Pensieri e discorsi/Il sabato/IX

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Il sabato - VIII La ginestra
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IX.


Queste cose io ripensavo aggirandomi per i luoghi dove Giacomo Leopardi soffrì più che non visse, e meditò che la vita è dolore. Il sole era veramente dileguato, gli uccelli si erano taciuti, pace avevano infine le nuvole, i monti di Macerata spiccavano appena nell’azzurro, la valle del Potenza era bruna e silenziosa. Appena appena gli ulivi facevan sentire qualche brivido secco, e un cipresso nereggiava sul colle dello “Infinito„. E io imaginai il Poeta, ancora giovinetto, seduto ancora dietro la siepe: un fanciullo macilento, dal viso pallido e senile, coi capelli neri e gli occhi azzurri. Erano i primi anni del secolo, e a me pareva che quel fanciullo che si rifiutava di guardare così bello e lontano accavallamento di monti, la valle e il fiume, e si faceva riparo d’una siepe di sterpi per veder più lungi, in una lontananza senza fine, rappresentasse la coscienza umana di quei primi anni. Un soffio di vento che muove appena le foglie è la voce del presente, della vita. Che è essa rispetto all’infinito silenzio? Un canto d’artigiano che passa, ecco il suono dei popoli antichi, ecco il grido degli avi famosi:

Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.

[p. 85 modifica]Così meditava dopo il grande fragorìo della rivoluzione e dell’impero il giovinetto smunto, dal viso senile, in questo borgo solitario. Egli era ben disilluso degli sforzi umani per raggiungere l’inafferrabile felicità, e non credeva nel progresso e non credeva nella scienza. Altri, presi dal medesimo sconforto, nei medesimi tempi, si volgeva a Dio: egli non credeva nemmeno a Dio. E tutta la vita egli rivolse all’Ignoto interrogazioni, le quali sapeva dover restare senza risposta.

E il fanciullo senile è ancora là, sente stormire le foglie e naufraga nel mare dell’Infinito. O siede, in forma di pastore, su un sasso della prateria, guardando la luna (appunto la luna falcata si mostrava su Monte Lupone) e chiedendo:

Che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono?

Sì: la coscienza umana chiede ancora quello che chiedeva allora. Dobbiamo credere che ciò sia un sintomo di malattia o degenerazione? O dobbiamo credere che sia naturale del pastore in tal modo affannarsi, come della sua greggia il posare? Non so: certo io rammento che qualunque sia la risposta che noi ci sentiremo dare, ella ci consiglia il bene. Chè il fare bene non è solo la conclusione ultima della filosofia cristiana del Manzoni, ma anche di quella sconsolata del Leopardi. Poichè questi dopo avere mostrata la vanità del tutto, a parte a parte, della gloria, della libertà, del progresso, della vita; ha la visione dell’umanità futura, stretta insieme e ordinata, “negli alterni perigli e nelle angosce Della guerra comune„.

[p. 86 modifica] Il poeta del dolore conclude adunque, non troppo diversamente dal poeta della speranza, così: Noi stiamo tutti male: e aiutiamoci, allora, tra noi infelici, difendiamoci, amiamoci!

Non diversa la conclusione, come non dissimili le premesse. Perchè? Elle furono poste, ripeto, da tutti e due in quei primi anni del secolo, durante e dopo quel tanto “affaticare„ che parve non fosse giovato a nulla. Parve al Leopardi nella sua fanciullezza, e seguitò a parer dopo, perchè in lui la fanciullezza fu tutta la vita. E per ciò egli è il poeta a noi più caro, e più poeta e più poetico, perchè è il più fanciullo; sto per dire l’unico fanciullo che abbia l’Italia nel canone della sua poesia. O mesta voce di fanciullo, ineffabilmente mesta, quando anche si volgeva a Gesù! La dolce fede divina già non gl’impediva, nel suo tempo felice, nel suo sabato, di credere all’immedicabile infelicità umana; come il mancare poi di essa fede non gli impedì di credere al grande ma unico e non solito, ahimè, nè facile conforto: all’amore!