di esse. - È possibile illustrare l'attuabilità (realtà oggettiva) di questa idea di federalità [Föderalität] che si deve estendere gradualmente a tutti gli stati e conduce così alla pace perpetua. Infatti se la fortuna dispone che un popolo potente e illuminato riesca a costituirsi in una repubblica (che, secondo la sua natura, deve essere incline alla pace perpetua), questa fungerà, per gli altri stati, da perno per l'unificazione federativa, per associarvisi e assicurare così, conformemente all'idea del diritto internazionale, la condizione di libertà degli stati ed ampliarsi sempre di più tramite ulteriori associazioni di questo tipo.

Che un popolo dica «non ci deve essere guerra fra noi; infatti vogliamo costituirci in uno stato, cioè porre per noi stessi un supremo potere legislativo, esecutivo e giudiziario, che appiani pacificamente le nostre controversie» - questo si può capire. Ma se questo stato dice «non ci deve essere guerra fra me e altri stati, sebbene io non riconosca nessun potere legislativo superiore, che assicuri a me il mio diritto e a essi il loro», non si riesce affatto a capire su che cosa allora voglia fondare la fiducia nel mio diritto, se non c'è il surrogato dell'unione in società [Gesellschaftsbund] civile, cioè il libero federalismo, che la ragione deve collegare necessariamente con il concetto di diritto internazionale, se qui in ogni caso deve restare qualcosa da pensare.

Nel concetto del diritto internazionale come un diritto alla guerra non c'è propriamente nulla da pensare (perché non sarebbe un diritto secondo leggi esterne universalmente valide che limitano la libertà di ogni singolo, [357] bensì un diritto di determinare che cosa è diritto con la violenza, secondo massime unilaterali) e dovrebbe perciò essere inteso così: è giusto che esseri umani così disposti si distruggano reciprocamente e quindi trovino la pace perpetua nell'ampio sepolcro che copre tutti gli orrori della violenza assieme con i loro autori. - Secondo la ragione, per stati in reciproco rapporto, non ci può essere nessun altro modo di venir fuori dalla condizione senza legge che comporta solamente guerra, se non che rinuncino, proprio come esseri umani singoli, alla loro libertà selvaggia (senza legge) per adattarsi a leggi pubbliche coercitive e così formare uno stato di popoli (civitas gentium) - naturalmente in espansione - che alla fine abbraccerà tutti i popoli della terra. Ma poiché essi, secondo la loro idea del diritto, non vogliono affatto questo, e quindi rigettano in hypothesi ciò che è giusto in thesi, al posto dell'idea positiva di una repubblica mondiale (se non tutto deve andar perduto), solo il surrogato negativo di una lega [Bund] permanente e in costante espansione che allontani la guerra può trattenere il torrente dell'inclinazione ostile che rifugge il diritto, però con il rischio costante della sua rottura (Furor impius intus - fremit horridus ore cruento16. Virgilio).17

Terzo articolo definitivo per la pace perpetua: il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni dell'ospitalità [358] universale

Qui, come negli articoli precedenti, non si discute di filantropia bensì del diritto, e in questo caso ospitalità [Hospitalität (Wirtbarkeit)] significa il diritto di uno straniero a non essere trattato ostilmente da un altro a causa del suo arrivo sul suo territorio. Questi lo può respingere, se ciò può avvenire senza la sua rovina; ma, finché al suo posto si comporta pacificamente, non può andargli incontro con avversione. Lo straniero non può rivendicare un diritto a essere ospite18 (per il quale sarebbe richiesto uno speciale contratto benefico, allo scopo di farlo diventare per un certo tempo coabitante), bensì un diritto di visita, che spetta a tutti gli esseri umani, cioè di proporsi alla società in virtù del diritto al possesso comunitario della superficie della terra, sulla quale, in quanto sferica, essi non possono disperdersi nell'infinito, ma alla fine devono pur tollerarsi a vicenda, mentre di essere in un luogo della terra nessuno originariamente ha più diritto dell'altro. - Di questa superficie parti inabitabili, il mare e i deserti di sabbia, dividono questa comunità, però in modo tale che la nave o il cammello (la nave del deserto) rendono possibile avvicinarsi reciprocamente passando per queste regioni abbandonate e usare il diritto alla superficie, che spetta comunitariamente al genere umano, per un possibile commercio. L'inospitalità delle coste marine (per esempio dei barbareschi), che consiste nel depredare le navi nei mari vicini o fare schiavi i marinai naufragati, o quella dei deserti sabbiosi (dei beduini arabi), che consiste nel considerare l'avvicinamento alle tribù nomadi come un diritto al saccheggio, è dunque contraria al diritto di natura, ma tale diritto di ospitalità, cioè la facoltà dei nuovi arrivati stranieri, non si estende al di là delle condizioni della possibilità di tentare un commercio con gli antichi abitanti. - In questo modo parti remote del mondo possono pacificamente entrare in relazioni reciproche, che da ultimo divengono regolate pubblicamente da leggi [öffentlich gesetzlich], e così possono portare finalmente il genere umano sempre più vicino a una costituzione cosmopolitica [weltbürgerlichen Verfassung].

Se si confronta con ciò la condotta inospitale degli stati di buoni costumi, specialmente di quelli commerciali, della nostra parte del mondo, l'ingiustizia che dimostrano nella visita a paesi e popoli stranieri (che per loro passa per identica alla conquista) arriva fino al terrore. L'America, i paesi dei negri, le isole delle spezie, il Capo etc. alla loro scoperta erano per loro paesi che non appartenevano a nessuno; per loro, infatti, gli abitanti non contavano nulla. Nelle Indie orientali (Hindustan), con la scusa del mero proposito di succursali commerciali, introdussero eserciti stranieri ma con essi anche oppressione [359] degli indigeni, istigazione dei vari stati della regione a guerre ampiamente diffuse, carestia, ribellione, tradimento e così via come prosegue la litania di tutti i mali che opprimono il genere umano.

La China19 e il Giappone (Nippon), che avevano fatto esperienza di tali ospiti, hanno perciò permesso saggiamente l'accesso ma non l'ingresso, nel caso della China e, nel caso del Giappone, l'hanno concesso a un unico popolo europeo, gli Olandesi, che i giapponesi però escludono, come prigionieri, dalla comunità con gli indigeni. A questo proposito il peggio (o il meglio, considerato dal punto di vista di un giudice morale) è che essi non vengono nemmeno fatti contenti da questa violenza, che tutte queste società commerciali stanno sull'orlo del crollo, che le isole dello zucchero, questa sede della schiavitù più atroce e calcolata, non fruttano nessun vero guadagno, bensì servono solo mediatamente e per un intento davvero non molto lodevole, cioè la formazione di marinai per le flotte da guerra, e quindi di nuovo per la conduzione delle guerre in Europa; e questo piacerebbe a quelli che si affaticano molto nella devozione, e mentre bevono iniquità come acqua,20 vogliono essere ritenuti eletti nell'ortodossia.

[360] Ebbene, poiché si è giunti tanto lontano con la comunità (più o meno stretta) ordinariamente prevalsa fra i popoli della terra, che la violazione del diritto in un luogo della terra viene sentita in tutti, allora l'idea di un diritto cosmopolitico [Weltbürgerrecht] non è un modo fantastico e stravagante di rappresentare il diritto, bensì un completamento necessario del codice non scritto tanto del diritto dello stato quanto di quello internazionale [per pervenire] al diritto pubblico degli uomini in generale e così alla pace perpetua, a cui ci si può lusingare di trovarsi in continuo avvicinamento solo a questa condizione.

Primo supplemento

Sulla garanzia della pace perpetua

Ciò che presta questa assicurazione (garanzia) è niente meno che la grande artefice, Natura (natura daedala rerum),21 dal cui corso meccanico visibilmente riluce la finalità di far emergere, attraverso la discordia degli esseri umani, la concordia, anche contro la loro volontà, e perciò si chiama destino come necessitazione di una causa a noi sconosciuta secondo le sue leggi d'efficacia [361], ma, in considerazione della sua finalità nel corso del mondo, come profonda sapienza di una causa superiore, diretta allo scopo finale [Endzweck] del genere umano e predeterminante questo corso del mondo, si denomina provvidenza [362],22 che certo noi non discerniamo propriamente negli apparati d'arte della natura e neppure deriviamo per deduzione da essi, bensì (come in ogni rapporto della forma delle cose a scopi in generale) possiamo e dobbiamo soltanto supporre, per farci un concetto, secondo l'analogia delle attività d'arte umane, della loro possibilità; ma rappresentarsi la sua relazione e concordanza con il fine che la ragione immediatamente ci prescrive (quello morale) è un idea che è certo eccessiva nel rispetto teoretico, ma in quello pratico (per esempio in considerazione del concetto del dovere della pace perpetua, per usare a tale scopo quel meccanismo della natura) è ben fondata dogmaticamente e secondo la sua realtà. - L'uso della parola natura, quando si tratta meramente di teoria (e non di religione), è anche più appropriato per i limiti della ragione umana (che, in considerazione della relazione degli effetti alle cause, deve sempre tenersi nei limiti dell'esperienza possibile) e più moderato dell'espressione di una provvidenza per noi discernibile, con la quale ci si attaccano presuntuosamente ali da Icaro per approssimarci al segreto dei suoi intenti imperscrutabili.

Ora, prima di determinare questa prestazione di garanzia in modo più preciso, sarà necessario ricercare preliminarmente la situazione [Zustand] che la natura ha allestito per i personaggi che interagiscono sul suo grande teatro, la quale rende alla fine necessaria la sua assicurazione di pace [363]; - ma poi innanzitutto il modo in cui essa presta questa assicurazione. Il suo allestimento provvisorio consiste in questo:

  1. per gli esseri umani, ha provveduto che potessero vivere in tutte le regioni della terra;
  2. attraverso la guerra li ha sospinti dovunque, anche nelle regioni più inospitali, per popolarle
  3. attraverso la guerra, appunto, li ha necessitati a entrare in relazioni più o meno legali. -

Che nei deserti freddi sul Mare Glaciale23 cresca ancora il muschio che la renna tira fuori scavando fra la neve, per essere essa stessa il nutrimento o l'animale da tiro dell'Ostiaco o del Samoiedo; o che i deserti sabbiosi salati contengano ancora il cammello, il quale sembra quasi creato per il suo attraversamento, è già mirabile. Ma il fine riluce ancor più chiaramente quando si nota che, sulla riva del Mare Glaciale, oltre agli animali con pelliccia, anche foche, trichechi e balene offrono nutrimento della loro carne e fuoco col loro olio per gli abitanti del luogo. Però la previdenza della natura suscita ammirazione soprattutto per il legname galleggiante che essa apporta (senza che si sappia bene da dove venga) a queste regioni prive di piante, senza il quale materiale non potrebbero preparare né i loro mezzi di trasporto e armi, né le loro capanne di residenza; ove poi sono già abbastanza occupati nella guerra contro le bestie da vivere pacificamente fra di loro. -- Ma ciò che li ha spinti fin lì, è presumibilmente nient'altro che la guerra. Però fra tutti gli animali il primo strumento bellico che gli esseri umani abbiano imparato a domare e rendere domestico durante il tempo del popolamento della terra è il cavallo (infatti l'elefante va collocato nelle epoche successive, cioè del lusso di stati già costituiti), così come l'arte di coltivare certi tipi di erbe, detti cereali, per noi ora non più riconoscibili secondo la loro qualità originaria, e similmente la riproduzione e il miglioramento dei tipi di frutta attraverso il trapianto e l'Innesto (in Europa forse di due specie soltanto, il melo e il pero) poterono svilupparsi solo nella situazione di stati già costituiti, ove c'era una proprietà fondiaria assicurata,- dopo che gli esseri umani, prima in una libertà senza legge, furono riusciti a passare dalla condizione di cacciatori,24 pescatori e pastori alla vita agricola, [364] e vennero allora scoperti sale e ferro, che divennero forse i primi articoli ricercati da ogni parte di un traffico commerciale fra popoli diversi, tramite il quale essi furono condotti per la prima volta in una relazione pacifica l'uno con l'altro e così in accordo, società e pacifico rapporto anche con i popoli più distanti.

Ora, mentre la natura ha provveduto perché gli esseri umani potessero vivere dappertutto sulla terra, ha anche nello stesso tempo dispoticamente voluto che essi dovessero vivere dappertutto, quantunque contro la loro inclinazione, e anche senza che questo dover essere [Sollen] presupponesse un concetto di dovere che li vincolasse a ciò mediante una legge morale, - essa ha scelto bensì la guerra, per riuscire in questo suo scopo. Vediamo cioè popoli che fanno riconoscere l'unità della loro origine dall'unità della loro lingua, come i Samoiedi sul Mare Glaciale, da una parte e dall'altra, nella montagna altaica, un popolo di lingua simile, distante duecento miglia da loro, fra i quali ne è penetrato un altro, e cioè un popolo mongolico a cavallo e quindi guerriero, che ha così disperso quella parte del loro ceppo lontano da questa, nelle regioni glaciali più inospitali, ove certo non si sarebbe diffusa per propria inclinazione25; - e proprio così i Finnici della regione più a nord d'Europa, detti Lapponi, furono separati dagli Ungari, ora altrettanto lontani ma linguisticamente loro affini,[365] da parte di popoli gotici e sarmatici che avevano fatto irruzione fra di loro;26 e che cosa mai può aver spinto gli Eschimesi (forse antichissimi avventurieri europei, una stirpe interamente diversa da tutti gli americani) al nord e i Pescerè27 al sud dell'America fino alla Terra del Fuoco, se non la guerra, di cui la natura si serve come mezzo per popolare la terra dappertutto? La guerra stessa però non ha bisogno di nessun motivo particolare, ma sembra essere radicata nella natura umana e passare addirittura per qualcosa di nobile, a cui l'essere umano è ispirato dall'istinto dell'onore, senza moventi egoistici: così che si giudica (sia da parte dei selvaggi americani, sia di quelli europei ai tempi della cavalleria) immediatamente di grande valore il coraggio bellico non solo se c'è la guerra (come è giusto), bensì anche che la guerra ci sia; essa è spesso cominciata soltanto per darne prova, e quindi alla guerra in sé viene attribuita una dignità intrinseca, tanto che anche i filosofi ne fanno elogio, come se fosse un certo perfezionamento dell'umanità, immemori della massima di quel greco: «La guerra è cattiva perché crea più gente malvagia di quanta ne porti via».28 Tanto basti a proposito di ciò che fa la natura per il suo proprio fine, in considerazione del genere umano come ordine animale.

Ora la questione che concerne l'essenziale dell'intento della pace perpetua è: «Che cosa in questo intento faccia la natura, con riferimento allo scopo che è reso dovere per l'essere umano dalla sua propria ragione, dunque per sostenere il suo intento morale, e come essa presti garanzia che sia assicurato che l'essere umano farà quanto secondo leggi di libertà dovrebbe fare ma non fa, anche con la coercizione della natura malgrado questa libertà, e precisamente secondo tutti e tre i rapporti del diritto pubblico, cioè del diritto dello stato, di quello internazionale e di quello cosmopolitico». Quando io della natura dico: vuole che questo o quello accada, ciò non significa tanto che essa ci impone un dovere di farlo (perché lo può solo la ragion pratica senza coercizione), bensì che lo fa da sé, lo si voglia o no (fata volentem ducunt, nolentem trahunt).29

  1. Anche se un popolo non fosse necessitato da discordie interne a sottomettersi alla coercizione di leggi pubbliche, lo farebbe dall'esterno la guerra, perché, secondo il summenzionato allestimento di natura, ciascun popolo si trova davanti come vicino un altro popolo che lo preme, nei cui confronti si deve costituire internamente a stato per [366] esservi armato contro come potenza. Ora, la costituzione repubblicana è l'unica a essere perfettamente adeguata all'idea del diritto degli esseri umani, ma anche la più difficile da istituire e ancor più da mantenere, tanto che molti affermano che dovrebbe essere uno stato di angeli, perché gli esseri umani, con le loro inclinazioni egoistiche, non sarebbero capaci di una costituzione di forma così sublime. Ma ora la natura viene in aiuto alla volontà universale fondata nella ragione, onorata ma impotente per la prassi, e proprio tramite quelle inclinazioni egoistiche, così che dipende solo da una buona organizzazione dello stato (che è tuttavia nella facoltà degli esseri umani) dirigere le loro forze l'una contro l'altra in modo che l'una freni l'altra nel suo effetto distruttivo, oppure lo elimini: così che per la ragione l'esito è come se entrambe non ci fossero affatto, e l'essere umano viene costretto a assere nondimeno un buon cittadino, sebbene non moralmente buono. Il problema dell'edificazione dello stato, duro come ha l'aria di essere, è risolvibile anche per un popolo di diavoli (purché abbiano intelletto), ed è il seguente: «Si deve dar ordine a una moltitudine di esseri razionali che tutti insieme richiedono leggi universali per la loro conservazione, ma ciascuno dei quali è in segreto incline a sottrarvisi, e la loro costituzione deve essere disposta così che, sebbene essi nelle loro intenzioni private si oppongano l'uno contro l'altro, tuttavia si trattengano a vicenda in modo tale che nel loro comportamento pubblico l'effetto sia proprio come se non avessero tali tendenze malvagie». Un tale problema deve essere risolvibile. Infatti non è il miglioramento morale degli esseri umani, bensì soltanto il meccanismo della natura di cui si tratta di sapere come lo si possa usare, con esseri umani, per indirizzare la contrapposizione delle loro intenzioni ostili, in un popolo, così che esse stesse li necessitino a sottoporsi reciprocamente a leggi coercitive, e in questo modo causino necessariamente la situazione di pace nella quale le leggi hanno vigore. Anche per gli stati effettivamente esistenti, organizzati in modo ancora molto imperfetto, si può vedere che però già si approssimano molto, nel comportamento esterno, a ciò che prescrive l'idea del diritto, sebbene non ne sia sicuramente causa l'interiore della moralità (né, analogamente, ci si deve attendere da esso la buona costituzione statale, bensì, viceversa, ci si deve aspettare innanzitutto da quest'ultima la buona formazione morale di un popolo), e quindi il meccanismo della natura, tramite le inclinazioni egoistiche che per natura si oppongono l'una all'altra anche esternamente, può essere usato dalla ragione come un mezzo [367] per far spazio al suo proprio scopo, la prescrizione giuridica, e pertanto anche per promuovere e assicurare la pace sia interna sia esterna, per quanto dipende dallo stato stesso. - Vale a dire, dunque: la natura vuole irresistibilmente che il diritto alla fine ottenga il potere supremo. Ora, ciò che si trascura di fare, alla fine si fa da sé, sebbene con molto disagio «Se si incurva la canna troppo forte, la si rompe; e chi vuole troppo, non vuole niente» (Bouterwek)30
  2. L'idea del diritto internazionale presuppone la separazione di molti stati confinanti reciprocamente indipendenti; e sebbene una tale situazione sia già di per sé uno stato di guerra (quando una lega confederativa [föderative Vereinigung] non previene lo scoppio delle ostilità), secondo l'idea della ragione è però meglio così che la loro fusione da parte di una potenza che supera le altre e si trasforma in una monarchia universale; perché le leggi, quando l'estensione del governo si accresce, perdono sempre più la loro energia, e un dispotismo senz'anima, dopo aver estirpato i germi del bene, decade alla fine in anarchia. Nondimeno,è desiderio di ogni stato (o del suo capo) assestarsi in questo modo in quella condizione di pace permanente in cui questi domina, se possibile, il mondo intero. Ma la natura vuole altrimenti. - Essa si serve di due mezzi per trattenere i popoli dal mescolarsi e per separarli, la varietà delle lingue e delle religioni,31 che certo porta con sé l'inclinazione all'odio reciproco e pretesti per la guerra, ma conduce pure, con la crescita della cultura e con l'approssimarsi graduale degli esseri umani a una maggiore armonia nei princípi, all'accordo in una pace che non è creata e garantita come quel dispotismo (sul cimitero della libertà) dall'indebolimento di tutte le forze, bensì dal loro equilibrio nella loro più viva competizione.
  3. [368] Come la natura divide sapientemente i popoli che alla volontà di ogni stato piacerebbe unificare sotto di sé con l'astuzia o con la violenza, addirittura secondo princípi del diritto internazionale, così, d'altra parte, essa unifica anche, tramite l'utile reciproco, popoli che il concetto del diritto cosmopolitico non avrebbe garantito contro la violenza e la guerra. È lo spirito del commercio, che non può esistere assieme alla guerra e che presto o tardi si impossesserà di ogni popolo. Poiché, difatti, potrebbe ben darsi che, fra tutti i poteri (mezzi) subordinati a quello dello stato, il potere del denaro fosse il più affidabile, gli stati si vedono sollecitati (tuttavia non certo tramite i moventi della moralità) a promuovere la nobile pace, e, dovunque nel mondo minacci di scoppiare la guerra, ad allontanarla con arbitrati, dunque proprio come se stessero in una alleanza stabile: infatti grandi leghe per la guerra, secondo la natura della cosa, possono aver luogo molto raramente, e ancor più raramente riuscire. - In questo modo la natura garantisce la pace perpetua, proprio attraverso il meccanismo delle inclinazioni umane; tuttavia con una sicurezza che non è sufficiente per profetizzarne (teoreticamente) l'avvenire, ma che basta nell'intento pratico e rende un dovere sforzarsi per questo scopo (che non è semplicemente chimerico).

Secondo supplemento

Articolo segreto per la pace perpetua

In negoziati di diritto pubblico un articolo segreto è oggettivamente, cioè considerato secondo il suo contenuto, una contraddizione; ma soggettivamente, giudicato secondo la qualità della persona che lo detta, può certamente esserci un segreto, che cioè questa trovi pericoloso per la sua dignità annunciarsi pubblicamente come sua autrice.

L'unico articolo di questa specie è contenuto nella proposizione: le massime dei filosofi sulle condizioni di possibilità della pace pubblica devono essere consultate dagli stati armati per la guerra.

Però per l'autorità legislativa di uno stato, a cui bisogna [muß] naturalmente attribuire la più grande sapienza, cercare insegnamento da sudditi (i filosofi) sui principi del suo comportamento nei confronti di altri stati appare disdicevole; ma farlo, nondimeno, [369] assai raccomandabile. Dunque lo stato esorterà tacitamente questi ultimi (facendone quindi un segreto) a insegnare, il che vale a dire: li lascerà parlare liberamente e pubblicamente sulle massime universali della conduzione della guerra e dell'istituzione della pace (perché essi lo faranno già da sé, purché non lo si vieti loro), e su questo punto il mutuo accordo degli stati non ha bisogno di nessuna convenzione particolare a questo proposito, ma sta già nell'obbligazione a opera della ragione umana universale (moralmente legislatrice). - Ma con ciò non si intende che lo stato debba accordar preferenza ai principi del filosofo prima che alle pronunce del giurista (il rappresentante del potere dello stato), bensì solo che lo si ascolti. Il giurista, che si è eretto a simbolo la bilancia del diritto e contemporaneamente anche la spada della giustizia, si serve generalmente della seconda non soltanto semplicemente per tener lontane dalla prima tutte le influenze estranee, bensì, se uno dei piatti non vuole scendere, per metterci dentro anche la spada (vae victis);32 di questo il giurista che non è allo stesso tempo filosofo (anche secondo la moralità) ha la più grande tentazione, perché il suo ufficio è soltanto applicare leggi esistenti, ma non ricercare se queste stesse abbiamo bisogno di un miglioramento, e considera superiore il rango della sua facoltà, in realtà inferiore, perché è accompagnato dal potere (come avviene anche per le altre due33). - Sotto questa forza congiunta, la facoltà filosofica è in un rango assai umile. Così della filosofia si dice per esempio che sia l'ancella della teologia34 (e similmente delle altre due). - Ma non si distingue bene se «alla sua graziosa signora porti davanti la fiaccola o le regga da dietro lo strascico».

Che i re facciano filosofia o i filosofi diventino re35 non c'è da aspettarselo, ma neppure da desiderarlo: perché il possesso del potere corrompe inevitabilmente il giudizio libero della ragione. Che però re e popoli regali (che dominano se stessi secondo leggi di uguaglianza) non facciamo scomparire o ammutolire la classe dei filosofi, ma la lascino parlare pubblicamente, è indispensabile a entrambi per illuminare la loro attività, e, poiché questa classe è secondo la sua natura incapace di cospirazioni e conciliaboli, non è esposta al sospetto di fare propaganda per maldicenza. [370]

Appendice

I. Sulla discordanza fra la morale e la politica nell'intento della pace perpetua

La morale è già in se stessa una pratica in senso oggettivo, come corpus [Inbegriff] di leggi che comandano incondizionatamente, secondo le quali dobbiamo agire, ed è una assurdità palese, dopo che a questo concetto del dovere si è accordata la sua autorità, voler continuare a dire che però non si è in grado di farlo. Infatti in tal caso questo concetto cade da sé dalla morale (ultra posse nemo obligatur);36 perciò non ci può essere un contrasto della politica, come dottrina applicata del diritto, con la morale, sempre come dottrina del diritto, ma teoretica (e quindi non ci può essere un contrasto della pratica con la teoria); si dovrebbe infatti intendere la morale come una generale dottrina della prudenza, cioè una teoria della massime per scegliere i mezzi più adatti ai propri intenti calcolati per il proprio vantaggio, cioè negare che ci sia in generale una morale.

La politica dice «Siate prudenti come serpenti»; la morale aggiunge (come condizione limitante) «e semplici come colombe».37 Se entrambe non possono esistere insieme in un comandamento, è allora effettivamente un contrasto della politica con la morale; ma se invece entrambe devono essere assolutamente congiunte, allora il concetto del contrario è assurdo, e la questione di come sia da appianare quel contrasto non si può nemmeno presentare come problema. Benché il principio l'onestà è la miglior politica contenga una teoria che purtroppo molto spesso contraddice la pratica, il principio, parimenti teoretico, «l'onestà è migliore di ogni politica» è però infinitamente superiore a ogni obiezione, anzi è la condizione indispensabile di quest'ultima. Il dio Termine della morale38 non cede a Giove (il dio Termine del potere); questo, infatti, è ancora sottoposto al destino, cioè la ragione non è abbastanza illuminata per abbracciare con lo sguardo la serie delle cause predeterminanti, che permettono di preannunciare con sicurezza, secondo il meccanismo della natura, l'esito fortunato o sfortunato delle azioni e delle omissioni umane (benché lo lascino sperare in conformità al desiderio). Ma per ciò che si ha da fare per rimanere nel tracciato del dovere (secondo regole di sapienza), e quindi per lo scopo finale, la ragione ci fa ovunque lume con sufficiente chiarezza.

[371] Ora, però, il pratico (per il quale la morale è semplice teoria) fonda propriamente il suo disconoscimento desolato della nostra generosa speranza (anche ammettendo dovere e potere) su questo fatto: che egli pretende di prevedere dalla natura dell'uomo che egli non vorrà mai quanto si richiede per dar luogo a quello scopo che conduce alla pace perpetua. - È però vero che il volere di tutti i singoli esseri umani di vivere in una costituzione legale secondo principi di libertà (l'unità distributiva della volontà di tutti) non è sufficiente a questo scopo, ma si richiede in più la soluzione di un problema difficile, che tutti insieme vogliano questa situazione (l'unità collettiva della volontà unificata), perché la società civile si trasformi in un intero, e, siccome al di sopra di questa varietà del volere particolare di tutti deve sopraggiungere ancora una causa unificante del medesimo, per trar fuori una volontà comune di cui nessuno di loro è capace, allora nell'attuazione di quell'idea (nella pratica) non si può contare su nessun altro inizio della condizione [Zustand] giuridica se non quello per mezzo della forza, sulla cui coercizione si fonda poi il diritto pubblico; ciò allora certamente induce ad aspettarsi già in anticipo grandi deviazioni da quell'idea (della teoria) nell'esperienza effettiva (poiché comunque qui si può tener poco conto dell'intenzione morale del legislatore di rimettere a questo, dopo aver riunito la massa informe in un popolo, l'attuazione di una costituzione giuridica tramite le loro comuni volontà).

Si dice allora: una volta che uno ha il potere in mano, non si farà prescrivere leggi dal popolo. Uno stato, una volta che ha titolo a non essere sottoposto a nessuna legge esterna, riguardo al modo in cui deve perseguire il suo diritto nei confronti di altri stati non vorrà rendersi dipendente dal loro tribunale, e anche una parte del mondo, se si sente superiore a un altra che peraltro non le fa opposizione, non lascerà inutilizzato lo strumento del rafforzamento della propria potenza per mezzo della spoliazione o addirittura dominazione di quest'ultima, e così tutti i piani della teoria per il diritto statuale, per il diritto internazionale e per quello cosmopolitico svaniscono in ideali vuoti di contenuto, inattuabili, mentre potrebbe sperare di trovare un fondamento sicuro per il suo edificio di prudenza politica [Staatsklugheit] solo una pratica che si basa sui principi empirici della natura umana, la quale non considera troppo basso trarre ammaestramento per le sue massime dal modo in cui va il mondo.

[372] Tuttavia, se non c'è una libertà e una legge morale su di essa fondata, ma tutto ciò che avviene o può avvenire è mero meccanismo della natura, allora la politica (come arte di usare tale meccanismo per governare gli esseri umani) è, nella sue interezza, la sapienza pratica, e il concetto del diritto un pensiero vuoto di contenuto. Ma se però si trova indispensabilmente necessario connettere questo concetto alla politica, e anzi elevarlo a condizione limitatrice di quest'ultima, allora si deve ammettere la conciliabilità di entrambi. Ora, io posso certamente pensare un politico morale, cioè un politico che interpreti i princípi della prudenza politica in modo tale che possano consistere con la morale, ma non un moralista politico, che si forgia una morale così come la trova conveniente il vantaggio dello statista.

Il politico morale adotterà come principio questo: una volta che nella costituzione dello stato o nella relazione fra gli stati si trovino vizi che non si sono potuti prevenire, è dovere, specialmente per i capi di stato, di occuparsi del modo in cui, appena possibile, possa essere migliorata e resa più adeguata al diritto naturale, come ci sta a modello davanti agli occhi nell'idea della ragione: anche se dovesse costare sacrifici al loro egoismo. Ora, poiché la lacerazione di un vincolo dell'unione dello stato o dell'unione cosmopolitica prima che una costituzione migliore sia pronta a subentrare al suo posto è contro ogni prudenza politica, concorde, in questo caso, con la morale, sarebbe certo insensato pretendere che quel vizio debba essere modificato subito e con veemenza; ma si può esigere però che almeno la massima della necessità di una tale modifica sia intimamente presente a chi detiene il potere, per rimanere in continua approssimazione allo scopo (della migliore costituzione secondo le leggi del diritto). Uno stato può già governarsi in modo repubblicano, sebbene abbia ancora, secondo la costituzione esistente, un potere sovrano dispotico, finché il popolo non diviene in grado a poco a poco di farsi influenzare dalla semplice idea dell'autorità della legge (proprio come se avesse forza fisica) e si trova capace di una legislazione propria (che si fonda originariamente sul diritto). Se anche si fosse ottenuta in modo contrario al diritto una costituzione più conforme alla legge con la veemenza di una rivoluzione causata dalla cattiva costituzione, neppure allora si dovrebbe più ritener lecito ricondurre il popolo di nuovo a quella vecchia, per quanto chi vi si intromettesse violentemente [373] o d'astuzia, mentre quella è in vigore, sarebbe con diritto soggetto alle pene previste per il sovversivo. Ma per quanto riguarda il rapporto esterno fra stati, non si può pretendere da uno stato che esso debba deporre la sua costituzione, sebbene dispotica (che però è quella più forte rispetto a nemici esterni), finché corre pericolo di essere subito inghiottito da altri stati; quindi, per quel proposito, deve però essere lecito anche il differimento dell'attuazione a una occasione migliore.39

Quindi può sempre darsi che i moralisti dispotizzanti (che sono manchevoli nell'applicazione) contravvengano variamente alla prudenza politica (con misure prese o apprezzate in modo avventato), però in questa loro infrazione contro la natura è inevitabile che l'esperienza li porti a poco a poco su un percorso migliore; invece i politici moralizzanti, tramite il pretesto di principi contrari al diritto, con la scusa di una natura umana incapace del bene secondo l'idea come la prescrive la ragione, rendono il miglioramento impossibile per quanto sta in loro e perpetuano la lesione del diritto.

In luogo della pratica di cui si vantano, questi uomini politicamente prudenti procedono con intrighi, in quanto mirano semplicemente a sacrificare il popolo e, se possibile, il mondo intero, compiacendo il potere al momento dominante (per non mancare ai loro interessi privati), secondo il modo dei giuristi puri (di mestiere, non di legislazione) se si spingono fino alla politica. Infatti, poiché la loro mansione non è sofisticare sulla legislazione stessa, bensì eseguire le norme attuali del diritto locale, per loro ogni costituzione legale esistente al momento, e quella seguente, se viene modificata in sede superiore, deve essere sempre la migliore; perché allora tutto [374] è nel dovuto ordine meccanico. Ma se questa abilità di star ritti su ogni sella instilla loro l'illusione di saper giudicare anche sui principi di una costituzione statale in generale secondo concetti di diritto (quindi a priori e non empiricamente); se si gloriano di conoscere esseri umani (cosa che è certo da aspettarsi, perché hanno a che fare con molti), senza però conoscere l'essere umano e ciò che si può fare di lui (per la qual cosa si esige una superiore prospettiva di osservazione antropologica), ma provvisti di questi concetti, si volgono al diritto dello stato e al diritto internazionale come lo prescrive la ragione, allora non possono compiere questo transito se non con uno spirito capzioso, perché seguono il loro procedimento abituale (quello di un meccanismo secondo leggi coercitive date dispoticamente) anche ove i concetti della ragione vogliono conoscere esclusivamente una coercizione fondata secondo princípi di libertà, tramite la quale innanzitutto è possibile a buon diritto una costituzione statale durevole; problema, questo, che il presunto pratico crede di poter risolvere empiricamente, trascurando quell'idea, in base all'esperienza di come sono state organizzate le costituzioni statali, per quanto per lo più contrarie al diritto. che hanno meglio resistito finora. - Le massime di cui si serve a questo scopo (anche se non le fa diventare note) derivano press'a poco dalle massime sofistiche seguenti:

  1. Fac et excusa. Afferra l'occasione favorevole per una presa di possesso di tua propria autorità (di un diritto dello stato o sul suo popolo, o su uno confinante); la giustificazione si reciterà a fatto compiuto, e la violenza si lascerà scusare (principalmente nel primo caso, in cui la violenza superiore, all'interno, è direttamente anche l'autorità legislativa a cui si deve obbedire senza ragionarci sopra) molto più facilmente e brillantemente che se si volessero prima meditare motivi convincenti e rimanere ad aspettare i contro-argomenti. Proprio questa arroganza dà una certa apparenza di interna convinzione della legittimità dell'atto e il dio bonus eventus40 è in seguito il miglior rappresentante del diritto.
  2. Si fecisti, nega. Del male che tu stesso hai commesso, per esempio per portare il tuo popolo alla disperazione e così alla rivolta, nega che sia colpa tua; bensì afferma che sia colpa dell'indocilità dei sudditi o anche, nell'occupazione di un popolo confinante, della natura dell'essere umano, il quale, se non [375] previene l'altro con la violenza, può sicuramente contare sul fatto che questi preverrà lui e se ne impadronirà.
  3. Divide et impera. Cioè: se nel tuo popolo ci sono certi capi privilegiati che ti hanno eletto semplicemente loro capo supremo (primus inter pares), dividili fra loro e separali dal popolo: sostieni allora quest'ultimo, con la simulazione di una libertà maggiore, e così tutto dipenderà dalla tua volontà incondizionata. O nel caso di stati esteri, eccitare discordia fra loro è un mezzo abbastanza sicuro per sottometterli uno dopo l'altro, con l'apparenza di soccorrere il più debole.

Ora, certamente nessuno si fa raggirare da queste massime politiche; infatti nel complesso sono già generalmente note; né è il caso di vergognarsene, come se l'ingiustizia brillasse troppo chiaramente ai nostri occhi. Infatti le grandi potenze non si vergognano mai davanti al giudizio della gente comune, ma solo l'una di fronte all'altra, ma per quanto concerne quei princípi non li fa svergognare il fatto che diventino pubblici, bensì che falliscano (perché rispetto alla moralità delle massime convengono reciprocamente), così rimane sempre loro l' onore politico su cui possono sicuramente contare, e cioè l'onore dell' estensione della loro potenza, in qualunque modo l'abbiano guadagnata.41

Da tutte queste tortuosità serpentine di una dottrina immorale della prudenza per produrre, da quella di guerra dello stato di natura, la condizione di pace fra gli esseri umani, si chiarisce almeno che [376] questi possono sfuggire al concetto del diritto nelle loro relazioni private tanto poco quanto in quelle pubbliche, e non osano fondare pubblicamente la politica solo sui maneggi della prudenza e rifiutare pertanto ogni obbedienza al concetto di un diritto pubblico (cosa appariscente soprattutto nel concetto di diritto internazionale), bensì lasciano prestare al concetto in sé tutti gli onori dovuti, dovessero pur escogitare cento pretesti e dissimulazioni per eluderlo nella pratica e attribuire a torto l'autorità di essere l'origine e il legame di ogni diritto alla violenza usata con astuzia. - Per por fine a questa sofistica (sebbene non all'ingiustizia che essa pretestuosamente giustifica) e portare gli ambigui rappresentanti dei potenti della terra alla confessione che non è il diritto ma la violenza, per il cui vantaggio essi parlano, ciò da cui prendono il tono, proprio come se essi stessi avessero a questo proposito qualcosa da ordinare, sarà bene svelare l'illusione con cui si inganna se stessi e gli altri, trovare il principio supremo da cui deriva l'intento della pace perpetua e mostrare che ogni male che gli fa ostacolo proviene dal fatto che il moralista politico comincia dove il politico morale giustamente finisce e, subordinando così i principi allo scopo (cioè attaccando i cavalli dietro la carrozza), vanifica il suo stesso intento di mettere la politica d'accordo con la morale.

Per mettere la filosofia pratica d'accordo con se stessa è necessario innanzitutto decidere la questione se nei problemi della ragion pratica [377] si debba cominciare dal suo principio materiale, lo scopo (in quanto oggetto dell'arbitrio), o da quello formale, cioè da quel principio (posto meramente sulla libertà nel rapporto esterno) secondo cui si dice: agisci così che tu possa volere che la tua massima debba diventare una legge universale (qualsiasi sia lo scopo).

Senza nessun dubbio il secondo principio deve precedere; infatti, come principio di diritto, ha una necessità incondizionata, invece il primo è necessitante solo con il presupposto delle condizioni empiriche dello scopo che si propone, cioè della sua attuazione, e se questo fine (per esempio la pace perpetua) fosse anche un dovere, esso stesso dovrebbe però essere stato dedotto dal principio formale delle massime dell'agire esteriore. - Ora, il primo principio, quello del moralista politico (il problema del diritto dello stato, del diritto internazionale e del diritto cosmopolitico) è un semplice problema tecnico (problema technicum), il secondo di contro, come principio del politico morale, per il quale è un problema morale (problema morale), è immensamente diverso nel procedimento per introdurre la pace perpetua, che si desidera non meramente come bene fisico, ma anche come situazione risultante dal riconoscimento del dovere.

Per la soluzione del primo problema, cioè quello della prudenza politica, si richiede molta conoscenza della natura, per usare il suo meccanismo per lo scopo che si ha in animo, e però tutto questo è incerto riguardo al suo risultato in riferimento alla pace perpetua, si considerino l'una o l'altra delle tre partizioni del diritto pubblico. È incerto se il popolo possa essere mantenuto a lungo, all'interno, ubbidente e allo stesso tempo fiorente meglio con la severità o con l'esca della vanità, con il principato di un'unica persona o con l'associazione di più capi, forse anche semplicemente con una nobiltà di ufficio o col potere popolare. Di tutti i modi di governo (escluso l'unico autenticamente repubblicano, che però può venire in mente solo a un politico morale) si hanno nella storia esempi contrapposti. - Ancora più incerto è un presunto diritto internazionale eretto su statuti secondo piani ministeriali, che di fatto è solo una parola senza contenuto e riposa su trattati che contengono al contempo, nell'atto stesso della loro conclusione, la segreta riserva della loro violazione. - Di contro, la soluzione del secondo, cioè il problema della sapienza politica, si impone per così dire da sé, è chiara a ognuno [" id="a378 378] e svergogna ogni artificio, conducendo direttamente allo scopo; se però si tiene presente la prudenza di non trarla precipitosamente, con violenza, bensì approssimarvisi incessantemente secondo la condizione di circostanze favorevoli.

Si dice allora: «perseguite prima il regno della ragion pura pratica e la sua giustizia e il vostro scopo (il beneficio della pace perpetua) vi spetterà da sé».42 Infatti la morale ha in sé di peculiare, precisamente in considerazione dei suoi principi di diritto pubblico (quindi in riferimento a una politica conoscibile a priori) che quanto meno essa subordina il comportamento morale allo scopo proposto, al vantaggio, sia esso fisico o morale, a cui si mira, tanto più però si armonizza in generale a questo; ciò deriva dal fatto che è proprio la volontà generale data a priori (in un popolo o nel rapporto reciproco fra popoli differenti) la quale soltanto determina che cos'è di diritto fra gli esseri umani; ma questa unificazione della volontà di tutti, purché proceda in modo conseguente nell'applicazione, può essere allo stesso tempo, anche secondo il meccanismo della natura, la causa che produrrà l'effetto cui si mira e renderà effettivo il concetto del diritto. È così per esempio una regola fondamentale della politica morale: che un popolo si debba unire in uno stato secondo i soli concetti giuridici di libertà e uguaglianza; e questo principio non si fonda sulla prudenza, bensì sul dovere. Di contro, i moralisti politici possono ben continuare a sofisticare sul meccanismo naturale in una moltitudine di esseri umani che entra in società, il quale indebolirebbe quei principi e frustrerebbe il loro intento, o cercare di dimostrare la loro asserzione con esempi di costituzioni male organizzate di tempi antichi e moderni (per esempio [#democrazia | democrazie senza sistema rappresentativo]), ma non meritano ascolto; principalmente perché una tale teoria nefasta, secondo la quale l'uomo è gettato in una classe con le altre macchine viventi cui mancherebbe solo di essere assistite dalla coscienza di non essere libere per diventare, nel loro proprio giudizio, gli esseri più miserevoli del mondo, provoca essa stessa il male che predice.

La sentenza venuta in circolazione sotto forma di proverbio, che suona certo un po' vanagloriosa ma vera, fiat iustitia, pereat mundus,43 e che in volgare significa “regni la giustizia, dovessero pur perire insieme i farabutti del mondo” è un principio di diritto coraggioso, che [379] taglia tutte le vie contorte disegnate dall'astuzia e dalla violenza; purché non venga interpretato scorrettamente e intesa per esempio come licenza di valersi del proprio diritto con la massima severità (la qual cosa sarebbe in contrasto col dovere etico), anziché come obbligazione dei detentori di potere a non negare o limitare a nessuno il suo diritto per sfavore o per compassione nei confronti di altri; a questo scopo si richiede primariamente una costituzione interna dello stato istituita secondo princípi di diritto puri, ma poi anche la costituzione dell'unione dello stato medesimo con altri stati vicini oppure lontani per un appianamento legale (analogo a uno stato universale) delle loro controversie. - Questa sentenza non vuol dire nient'altro che le massime politiche non devono prendere le mosse dal benessere e dalla felicità di ciascuno stato singolo da aspettarsi dalla loro osservanza, dunque non dallo scopo che ciascuno si produce a oggetto (del volere), come principio supremo (ma empirico) della sapienza politica, bensì dal concetto puro del dovere di diritto (del dover essere il cui principio a priori è dato dalla ragion pura), qualsiasi siano le sue conseguenze fisiche. Il mondo non andrà affatto in rovina perché ci saranno meno malvagi. Il male morale ha la caratteristica, inseparabile dalla sua natura, di essere contrario a se stesso e autodistruttivo nei suoi intenti (principalmente nel rapporto con altri che hanno gli stessi progetti), e così far posto al principio (morale) del bene, anche se con un progresso lento.

Quindi non c'è oggettivamente (nella teoria) nessun contrasto fra la morale e la politica. Di contro, soggettivamente (nell'inclinazione egoistica degli esseri umani, che però, poiché non è fondata su massime di ragione, non deve essere ancora chiamata pratica) rimarrà e può ben rimanere per sempre, perché serve da pietra per affilare la virtù il cui vero coraggio (secondo il principio Tu ne cede malis sed contra audentior ito)44 nel caso presente non consiste tanto nell'opporsi con fermo proposito ai mali e ai sacrifici che ci si deve accollare, bensì nel far fronte al principio cattivo in noi stessi, assai più pericolosamente mendace e perfido, e però sofistico, il quale fa finta che la debolezza della natura umana sia la giustificazione di ogni trasgressione, e nel vincerne la malizia.

[380] Invero il moralista politico può dire: regnante e popolo o popolo e popolo non si fanno ingiustizia l'un l'altro, se si combattono a vicenda con la violenza o con l'insidia, sebbene in generale commettano ingiustizia nel rifiutare ogni rispetto al concetto di diritto, il quale soltanto potrebbe stabilire la pace in eterno. Infatti, poiché l'uno trasgredisce il suo dovere verso l'altro, il quale appunto è analogamente disposto in modo contrario al diritto nei suoi confronti, allora sta bene a entrambi se si eliminano a vicenda, ma così che di questa razza ne rimangano sempre abbastanza da non far cessare questo gioco fino alle epoche più lontane, perché un giorno una tarda posterità tragga da loro un esempio che la metta in guardia. La provvidenza nel corso del mondo è a questo proposito giustificata: infatti nell'essere umano il principio morale non si spegne mai, inoltre la ragione capace di attuare l'idea giuridica secondo quel principio, pragmaticamente, continua a crescere costantemente attraverso una cultura sempre progredente, ma con essa cresce anche la colpa di quelle trasgressioni. La creazione, tuttavia, che cioè in generale ci sia dovuta essere sulla terra una tale specie di esseri corrotti, non appare giustificabile con nessuna teodicea (se assumiamo che per il genere umano la situazione non sarà né potrà mai diventare migliore); ma questa prospettiva del giudizio è per noi troppo alta perché possiamo attribuire i nostri concetti (di sapienza) al potere supremo, per noi imperscrutabile nel rispetto teoretico. - Saremo inevitabilmente sospinti a tali disperate conclusioni se non assumiamo che i principi puri del diritto hanno realtà oggettiva, cioè si possono mettere in atto; e che si debba agire conformemente a essi anche da parte del popolo nello stato e poi da parte degli stati fra loro, obietti pure quel che vuole la politica empirica. La vera politica non può quindi fare un passo senza essersi prima assoggettata alla morale, e sebbene la politica sia di per sé un'arte difficile, la sua congiunzione con la morale non è affatto un'arte; infatti questa recide il nodo che quella non è capace di sciogliere, non appena le due sono in contrasto. - Il diritto degli esseri umani deve essere considerato sacro, anche se costasse grandi sacrifici al potere dominante. Qui non si può fare a metà e non ci si può inventare il termine medio (fra diritto e utile) di un diritto pragmaticamente condizionato, bensì ogni politica deve inginocchiarsi davanti al diritto, ma in compenso può sperare di arrivare, sebbene lentamente, al grado in cui brillerà costantemente. [381]

II. Dell'accordo della politica con la morale secondo il concetto trascendentale del diritto pubblico

Se faccio astrazione da ogni materia del diritto pubblico (secondo le varie condizioni, date empiricamente, degli esseri umani nello stato o anche degli stati fra loro) come l'intendono solitamente i professori di diritto, mi rimane ancora la forma della pubblicità, la cui possibilità è contenuta in sé da ogni pretesa di diritto, perché senza quella non ci sarebbe una giustizia (che può essere pensata solo come suscettibile di essere resa pubblicamente nota) e quindi neppure un diritto, che solo da essa viene conferito.

Ogni pretesa di diritto deve avere questa attitudine alla pubblicità e, poiché si può giudicare molto facilmente se ha luogo in un caso che accade, cioè se si può o no congiungere con i principi di chi agisce, essa può quindi offrire un criterio facile da usare, che si ritrova a priori nella ragione, per riconoscere immediatamente, in questo caso, la falsità (contrarietà al diritto) della suddetta pretesa, quasi con un esperimento della ragion pura.

Secondo una tale astrazione di tutto quello che di empirico contiene il concetto del diritto dello stato e del diritto internazionale (qualcosa di simile è la malvagità della natura umana, che rende necessaria la coercizione), si può chiamare la proposizione che segue formula trascendentale del diritto pubblico:

Tutte le azioni riferite al diritto di altri uomini, la cui massima non sia compatibile con la pubblicità, sono ingiuste.

Questo principio non è da considerarsi come meramente etico (appartenente alla dottrina della virtù) bensì anche come giuridico (riguardante il diritto degli esseri umani). Infatti una massima che non posso far diventare nota senza vanificare allo stesso tempo il mio proprio intento, che deve essere tenuta completamente segreta se vuole riuscire, e che non posso professare pubblicamente, senza provocare immancabilmente la resistenza di tutti contro il mio proposito, non può avere questa opposizione, necessaria e universale e quindi da comprendersi a priori, se non per l'ingiustizia con cui minaccia ognuno. - Questo principio è, in più, meramente negativo, cioè serve solo a riconoscere, per suo tramite, che cosa non è giusto nei confronti di altri. [382] È, similmente a un assioma, certo senza bisogno di dimostrazione, e inoltre facile da applicare, come si può vedere dai seguenti esempi di diritto pubblico.

1. Per quanto concerne il diritto dello stato (ius civitatis), cioè quello interno, ricorre la questione cui molti considerano difficile rispondere, e che il principio trascendentale della pubblicità risolve assai facilmente: “la rivolta è per un popolo un mezzo legittimo per rovesciare il potere oppressivo di un cosiddetto tiranno (non titulo, sed exercitio talis)?45 I diritti del popolo sono offesi e a lui (al tiranno) non viene fatta nessuna ingiustizia con la detronizzazione: su questo non c'è dubbio. Nondimeno è però in sommo grado ingiusto, da parte dei sudditi, perseguire il loro diritto in questo modo e altrettanto poco possono lamentare ingiustizia se dovessero essere perdenti in questo conflitto e poi subire le pene più dure per questo motivo.
Ora, se si vuole stabilire questo con una deduzione dogmatica dei fondamenti giuridici, si può molto sofisticare pro e contro; ma il principio trascendentale della pubblicità del diritto pubblico si può risparmiare questa prolissità. Secondo questo principio, prima dell'istituzione del contratto civile, il popolo stesso si chiede se oserebbe render nota pubblicamente la massima del proposito di ribellarsi quando se ne presenta l'occasione. Si comprende facilmente che, se alla fondazione di una costituzione statale si volesse porre come condizione l'esercitare violenza contro il capo in certe occasioni, il popolo dovrebbe arrogarsi un potere legittimo al di sopra di quello. Ma allora quello non sarebbe il capo, o, se entrambi gli elementi fossero posti come condizione dell'istituzione dello stato, essa non sarebbe affatto possibile, pur essendo l'intento del popolo. L'ingiustizia della rivolta risulta dunque chiara per il fatto che la sua massima renderebbe il proprio intento impossibile, se la si professasse pubblicamente. Quindi la si dovrebbe tenere segreta. - Ma questo, appunto, non sarebbe necessario da parte del capo dello stato. Egli può dichiarare liberamente che punirà ogni rivolta con la morte dei caporioni, anche se questi possono sempre credere che, dal canto suo, egli abbia trasgredito per primo la legge fondamentale; infatti, se è consapevole di possedere un potere supremo irresistibile (che deve essere accolto come tale anche in ogni costituzione civile, perché chi non ha abbastanza potere per proteggere, nel popolo, ciascuno contro l'altro,[383] non ha neppure il diritto di dargli ordini), non deve preoccuparsi di vanificare il suo proprio intento a causa della notorietà della sua massima, con la qual cosa si connette perfettamente anche che, se la rivolta del popolo riuscisse, quel capo dovrebbe retrocedere nella posizione di suddito, e non dovrebbe intraprendere una rivolta per riottenere il suo posto, ma neppure aver da temere di essere trascinato a render conto della sua amministrazione passata.
2. Per quanto concerne il diritto internazionale. - Solo con il presupposto di una qualche situazione giuridica (cioè di quella condizione esterna nella quale all'essere umano può venir effettivamente attribuito un diritto) si può parlare di un diritto internazionale; perché questo, come un diritto pubblico, contiene già nel suo concetto la pubblicazione di una volontà generale che assegna a ciascuno il suo, e questo status iuridicus deve [muß] risultare da un qualche contratto che non ha bisogno [darf] di essere fondato su leggi coercitive (come quello da cui scaturisce lo stato), bensì può [kann] anche essere eventualmente quello di una associazione permanente libera, come quella della summenzionata federalità di stati diversi.46 Infatti, senza una qualche situazione giuridica che colleghi attivamente le varie persone (fisiche o morali), quindi nello stato di natura, non ci può essere nient'altro che un diritto meramente privato. - Ora, qui interviene anche un contrasto della politica con la morale (considerata, questa, come dottrina del diritto), ove quel criterio della pubblicità delle massime trova parimenti una applicazione facile, però solo così che il contratto vincoli gli stati esclusivamente nell'intento di mantenersi in pace l'uno con l'altro e tutti insieme nei confronti di altri stati, ma assolutamente non per fare acquisizioni. - Si verificano allora i casi seguenti di antinomia fra politica e morale, cui si associa nel contempo anche la loro soluzione.
a. «Se uno di questi stati ha promesso qualcosa all'altro, sia una prestazione di aiuto o la cessione di certe terre, o sussidi e simili, e si chiede se, in un caso da cui dipende la salvezza dello stato, si possa liberare dall'impegno perché vuole essere considerato come una persona duplice: in primo luogo come sovrano, che nel suo stato non è responsabile nei confronti di nessuno, e inoltre, d'altra parte, meramente come supremo funzionario dello stato, che debba rendergli conto; da ciò allora deriva la conclusione che da quello a cui si è obbligato nella prima qualità verrà liberato nella seconda.» - Ora, però, se uno stato (o il suo capo) facesse diventare nota questa sua massima, [384] allora naturalmente ogni altro o lo eviterebbe oppure si unirebbe con altri per resistere alle sue pretese, cosa che dimostra che in questa situazione (di franchezza) la politica con tutta la sua sottigliezza vanifica necessariamente da sé il suo scopo e quindi la sua massima deve essere ingiusta.
b. «Se una potenza confinante, cresciuta fino a una grandezza spaventosa (potentia tremenda), suscita preoccupazione, si può presumere che essa vorrà anche essere oppressiva, poiché lo può, e questo dà alle potenze minori il diritto di attaccarla (unite), anche senza precedente offesa?» - Uno stato che volesse render nota la sua massima affermandola provocherebbe soltanto il male in modo più certo e veloce. Infatti la potenza più grande preverrebbe la minore e, per quanto concerne la loro unione, è solo una debole canna contro chi sa usare il divide et impera. - Questa massima della prudenza politica, proclamata pubblicamente, vanifica dunque necessariamente il suo proprio intento ed è perciò ingiusta.
c. «Se uno stato più piccolo interrompe, con la sua posizione, la connessione di uno stato più grande, che però è necessaria a quest'ultimo per la sua conservazione, esso non ha il diritto di assoggettarlo e fonderlo col suo territorio?» - Si vede facilmente che lo stato più grande non deve certo far diventare nota in anticipo una tale massima; infatti o gli stati minori si alleerebbero tempestivamente, o altre potenze si azzufferebbero sul bottino, e quindi essa, con la sua pubblicità, si renderebbe impraticabile da sé; un segno che questa massima è ingiusta e che può esserlo anche in un grado molto alto; perché un oggetto piccolo di ingiustizia non impedisce che l'ingiustizia dimostratavi sia molto grande.
3. Per quanto concerne il diritto cosmopolitico, lo passo qui sotto silenzio perché, a causa della sua analogia col diritto internazionale, le sue massime sono facili da indicare e da apprezzare.

Ora, qui si ha certamente, nel principio dell'inconciliabilità della massime del diritto internazionale con la pubblicità, un buon contrassegno della non concordanza della politica con la morale (come dottrina del diritto). Ma ora si ha anche bisogno di essere istruiti su che cos'è allora la condizione alla quale le sue massime si accordano col diritto internazionale. Infatti non si può dedurre, all'inverso, che le massime che [385] tollerano la pubblicità sono per questo anche giuste; perché chi ha un potere nettamente superiore non ha bisogno47 di far mistero delle sue massime. - La condizione di possibilità di un diritto internazionale in generale è che prima di tutto esista una situazione giuridica. Infatti senza di essa non c'è un diritto pubblico, ma ogni diritto che si può immaginare all'infuori di questo (nello stato di natura) è meramente diritto privato. Ora, abbiamo visto sopra che una situazione federativa degli stati, che ha per intento solo l'eliminazione della guerra, è l'unica condizione giuridica compatibile con la loro libertà. Quindi la concordanza della politica con la morale è possibile solo in una unione federativa (che dunque è data secondo principi giuridici a priori e necessaria) e ogni prudenza politica ha per base giuridica la sua istituzione nella più ampia estensione possibile, senza il quale fine tutto il suo acume è insipienza e velata ingiustizia. - Ora, questa pseudopolitica ha la sua casistica,48 a dispetto della migliore scuola gesuitica – la reservatio mentalis; nella redazione di pubblici trattati con espressioni tali che all'occasione si possano interpretare a proprio vantaggio (per esempio la distinzione fra status quo de fait e de droit); - il probabilismo di ritrovare astutamente intenti malvagi in altri o anche fare della verosimiglianza del loro predominio possibile il fondamento giuridico per insidiare altri stati pacifici; - infine il peccatum philosophicum (peccatillum, bagatella): ritenere una minuzia facilmente scusabile il fagocitare uno stato piccolo, se uno stato molto più grande ne trae profitto, per un presunto maggior bene mondiale.49

A questo scopo, un ausilio è dato dalla duplicità della politica, in considerazione della morale, di usare per il proprio intento l'uno o l'altro ramo della morale stessa. È dovere sia l'amore per gli esseri umani, sia il rispetto per il loro diritto, ma il primo è un dovere solo condizionato, l'altro invece è incondizionato e comanda il modo assoluto, e chi si vuole abbandonare al dolce sentimento della beneficenza [386] deve prima essersi pienamente assicurato di non averlo trasgredito. Con la morale nel primo senso (come etica) la politica si accorda facilmente per abbandonare il diritto degli esseri umani a chi sta sopra di loro; ma con la morale nel secondo significato (come dottrina del diritto), davanti alla quale dovrebbe inginocchiarsi, trova opportuno non trattare affatto, negarle piuttosto ogni realtà e interpretare tutti i doveri come pura benevolenza; la quale perfidia di una politica che fugge la luce verrebbe però facilmente vanificata, con la pubblicità di quelle sue massime, dalla filosofia, se quella soltanto volesse arrischiarsi a concedere al filosofo la pubblicità delle sue.

A questo intento, propongo un altro principio del diritto pubblico, trascendentale e affermativo, la cui formula sarebbe questa:

Tutte le massime che hanno bisogno della pubblicità (per non fallire il loro scopo) si accordano congiuntamente con il diritto e con la politica.

Infatti, se possono conseguire il loro scopo solo mediante la pubblicità, allora devono necessariamente [müssen] essere conformi allo scopo generale del pubblico (la felicità), concordare col quale (renderlo contento della sua situazione) è il compito autentico della politica. Ma se questo scopo deve [soll] essere conseguibile solo mediante la pubblicità, cioè mediante l'eliminazione di ogni diffidenza nei confronti delle sue massime, esse devono necessariamente essere in armonia anche con il diritto del pubblico; infatti in questo soltanto è possibile l'unione degli scopi di tutti. - Devo differire l'ulteriore esposizione e discussione di questo principio per un'altra occasione; solo, che si tratti di una formula trascendentale è da desumere dalla rimozione di tutte le condizioni empiriche (della dottrina della felicità), come materia della legge e dal mero riguardo alla forma della legalità universale.

Se è dovere, se c'è nello stesso tempo una fondata speranza di rendere effettuale la situazione di un diritto pubblico, anche se solo in una approssimazione che procede all'infinito, la pace perpetua che viene dopo quelli che finora sono stati erroneamente detti trattati di pace (propriamente, armistizi) non è un'idea vuota, ma un problema che, risolto a poco a poco, si avvicina costantemente alla sua meta (perché i tempi in cui avvengono progressi uguali diventano sperabilmente sempre più brevi).


Note

  1. Il saggio fu pubblicato per la prima volta a Koenigsberg nel 1795 per i tipi del libraio-stampatore Friedrich Nicolovius che nel 1796, ne produsse una seconda edizione arricchita dell' Articolo segreto. I riferimenti numerici fra parentesi nel testo riguardano il volume VIII dell' Akademie-Ausgabe (http://korpora.org/Kant/aa08/.
  2. "Clausola di salvaguardia": si tratta di una clausola contrattuale la quale permette di conservare la validità della parte restante del contratto, qualora una sua disposizione risulti invalida. [N.d.T.]
  3. Un regno ereditario non è uno stato che possa essere trasmesso in eredità da un altro stato, bensì uno stato sul quale il diritto a governare può essere trasmesso in eredità a un'altra persona fisica. Lo stato acquista allora un capo di stato, e non questi come tale (cioè come chi già possiede un altro regno) lo stato.
  4. Si veda, su questo termine tecnico della teologia morale, la | parte dell'annotazione dedicata al V articolo preliminare. [N.d.T.]
  5. Se, oltre al precetto (leges praeceptivae) e al divieto (leges prohibitivae), ci possano essere anche leggi permissive (leges permissivae) della ragion pura si è finora non senza motivo dubitato. Infatti le leggi in generale contengono un principio della necessità oggettiva pratica, ma il permesso un principio della contingenza pratica di certe azioni; quindi una legge permissiva conterrebbe la necessitazione a un'azione relativamente a una cosa a cui non si può essere necessitati, il che, se l'oggetto della legge avesse un medesimo senso nell'uno e nell'altro rapporto, sarebbe una contraddizione. - Ma in questo caso, nella legge permissiva, il divieto presupposto si riferisce solo alla modalità di acquisizione futura di un diritto (a esempio per eredità), mentre l'esenzione da questo divieto, cioè il permesso, allo stato di possesso presente; quest'ultimo, nella transizione dallo stato di natura a quello civile, può ancora continuare ulteriormente, come un possesso per quanto non conforme al diritto tuttavia onesto (possessio putativa) secondo una legge permissiva del diritto naturale, sebbene un possesso putativo, appena è stato riconosciuto come tale, sia proibito nello stato di natura, proprio come un simile modo di acquisizione lo è in quello civile successivo; questa facoltà di persistere nel possesso non avrebbe luogo se una tale acquisizione presunta fosse avvenuta nello stato civile; infatti essa, in quanto lesione, dovrebbe cessare subito dopo la scoperta della sua illegittimità. Con questo ho voluto attirare solo incidentalmente l'attenzione dei maestri del diritto naturale sul concetto di una lex permissiva, che si presenta da sé a una ragione la quale faccia partizioni in modo sistematico; specialmente perché nella legge civile (statutaria) se ne fa talvolta uso, soltanto con la differenza che la legge di divieto sta da sé, mentre il permesso non viene introdotto in quella legge in quanto condizione restrittiva (come dovrebbe), ma è rigettato fra le eccezioni. - Si dice allora: questo o quello è proibito, a eccezione del numero 1, 2, 3 e così via a perdita d'occhio – i permessi si aggiungono alla legge solo in modo casuale, non secondo un principio bensì andando in giro a tentoni fra i casi che succedono; perché, altrimenti, avrebbero dovuto essere assieme introdotte, nella formula della legge di divieto, le condizioni, per la quali essa sarebbe divenuta nello stesso tempo una legge permissiva. - È dunque da deplorare che l'ingegnoso tema del concorso a premi del sapiente quanto acuto conte di Windischgrätz, che sollecitava proprio su quest'ultima questione, sia stato abbandonato così presto. Infatti la possibilità di una tale formula (simile a quelle matematiche) è l'unica autentica pietra di paragone di una legislazione che rimanga conseguente, senza la quale il cosiddetto ius certum resterà sempre un pio desiderio. - Altrimenti si avranno leggi meramente generali (che valgono in generale) ma non universali (che valgono universalmente), come pure sembra esigere il concetto di una legge.
  6. Cioè: abbia richiesto al vicino la sicurezza della pace che si può aver soltanto in una condizione legale, ma non l'abbia ottenuta. [N.d.T.]
  7. Si assume comunemente che non si dovrebbe operare in modo ostile contro nessuno se non quando ci ha già attivamente leso, e ciò è pure del tutto giusto, quando entrambi sono in uno stato [Zustand] civile-legale. Infatti, l'uno, per il fatto di essere entrato in tale stato, offre all'altro la sicurezza richiesta (mediante l'autorità che ha vigore su entrambi). - Ma l'essere umano (o il popolo) nel semplice stato di natura mi toglie questa sicurezza, e mi lede già proprio tramite questo stato [Zustand], essendo accanto a me, sebbene non attivamente (facto) tuttavia attraverso la mancanza di legge della sua condizione (statu iniusto) per la quale io sono continuamente minacciato da lui, e lo posso costringere o a entrare con me in uno stato [Zustand] comunitario-legale o a ritrarsi dalla mia vicinanza. - Dunque il postulato che sta a fondamento di tutti gli articoli seguenti è: Tutti gli esseri umani che si possono influenzare reciprocamente l'un l'altro devono appartenere a una qualche costituzione civile. Ma ogni costituzione giuridica è, per quanto concerne le persone che vi si trovano:
    1. quella secondo il diritto civile statale degli esseri umani in un popolo (ius civitatis)
    2. quella secondo il diritto internazionale degli stati in relazione reciproca (ius gentium)
    3. quella secondo il diritto cosmopolitico, nella misura in cui esseri umani e stati, essendo in una relazione esterna di influenza reciproca sono da considerarsi come cittadini di uno stato universale degli esseri umani (ius cosmopoliticum)
    Questa suddivisione non è arbitraria, ma necessaria in rapporto all'idea della pace perpetua. Infatti se solo uno di questi fosse, rispetto all'altro. nella relazione di influenza fisica, e però nella condizione di natura, vi sarebbe allora connesso lo stato di guerra, affrancarsi dal quale è qui appunto l'intento.
  8. La libertà giuridica (quindi esterna) non può essere definita, come si usa fare, tramite la facoltà “di fare tutto quello che si vuole, purché non si faccia ingiustizia (Unrecht) a nessuno” Infatti che vuol dire facoltà? La possibilità di un'azione, nella misura in cui con essa non si fa ingiustizia a nessuno. Dunque la definizione di una facoltà suonerebbe così: “Non si fa nessun torto (e si può pur fare quel che si vuole) quando non fa nessun torto”, perciò una vuota tautologia. - Invece la mia libertà esterna (giuridica) è da definirsi così: è la facoltà di non obbedire a nessuna legge esterna, se non a quella cui avrei potuto dare il mio assenso. - E allo stesso modo è uguaglianza esterna (giuridica) quella relazione dei cittadini in uno stato, secondo la quale nessuno può vincolare giuridicamente l'altro, senza che contemporaneamente si sottometta alla legge dalla quale può anche esser reciprocamente vincolato al medesimo modo. (Del principio della dipendenza giuridica, poiché sta già nel concetto di una costituzione politica, non occorre nessuna definizione). La validità di questi diritti innati, necessariamente inerenti all'umanità e inalienabili è confermata e accresciuta attraverso il principio delle relazioni giuridiche dello stesso essere umano con enti superiori (se ne concepisce di tali), in quanto egli si rappresenta, proprio secondo i medesimi princípi, anche come cittadino di un mondo sovrasensibile. - Infatti, per quel che concerne la mia libertà, anche riguardo alle leggi divine da me conoscibili con la semplice ragione, non ci può essere nessuna obbligatorietà, se non nella misura in cui io stesso abbia potuto darvi il mio assenso (perché io mi faccio innanzitutto un concetto della volontà divina tramite la legge di libertà della mia propria ragione). Per ciò che concerne il principio dell' uguaglianza, riguardo all'ente mondano più sublime dopo Dio che io possa forse concepire (un grande eone), non c'è motivo perché, se io faccio il mio dovere nella mia posizione, come quell'eone nella sua, a me debba spettare solo il dovere di obbedire, mentre a quello il diritto di comandare. Il motivo per il quale questo principio dell'uguaglianza non si addice (come quello della libertà) anche alla relazione con Dio è questo: perché questo ente è l'unico presso il quale il dovere cessa. Ma per quel che concerne il diritto all'uguaglianza di tutti i cittadini come sudditi, la risposta alla questione dell'ammissibilità della nobiltà ereditaria dipende soltanto da questo: “se il rango (di un suddito al di sopra di un altro) concesso dallo stato debba procedere il merito, o questo debba andare innanzi a quello”. È chiaro, ora, che se il rango è connesso con la nascita, è del tutto incerto se ne seguirà anche il merito (competenza e fedeltà negli uffici); quindi è come se esso fosse concesso al beneficiato (dall'essere comandante) senza nessun merito; cosa che la volontà generale del popolo non concluderà mai in un contratto originario (che pure è principio di ogni diritto). Infatti un nobiluomo non è immediatamente per questo un uomo nobile. - Per quanto concerne la nobiltà di ufficio (come si potrebbe chiamare il rango di una magistratura superiore e che ci si dovrebbe acquistare col merito), il rango non aderisce, come proprietà, alla persona, bensì alla posizione, e l'uguaglianza non ne viene lesa; perché, quando quello si dimette dal suo ufficio, depone contemporaneamente il rango e rientra fra il popolo.-
  9. Si sono biasimati i titoli solenni che vengono spesso attribuiti a un sovrano (quelli di unto del Signore, di ministro della volontà divina sulla terra e di vicario della medesima) in quanto adulazioni grossolane che fanno venire le vertigini; ma, mi pare, senza motivo. Lungi dal dover insuperbire il signore del paese, essi lo devono anzi mortificare nella sua anima, se ha intelletto (cosa che si deve pur presumere) e si considera che egli si è accollato un ufficio che è troppo grande per un essere umano, cioè il più santo che Dio ha sulla terra, amministrare il diritto degli uomini, e deve in ogni momento avere la preoccupazione di non essersi da qualche parte avvicinato troppo a questa pupilla di Dio.
  10. Mallet du Pan, nel suo linguaggio roboante di genio, ma vacuo e vuoto di contenuti, vanta di essere finalmente arrivato, dopo una esperienza pluriennale, a convincersi della verità della massima di Pope «lascia gli scemi a contendere sul miglior governo: il migliore è quello meglio diretto» [«For forms of government let fools contest;/Whate'er is best administer'd is best»]. Se ciò deve voler dire “il governo meglio diretto è meglio diretto”, allora egli, come direbbe Swift, ha schiacciato con i denti una noce che lo ha ricompensato con un verme; ma se deve anche significare che è anche il miglior modo di governo, cioè la migliore costituzione politica, allora è completamente falso; infatti esempi di governi buoni non provano nulla sul modo di governo. - Chi ha governato meglio di un Tito e di un Marco Aurelio? Eppure l'uno lasciò come successore un Domiziano, l'altro un Commodo; cosa che non sarebbe potuta accadere in una buona costituzione politica, perché la loro inadeguatezza a questo incarico fu nota abbastanza presto e la potenza del sovrano era anche sufficiente a escluderli.
  11. Avevo inizialmente scelto di tradurre le espressioni Staatsbürgerrecht, Völkerrecht, Weltbürgerrecht, sistematizzate nella nota all'inizio della seconda sezione, in maniera letterale, come diritto civile statale, diritto dei popoli, diritto civile mondiale. Il diritto dei popoli di cui parla Kant è, come già precisato dallo nota in questione, lo ius gentium o diritto internazionale. La traduzione letterale aveva il vantaggio di mettere in evidenza che la parola Bürger (che nei composti si rende come "civile") è presente soltanto nel diritto pubblico interno e nel diritto cosmopolitico. Sono successivamente tornata sui miei passi per non ingenerare equivoci rispetto a una consuetudine di traduzione ormai consolidata. [N.d.T.]
  12. Kant parla qui di Bund nel senso attuale di confederazione. Ho scelto tuttavia il più generico "lega" per rendere più fedelmente la faticosità del testo: il filosofo sta infatti girando attorno a due concetti -federazione e confederazione - per i quali non disponeva ancora di parole. Tanto è vero che successivamente egli designa come Gesellschaftsbund (356) l'unione dei singoli individui in una società civile, che non ha affatto natura confederale. [N.d.T.]
  13. Così rispose un principe bulgaro all'imperatore greco che voleva comporre amichevolmente la sua contesa con lui tramite un duello: «Un fabbro che ha delle tenaglie non toglierà il ferro rovente dai carboni con le mani».
  14. Kant si riferisce a Giobbe, 16.2, che nella traduzione di Lutero suona: «Ich habe vieles dergleichen gehört; leidige Tröster seid ihr alle!». Gli amici di Giobbe cercavano di consolarlo dicendogli che, se aveva tante disgrazie, doveva pur aver fatto qualcosa per essersele meritate; Giobbe rispose loro chiamandoli consolatori fastidiosi o molesti (leidige Tröster), perché cercavano di trarre un diritto dal mero fatto. In una situazione in cui ciascuno stato sovrano è giudice in causa propria, il diritto fra gli stati verrà fatto valere tramite la guerra, che decreterà semplicemente la vittoria del più forte, a meno che il diritto stesso non venga confuso, alla maniera degli amici di Giobbe, con il mero fatto. [N.d.T.]
  15. Da Cesare, De bello gallico, I, 36 «Ariovistus respondit: ius esse belli ut qui vicissent iis quos vicissent quem ad modum vellent imperarent», cioé «Ariovisto risposte che è diritto che coloro i quali hanno vinto comandino ai vinti nel modo che vogliono»; oppure da Plutarco, Camillus, XVII.
  16. È una citazione a memoria da Eneide, I 294-96, riferita all'episodio in cui Giove promette a Venere un futuro Augusto che porterà la pace nel mondo, incatenando Furor, personificato in forma di divinità: "L'empio Furore dentro [...] ringhierà orribile con la bocca insanguinata". [N.d.T]
  17. Dopo una guerra finita, alla conclusione della pace, per un popolo non sarebbe inappropriato che fosse indetto un giorno di penitenza dopo la celebrazione di ringraziamento, allo scopo di invocare mercé dal cielo, in nome dello stato, per la grande colpa che il genere umano commette sempre di nuovo, di non volersi sottomettere, nel rapporto con altri popoli, a una costituzione legale, ma, fiero della sua indipendenza, far uso piuttosto del barbarico mezzo della guerra (attraverso la quale però non si attua ciò che si cerca, cioè il diritto di uno stato). - Le feste di ringraziamento in tempo di guerra per una vittoria conquistata con le armi, gli inni che (in buon israelitico) si cantano al Signore degli eserciti stanno in un contrasto non meno forte con l'idea morale del padre degli esseri umani; perché, oltre all'indifferenza nei confronti del modo in cui i popoli cercano il loro reciproco diritto (che è abbastanza triste), apportano in più la gioia di aver distrutto a buon diritto molti uomini o la loro fortuna.
  18. Gastrecht ha qui il senso di ius hospitii o xenia (nella tradizione greca): il vincolo di ospitalità derivava da una dichiarazione formale, era ereditario e dava a ciascuna parte il diritto a essere accolta e protetta dall'altra. [N.d.T.]
  19. Per scrivere questo grande impero con il nome con cui esso stesso si denomina (cioè China, non Sina o un suono simile a questo, si deve solo cercare nell' Alphabetum Tibetanum di Georgius, pp. 651-654 [si tratta del primo dizionario e grammatica della lingua tibetana stampato in Europa, scritto dal padre agostiniano Antonio Agostino Giorgi, Alphabetum Tibetanum missionum apostolicarum commodo editum, Roma, 1762 (N.d.T.)], specialmente alla nota b a piè di pagina. - Propriamente, secondo l'osservazione del professor Fischer di Pietroburgo [Johann Eberhard Fischer, Quaestiones petropolitanae, III: De variis nominibus imperii Sinarum, 1770 (N.d.T.)], non porta nessun nome determinato con cui denomina se stesso; il più consueto è ancora quello della parola Kin, cioè oro (che i tibetani esprimono con Ser) e da qui l'imperatore viene detto re dell' oro (del più splendido paese del mondo), la quale parola nell'impero suona probabilmente appunto come Chin, ma che può essere pronunciata come Kin dai missionari italiani (a causa della lettera gutturale). - Da ciò si desume allora che il paese dei Seri, così detto dai romani, era la China, ma la seta era spedita in Europa attraverso il Grande Tibet (presumibilmente per il Piccolo Tibet e la regione di Bukhara attraverso la Persia e così via), la qual cosa conduce a qualche riflessione sull'antichità di questo stato sorprendente, a confronto con quella dell'Hindustan, nel collegamento con il Tibet e, attraverso questo, con il Giappone; mentre il nome Sina o Cina che i vicini darebbero a questo paese, non porta a nulla. -- Forse si può spiegare anche la relazione antichissima, per quanto mai conosciuta bene, dell'Europa col Tibet sulla base di ciò che Esichio ha conservato per noi, cioè il grido Κoνξ 'Oμπαξ (Konx Ompax) dello ierofante nei misteri eleusini (v. Viaggi del giovane Anacarsi, V parte, pp. 447 ss,). - Infatti secondo l' Alphabetum Tibetanum di Georgius la parola Concioa, che ha una impressionante somiglianza con Konx, significa Dio; Pah-cio (ibidem, p. 520), che dai Greci poteva facilmente essere pronunciata come pax, significa promulgator legis, la divinità diffusa per tutta la natura (detta anche Cenresi, p. 177). Om però, che La Croze traduce con benedictus, benedetto, applicato alla divinità non può significare nient'altro che colui che è lodato in quanto beato (p. 507). Ora, poiché il padre Franciscus Horatius dai lama tibetani a cui spesso domandava che cosa intendessero con la parola Dio (Concioa) riceveva sempre la risposta «è la riunione di tutti i santi» (cioè delle anime beate ritornate finalmente nella divinità attraverso la rinascita lamaica, dopo molte migrazioni per corpi d'ogni specie, tramutate in Burchane, cioè in esseri degni di adorazione, p. 223), allora quella parola misteriosa, Konx Ompax, dovrà certamente significare l'essere supremo, santo (Konx), beato (Om) e sapiente (Pax), diffuso dappertutto nel mondo (la natura personificata), e, usato nei misteri greci, avrà certo alluso al monoteismo per gli iniziati, in contrasto col politeismo del popolo; per quanto padre Horatius (nel luogo citato sopra) in questo senta odore di ateismo. - Ma come quella parola segreta sia pervenuta ai greci attraverso il Tibet si può spiegare nel modo suddetto e per converso tramite questo fatto si può rendere verosimile anche il precoce commercio dell'Europa con la China attraverso il Tibet (forse ancor prima che con l'Hindustan).
  20. «Unrecht wie Wasser trinken» è una parafrasi (non colta né da Solari né da ) da Giobbe 15.16. Nella traduzione di Lutero; «Was ist ein Mensch, daß er sollte rein sein, und daß er sollte gerecht sein, der von einem Weibe geboren ist? 15 Siehe, unter seinen Heiligen ist keiner ohne Tadel, und die im Himmel sind nicht rein vor ihm. 16 Wie viel weniger ein Mensch, der ein Greuel und schnöde ist, der Unrecht säuft wie Wasser» («Che è mai l'uomo per esser puro, per esser giusto, egli che è nato da una femmina? 15 Ecco, fra i suoi santi non ce n'è nessuno senza biasimo, e quelli in cielo non sono puri davanti a lui; 16 quanto meno lo è l'uomo, che è abominevole e vile, che tracanna iniquità come acqua!») [N.d.T.]
  21. Citazione da Lucrezio, De rerum natura, V.234 «quando omnibus omnia large / tellus ipsa parit naturaque daedala rerum» («giacché la terra stessa e la natura artefice della realtà genera abbondantemente tutto a tutti»). La natura celebrata nel poema lucreziano era, secondo le tesi della filosofia di Epicuro, indifferente agli esseri umani e completamente aliena da ogni genere di provvidenza. La scelta di una simile citazione suggerisce che l'invocare la natura - questa natura - come garante abbia un senso sanguinosamente ironico. [N.d.T.]
  22. Nel meccanismo della natura, a cui l'essere umano (in quanto essere sensibile) coappartiene, si mostra, già a fondamento dell'esistenza di quest'ultima, una forma, che non possiamo renderci comprensibile altrimenti che attribuendole il fine di un autore del mondo il quale la predetermina, la cui predeterminazione denominiamo in generale provvidenza (divina), e, in quanto è posta al principio del mondo chiamiamo fondante (providentia conditrix; semel iussit, semper parent, Agostino) [è in realtà Seneca, Dialogorum liber I, V 8 «ordinò una volta, ubbidiscono sempre»; Kant ha alterato il senechiano semper paret, semel iussit. N.d.T.], ma diciamo provvidenza governante (providentia gubernatrix), nel corso della natura, il mantenimento di questo secondo leggi universali di finalità; la chiamiamo inoltre provvidenza conduttrice (providentia directrix) quando è rivolta a fini particolari, ma non prevedibili dall'essere umano, bensì supposti soltanto sulla base dell'accaduto, e finalmente, riguardo a eventi particolari come fini divini non la denominiamo più provvidenza, bensì destinazione (directio extraordinaria), che però voler riconoscere come tale (poiché di fatto indica miracoli, sebbene gli eventi non siano chiamati così) è sciocca presunzione dell'essere umano; perché dedurre da un singolo evento un principio particolare della causa efficiente (che questo evento sia scopo e non semplicemente conseguenza meccanico-naturale accessoria di un altro scopo a noi del tutto sconosciuto) è insensato e arrogante, per quanto devota e umile possa suonare la lingua qui sopra. - Analogamente, è scorretta e autocontraddittoria anche la suddivisione della provvidenza (considerata materialiter), secondo il modo in cui passa sugli oggetti del mondo, in universale e particolare (per esempio, che essa si preoccupi certamente della conservazione dei generi delle creature, ma abbandoni gli individui al caso); infatti è detta universale proprio perché nessuna cosa singola venga pensata come da essa esclusa. - Qui ci si riferiva, probabilmente, alla suddivisione della provvidenza (considerata formaliter) secondo il modo di attuazione del suo intento: cioè in ordinaria (per esempio la morte e la rinascita annuale della natura secondo il cambio delle stagioni) e straordinaria (per esempio, il trasporto sulle coste polari, a causa delle correnti marine, di legna che non può crescere in quei luoghi, per i loro abitanti, che non potrebbero vivere senza); in questo caso, pur essendo in grado di spiegarci bene la causa fisico-meccanica di questi fenomeni (per esempio, in virtù delle rive ricoperte di boschi dei fiumi dei paesi temperati, dentro cui cadono quegli alberi e vengono trascinati via per caso dalla corrente del Golfo), non dobbiamo tuttavia trascurare neppure la causa teleologica, che indica la precauzione di una sapienza che regna sulla natura. - Ma deve essere lasciato cadere ciò che concerne il concetto, in uso nelle scuole, di una adesione divina, o di una cooperazione (concursus) a un effetto nel mondo sensibile. Infatti, voler accoppiare il dissimile (gryphes jungere equis) ["aggiogare grifoni insieme a cavalli", da Virgilio, Ecloga ottava, 27 (N.d.T.)] e fare in modo che chi è in sé la causa completa dei cambiamenti integri la sua propria provvidenza predeterminante durante il corso del mondo, dire per esempio che subito dopo Dio il medico ha risanato l'ammalato, dunque ha partecipato come aiuto, è in primo luogo in sé contraddittorio. Infatti causa solitaria non iuvat: Dio è l'autore del medico con tutti i suoi farmaci, e quindi, se pur si vuole ascendere al fondamento primo supremo, per noi teoreticamente inconcepibile, l'effetto deve essere attribuito interamente a lui. Oppure lo si può anche attribuire interamente al medico, nella misura in cui si indaga su questo evento come spiegabile secondo l'ordine della natura nella catena delle cause mondane. In secondo luogo, un tale modo di pensare fa perdere tutti i principi determinati per il giudizio di un effetto. Ma nell'intento pratico-morale (che dunque è rivolto interamente al sovrasensibile), per esempio nella fede che Dio integrerà la deficienza della nostra giustizia, se solo la nostra intenzione è schietta, anche con mezzi per noi inconcepibili, e quindi non dobbiamo affatto allentare la tensione verso il bene, il concetto del concorso divino è del tutto appropriato e perfino necessario; qui però si capisce da sé che nessuno deve tentare di spiegare una buona azione (come evento nel mondo), la qual cosa sarebbe una pretesa conoscenza teoretica del sovrasensibile, e perciò insensata.
  23. Eismeer è un termine geografico: Kant si sta ovviamente riferendo al Mar Glaciale Artico. [N.d.T.]
  24. Fra tutti i modi di vivere quello di caccia è senza dubbio il più contrario alla costituzione costumata; perché le famiglie, che devono allora diradarsi, presto diventano reciprocamente estranee e, sparpagliate perciò in estese foreste, anche presto ostili, in quanto ciascuna ha bisogno di molto spazio per procurarsi da mangiare e da vestire. Il divieto del sangue fatto a Noè in Genesi, IX.4-6 (che, reiterato diverse volte, fu in seguito imposto come condizione, sebbene in altro riguardo, dai giudeo-cristiani ai cristiani neoconvertiti dal paganesimo, Atti degli Apostoli, XV.20 e XXI.25) sembra in origine essere stato null'altro che il divieto di vivere da cacciatore; perché in questo caso si deve presentare spesso l'occasione di mangiare carne cruda, con quest'atto viene proibita nello stesso tempo anche questa vita.
  25. Si potrebbe chiedere: se la natura ha voluto che queste coste polari non dovessero restare disabitate, che sarà dei loro abitanti se a un certo punto (come ci si deve aspettare) essa non porterà più legname galleggiante? Infatti si deve credere che, con l'avanzamento della cultura, gli abitanti delle zone temperate useranno meglio il legname che cresce sulle rive dei loro fiumi e non lo lasceranno cadere in acqua e scorrere via nel mare. Io rispondo: gli abitanti dei fiumi Ob, Yenisei, Lena e così via se lo procureranno col commercio e per ottenerlo scambieranno i prodotti del regno animale di cui il mare sulle coste polari è così ricco; a condizione che la natura li abbia innanzitutto costretti alla pace fra di loro.
  26. Kant sta parlando delle lingue del gruppo uralico, i cui sottogruppi ugro-finnico e samoiedo hanno una caratteristica distribuzione a ponte tra l'Asia nordoccidentale, dove risiede il baricentro della famiglia (samoiedo settentrionale e meridionale), e l'Europa settentrionale (lingue baltofinniche), con un cuneo in Europa centrale (ungherese). Questa distribuzione, intervallata da vaste aree linguistiche diverse, riflette la storia degli spostamenti dei popoli che le parlavano e illustra adeguatamente il punto di Kant. Per una mappa a colori si veda <http://en.wikipedia.org/wiki/Finno-Ugric_languages>. Vale la pena notare che la parentela fra l'ungherese e il lappone era stata dimostrata dall'opera del teologo ed astronomo ungherese János Sajnovics (Demonstratio idioma Ungarorum et Lapponum idem esse, 1770). Per approfondire, si rinvia a M. Barbera, Introduzione alla linguistica generale. [N.d.T.]
  27. Si tratta degli indigeni della Terra del Fuoco, ora pressoché estinti, che l'esploratore francese Louis-Antoine de Bougainville (Voyage autour du Monde, 1771, cap, VII) aveva battezzato Pècherais, dalla prima parola da loro pronunciata quando lo avevano avvicinato. [N.d.T.]
  28. Secondo F. (op. cit., p. 207) la fonte della citazione di Kant è un frammento presente in Ioannou Stobaiou Anthologion - Ioannis Stobaei Florilegium, a cura di A. Meinecke, Leipzig, Teubner, 1855, II, 302, http://www.archive.org/details/iannoustobaioua01stobgoog (o C.Wachsmuth, O.Hense, IV.9.11): «Il socratico Antistene, poiché qualcuno affermava che la guerra avrebbe rovinato i poveri (penetas), disse: - Però ne creerà molti. - ». Per trovare una familiarità con la citazione di Kant bisogna però attribuire al sostantivo penes, che indica una persona povera, costretta a lavorare per vivere, il senso di "malvagio" (poneros), come riconosce lo stesso autore a cui si ispira (S. Sambursky, «Zum Ursprung eines nicht nachgewiesenen Zitates bei Kant», Archiv für Geschichte der Philosophie. 59/3, p. 280, 1977, http://www.reference-global.com/doi/abs/10.1515/agph.1977.59.3.280), il quale suppone che Kant abbia modificato la citazione ad hoc o abbia lavorato su materiale di seconda mano. Se non vogliamo alterare così profondamente il senso delle parole, potremmo ipotizzare in alternativa che la fonte di Kant sia, per via di deduzione, una battuta di Neottolemo nel Filottete di Sofocle (435):«La guerra, di proposito, non porta via nessun uomo malvagio, ma sempre i buoni», traduzione mia. Anche questa ipotesi comporta però un'alterazione - ancorché meno radicale - della presunta fonte: la sua validità è perciò soltanto provvisoria. I testi di Stobeo sono accessibili in rete grazie al lavoro di digitalizzazione svolto dall'Internet Archive e da Google. [N.d.T.]
  29. Seneca, Epistulae morales ad Lucilium, 107, 11, 5: «I decreti del destino guidano chi è consenziente, e trascinano chi non lo è». Qui ricorre la stessa citazione di Seneca che conclude la terza parte del Detto comune..[N.d.T.]
  30. Kant attribuisce a Friedrich Bouterwek un verso di cui è stata trovata attestazione nella poesia di Der Vogel Urselbst, seine Recensenten und der Genius di Gottfried August Bürger, che fu fra l'altro traduttore tedesco delle avventure del Barone di Münchhausen. Può essere divertente sapere che proprio nella città di Kant, l'attuale Kaliningrad (Königsberg), esiste tuttora una associazione denominata "Nipoti di Münchhausen". [N.d.T.]
  31. Diversità delle religioni: che espressione bizzarra! Proprio come se si parlasse anche di morali diverse. Ci possono certo essere diversi modi di aver fede [Glaubensarten], in merito a mezzi storici, usati non nella religione bensì nella storia della sua promozione, che ricadono nel campo dell'erudizione, e similmente diversi libri religiosi (Zendavesta, Veda, Corano e così via), ma soltanto un'unica religione valida per tutti gli esseri umani e in tutti i tempi. Quelli dunque non possono contenere nient'altro che il veicolo della religione, che è casuale e può variare secondo la diversità delle epoche e dei luoghi.
  32. Citazione da Tito Livio, Ab urbe condita, V.48.9; Brenno, il capo dei Galli che aveano occupato Roma, aveva acconsentito ad andarsene in cambio di un tributo in oro. I romani, pesandolo, gli avevano fatto notare che i pesi della bilancia erano truccati; Brenno aveva replicato gettando sul piatto anche la spada e dicendo, appunto, “Guai ai vinti!”, per comunicare che l'unica legge che riconosceva era quella del più forte. [N.d.T.]
  33. Kant allude alle altre due facoltà superiori del suo ordinamento accademico, che erano, accanto alla giurisprudenza, la medicina e la teologia; la filosofia invece era la facoltà inferiore. [N.d.T.]
  34. Questa espressione è spesso attribuita a Tommaso d'Aquino, che aveva sostenuto il primato della teologia sulla filosofia, in questi termini: (Summa Theologiae I, q. 1 a. 5 ad 2.- «Non enim accipit sua principia ab aliis scientiis, sed immediate a Deo per revelationem. Et ideo non accipit ab aliis scientiis tanquam a superioribus, sed utitur eis tanquam inferioribus et ancillis; sicut architectonicae utuntur subministrantibus, ut civilis militari. Et hoc ipsum quod sic utitur eis, non est propter defectum vel insufficientiam eius, sed propter defectum intellectus nostri; qui ex his quae per naturalem rationem (ex qua procedunt aliae scientiae) cognoscuntur, facilius manuducitur in ea quae sunt supra rationem, quae in hac scientia traduntur.», cioè:
    Infatti [la teologia] non riceve i suoi principi da altre scienze, ma immediatamente da Dio per rivelazione. E perciò non è recipiente di altre scienze come da
    superiori, ma se ne serve come di inferiori e ancelle, come le scienze architettoniche adoperano quelle che forniscono materiali, o la scienza politica quella militare. Il fatto stesso di usarle così non è dovuto a un suo difetto o a una sua insufficienza, ma a una difetto del nostro intelletto; il quale si conduce più facilmente da ciò che è conosciuto tramite la ragione naturale (da cui procedono le altre scienze) a ciò che è al di sopra della ragione, che è trasmesso in questa scienza. In realtà, se ne trova una attestazione più antica in Pier Damiani, De divina omnipotentia in reparatione corruptae, c. V p. 603 in J.P. Migne (a cura di), Patrologia latina: «Sed velut ancilla dominae quodam famulatus obsequio subservire»; e molto prima l'immagine fu usata dal neoplatonico ebreo del I secolo d.C. Filone di Alessandria, che illustrava il rapporto fra filosofia e rivelazione così: «hosper he enkyklios mousike philosophias, houto kai philosophia doule sophias», cioè: «come le arti lo sono della filosofia, così la filosofia è serva della sapienza» De congressu eruditionis gratia, 79-80 http://khazarzar.skeptik.net/books/philo/congresg.pdf. [N.d.T.]
  35. Questa è una evidente parafrasi di Platone, Repubblica,499b-c. [N.d.T.]
  36. «Nessuno è obbligato al di là di quanto può»: versione della massima impossibilium nulla obligatio est, Celsus, <citetitle pubwork="chapter">Digesto</citetitle> 50.17.185.[N.d.T.]
  37. Mt. 10,16: dalla traduzione di Lutero «Siehe, ich sende euch wie Schafe mitten unter die Wölfe; darum seid klug wie die Schlangen und ohne Falsch wie die Tauben!»
  38. Il dio Termine (Grenzgott) era la divinità romana che proteggeva i confini.
  39. Lasciar permanere la condizione di un diritto pubblico affetto da ingiustizia fin tanto che il tutto o si è maturato da sé a un sovvertimento pieno, o è stato portato vicino a maturazione con mezzi pacifici, sono, queste, leggi permissive della ragione; perché una qualche costituzione giuridica, sebbene conforme al diritto solo in grado minimo, è meglio di nessuna, destino, quest'ultimo (di anarchia) che toccherebbe a una riforma avventata. - Dunque la sapienza politica, nella situazione in cui sono ora le cose, si erigerà a dovere riforme adeguate all'ideale del diritto pubblico; ma non userà le rivoluzioni, quando la natura le causa da sé, come pretesto per una oppressione ancora maggiore, bensì come appello della natura a realizzare con riforme profonde una costituzione legale fondata su principi di libertà, in quanto l'unica durevole.
  40. Bonus Eventus era una divinità romana che personificava il successo. [N.d.T.]
  41. Sebbene si possa continuare a dubitare di una certa malvagità radicata nella natura umana di uomini che vivono insieme in uno stato, e, in luogo di quella, si possa addurre con una certa verosimiglianza la mancanza di una cultura non ancora sufficientemente progredita (la rozzezza) a causa dei fenomeni del loro modo di pensare contrari al diritto, essa però salta all'occhio nella maniera più scoperta e irresistibile nel rapporto esterno fra gli stati. All'interno di ciascuno stato essa è velata dalla coercizione delle leggi civili, perché all'inclinazione dei cittadini alla violenza reciproca si oppone potentemente una violenza maggiore, e cioè quella del governo, e così non solo dà al tutto una tinta morale (causae non causae), ma anche lo sviluppo della disposizione morale al rispetto immediato per il diritto è effettivamente molto agevolato perché si mette un freno all'eruzione delle inclinazioni contrarie al diritto. - Infatti di sé ciascuno crede che considererebbe sacro il concetto di diritto e lo osserverebbe fedelmente, se solo si potesse attendere lo stesso da ogni altro; questo glielo garantisce in parte il governo, e per suo tramite viene fatto un gran passo verso la moralità (sebbene non ancora un passo morale) di essere attaccato a questo concetto del dovere anche per se stesso, senza riguardo al contraccambio. - Ma poiché ciascuno, nella sua buona opinione di sé, presuppone però negli altri la disposizione cattiva, essi pronunciano scambievolmente il loro giudizio l'uno verso l'altro che tutti, per quanto concerne il fatto, valgono poco (rimanga pure non trattato da dove ciò derivi, poiché alla natura dell'uomo, come essere libero, non si può dar colpa). Però, poiché anche il rispetto per il concetto del diritto, da cui l'essere umano non può assolutamente sciogliersi, sanziona nel modo più solenne la teoria secondo cui abbiamo la capacità di divenirvi adeguati, ognuno vede che da parte sua deve agire conformemente a esso, comunque vogliano comportarsi gli altri.
  42. Mt. 6.33, dalla traduzione di Lutero: «Trachtet am ersten nach dem Reich Gottes und nach seiner Gerechtigkeit, so wird euch solches alles zufallen»: «Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in sovrappiù» [N.d.T.]
  43. Si tratta del motto dell'imperatore del Sacro Romano Impero Ferdinando I di Asburgo. [N.d.T.]
  44. Virgilio, Eneide, VI 95: «non cedere ai mali, ma vacci più audacemente contro». [N.d.T.]
  45. Kant riecheggia la distinzione del giurista medioevale Bartolo da Sassoferrato, fra tyrannus ex defectu tituli e tyrannus ex parte exercitii (De tyranno, 200; ed. critica di D. Quaglioni, in Politica e diritto nel Trecento italiano. Il "De Tyranno" di Bartolo da Sassoferrato (1314 - 1357), Olschki, Firenze, 1983): nel primo caso, ci troviamo di fronte a un usurpatore privo di titolo legittimo («ille qui in civitate sine iusto titulo manifeste principatur», De tyranno, 205), nel secondo a un governante legittimo che esercita il suo potere in modo tirannico («qui opera tyrannica facit, hoc est, opera eius non tendunt ad bonum commune, sed proprium ipsius tyranni», De tyranno, 445). Il diritto di resistenza è problematico solo in questo secondo caso, perché nel primo caso resistere è ovviamente lecito. F. Gonnelli in I. Kant, Scritti di storia, politica e diritto, Roma-Bari, Laterza, 1995, p. 207, n.53, spiega l'espressione kantiana così: «"Non titulo" perché per Kant il potere vigente come tale non può essere mai illegale». Ma anche qualora ammettessimo che questa distinzione sia solo casualmente in assonanza con quella, celeberrima, di Bartolo da Sassoferrato, presente peraltro anche nel § 204 dello Ius naturae di Achenwall adottato da Kant come manuale e citato nel Detto comune (301), è sufficiente considerare l'ultimo paragrafo (306) del corollario della seconda parte del medesimo testo per rendersi conto che il filosofo non considera legittimo un regime basato sulla mera forza - come è appunto la tirannide ex defectu tituli. [N.d.T.]
  46. L'uso di dürfen come “aver bisogno” è attestato anche in Kant dal Deutsches Wörterbuch von Jacob Grimm und Wilhelm Grimm. Si veda a questo proposito la nota successiva. Lo status iuridicus, scrive Kant, «nicht eben (gleich dem, woraus ein Staat entspringt) auf Zwangsgesetze gegründet sein darf, sondern allenfalls auch der einer fortwährend-freien Assoziation sein kann, wie der oben erwähnte der Föderalität verschiedener Staaten» (corsivi aggiunti). Questa traduzione, che si basa sull'interpretazione di dürfen come "aver bisogno" permette di intendere la soluzione confederale come surrogato negativo di quella federale, in una scala di approssimazione.[N.d.T.]
  47. Anche in questo caso dürfen significa chiaramente "aver bisogno". [N.d.T.]
  48. La casistica è una impostazione del ragionamento pratico basata sull'analisi di casi paradigmatici, piuttosto che – alla maniera di Kant - sui princípi. [N.d.T.]
  49. Si possono incontrare testimonianze di tali massime nel saggio del signor consigliere aulico Garve, Sul nesso della morale con la politica, 1788. Questo degno studioso confessa fin dal principio di non essere in grado di dare una risposta soddisfacente a questa questione. Ma chiamare nondimeno buono questo nesso, sebbene con l'ammissione di non poter superare completamente le obiezioni che le si muovono contro, appare una compiacenza maggiore di quanto dovrebbe essere consigliabile a chi è assai incline a farne abuso.