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[p. 232 modifica] della propria infelicità, quale ambedue la concepiscono, si trova molto maggiore in questi che in quelli: 2°, che di un popolo mezzo barbaro è tutto proprio il timore: 3°, che per disprezzar la vita e le sventure non basta essere infelici, ma si richiede magnanimità e profondità di sentimenti e forza d’animo, cose ignote alla plebe, altrimenti prevale il desiderio naturale e cieco della propria conservazione: 4°, che la prosperità dà confidenza, ma le continue sventure primieramente in luogo di far l’uomo generoso l’avviliscono col sentimento della propria debolezza, e gli levano il coraggio, massime se egli non è magnanimo per natura o per coltura; poi la trista esperienza rende l’uomo tremebondo a causa del nessuno sperare e dell’aspettar sempre male: 5°, finalmente che chi ha pochissimo teme piú per quel poco, perché non è avvezzo a confidare né a immaginar nessuna risorsa, avendone sempre mancato, quando sia un popolo vissuto sempre nella inazione, come i moderni, e non avvezzo a continue imprese e vicissitudini di fortuna, come gli antichi romani, ancorché poveri.


*   La cagione che adduce Montesquieu dell’esser sovente il principio de’ cattivi regni come il fine dei buoni (ch. 15, p. 160), non è buona, perché va a terra quando un cattivo principe succede a un buono. Io credo che la vera sia: prima, che, il suo fine essendo [p. 233 modifica]di regnar male, egli fa bene nel principio per inesperienza, e male nell’ultimo, al contrario dei buoni: poi, che una certa generosità naturale