Pensieri e discorsi/L'Eroe italico/IV

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IV.


Ma io anche più agevolmente di voi sento la somiglianza e l’unione, nel mio spirito, dei due nomi e delle due anime, dell’eroe del pensiero e del poeta dell’azione. Io li ho, si può dire, veduti insieme, li ho uditi parlare! Sì: fu in una grande selva di pini. Fu in un’ombra tutta odorata di resina e di mare, in un silenzio solenne e religioso, appena turbato da qualche strillo d’uccello impaurito e dagli scatti delle cavallette, che schizzavano di tra gli aghi inaspriti dei pini, via via che il piede avanzava. E a quando a quando la brezza marina faceva di ramo in ramo un lungo brivido e sussurro.

In quella selva antica errò Dante ed errò Garibaldi. Quella selva fu, come è probabile, modello della divina foresta. In essa, forse, Dante raffigurò lo stato perfetto della vita attiva, la conclusione d’un esercizio assiduo di virtù contro il nemico interno e i turbamenti esterni, che lo rifece innocente e imperturbabile. Dante giungeva ad essa, alla Pineta di Ravenna, da una vita di stenti e di rischi; con una condanna ad aver tagliata la mano ed essere arso vivo; nell’esilio amaro che non doveva mutare se non nella morte; dopo aver lasciata ogni cosa diletta più caramente. E ad essa giungeva anche Garibaldi. Vi giungeva da Roma, che aveva difesa invano, vi giungeva dopo le traversie d’una marcia fra quattro eserciti nemici, dopo aver lasciata la terra per il mare, dopo essere stato ributtato dal mare nelle sterili arene del lido Adriano; vi giungeva come una rapida e serpeggiante meteora che dalle ripe del [p. 201 modifica]Tevere fosse caduta, lasciando un gran solco rosso, sulle foci del Po, e vi si fosse infranta.

E fosse svanita d’un tratto. Fu un accorrere là di infiniti nemici; era un formicolìo di squadre austriache per ogni parte in quei luoghi dove s’era spezzato ed era sparito l’eroe d’Italia. Dov’era? Lo cercavano i nemici d’Italia, per addossarlo a un muro o a un albero, e finirlo a colpi di fucile, s’egli già non era stato ingoiato dalla palude.

Non era stato ingoiato dalla palude. Egli aveva sì lasciato ogni cosa più caramente diletta; ma viveva. La sua Anita dormiva sotto le sabbie malfide; e i cani vaganti fiutavano già là intorno, e già raspavano là sopra. Ma egli viveva. La Romagna silenziosa aveva accolto il profugo tra le sue braccia invisibili, e lo avviluppava nella grande ombra in cui si ricoverò già il grande impero di Roma e in cui ebbe già pace il grande esule di Firenze. Tutta l’Italia era in angoscia. I romagnoli in tanto, taciti, quasi indifferenti, senza fretta e senza paura, si facevano passare di mano in mano, tramutavano di paese in paese, di casa in casa, di capanna in capanna, d’albero in albero, l’ospite loro; il dono che loro faceva la sventura d’Italia, e che essi volevano conservare per la sua fortuna. Tutti, là, sapevano: popolani e nobili, patrioti e clericali, carbonari e preti; e tacevano tutti, e nessuno tradì. La Romagna ti conservava, o Sicilia, il tuo liberatore. Don Verità, un prete di Modigliana, assicurava lo sbarco di Marsala. Iuffina, un popolano di Ravenna, preparava Calatafimi. Somarino, un bracciante di Sant’Alberto, che non si sfamò certo mai in vita sua, e che non volle vendere per una buona somma un cappello [p. 202 modifica]che gli restò del Generale, un cappello che conservato allora poteva procurargli sei palle di piombo nel petto, e venduto poi gli poteva dare un po’ di sollievo per la sua famelica vecchiaia — ebbene per questa umile scorta che il soprannome vi dice qual poteva essere, per il bracciante Somarino, voi lo vedeste, o Siciliani, il Dittatore cavalcare da Marsala al Faro, voi lo vedeste, Bruzziani, Lucani, Campani, trascorrere da Reggio al Volturno; e il mondo ammirò, e l’Italia fu.