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ne il tempo di pigliare un partito, aveva mandato il Robineau a far delle compre.

— Piuttosto ce n’andiamo tutti, se tengono lui! — dichiarava l’Hutin.

L’affare dava noia al Bouthemont, che nella sua placidità non poteva vivere col diavolo in casa: ci soffriva a vedersi intorno soltanto visi scontenti. E poi, voleva esser giusto.

— Via, via! lasciatelo un po’ stare. O che vi fa, lui?

Ma rispondevano in coro:

— Come? non ci fa nulla?... Un uomo che non si può sopportare, uno che ha sempre i nervi, e che è tanto superbo che non baderebbe a passarci sul corpo!

Era questa la grande arma della sezione. Il Robineau, nervoso come una donna, era permaloso ed aveva scatti intollerabili. Ne raccontavano venti aneddoti; un giovine s’era ammalato per colpa sua; delle signore s’erano offese per le sue osservazioni.

— Ma insomma, — disse il Bouthemont — non voglio pigliare la cosa su di me... Ho avvertita la direzione: e or ora mi chiameranno a discorrere un po’.

Sonavano per la seconda tavola: la campanella, lontana e affievolita nell’aria morta del magazzino, mandava il suo rintocco dal sotterraneo. L’Hutin e il Favier scesero. Da tutte le sezioni i commessi arrivavano ad uno ad uno, un po’ alla volta, affrettandosi nel corridoio della cucina, angusto ed umido, illuminato sempre dal gas. Vi si affollavano, senza ridere né ciarlare, in mezzo all’acciottolio crescente dei piatti e nel forte odore delle vivande. Poi, arrivati in fondo, si fermavano a un tratto davanti a uno


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