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il paradiso delle signore

alla cassa!» che dalle labbra sottili cadeva come un colpo di scure. Ogni pretesto per mandar via gli era buono: inventava colpe, stava attento alle minime negligenze. «Eravate a sedere: alla cassa!» - «Non vi siete fatto lustrare le scarpe: alla cassa!» E anche i migliori tremavano a quella strage. Poi, non parendogli di fare abbastanza, aveva immaginato un laccio col quale strangolare quanti commessi voleva levarsi dai piedi. Alle otto si metteva sull’uscio con l’orologio in mano, e chi arrivava scalmanato con tre minuti di ritardo aveva l’accoglienza d’un: «Alla cassa! alla cassa!». Cosí faceva presto e bene.

— Come siete brutto, voi! — esclamò un giorno in faccia a un disgraziato che gli dava noia col naso un po’ storto. — Alla cassa! alla cassa!

I favoriti avevano quindici giorni di vacanza, senza stipendio: e cosí piú umanamente si diminuivano le spese. Del resto i commessi, domati dalla necessità e dall’abitudine, consentivano di essere assoldati a quel modo provvisoriamente. Da quando eran giunti a Parigi andavano or qua or là, cominciando il loro tirocinio a destra, terminandolo a sinistra, mandati via o andando via da sé, da un momento all’altro, secondo il tornaconto. Quando non c’è lavoro per la fabbrica, si sa, non c’è pane per gli operai: e ciò faceva parte del meccanismo impassibile. Quel ch’è inutile si butta via come una ruota di ferro cui nessuno è grato dei servizi resi. Tanto peggio per chi non sa vivere!

Le sezioni non discorrevano ora d’altro. Ogni giorno c’era una notizia nuova: i nomi dei commessi licenziati correvano, come si contano i morti durante un’epidemia. Gli «scialli» e le


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