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il paradiso delle signore


— Abbasso gli sgobboni!

— Abbasso i merciai! abbasso!

La sera tornarono alla trattoria dell’isolotto. Ma l’aria s’era fatta pungente, e bisognò che mangiassero in una delle due sale chiuse, dove l’umidità dell’inverno dava alle tovaglie una freschezza di bucato. Fin dalle sei le tavole non bastavano piú, perché tutti si affrettavano a cercare un po’ di posto: i camerieri non facevano che portar seggiole e panche, e raccostare le posate, ammucchiando quanta piú gente potessero. Cosí c’era da soffocare; e fecero aprire le finestre. Fuori il giorno cadeva: un crepuscolo verdastro scendeva dai pioppi cosí alla lesta, che il padrone, mal preparato ad avere tanta gente al coperto, in mancanza di lumi, dové far mettere una candela su ogni tavola. Il rumore assordiva; risate, chiamate, acciottolío di piatti: le candele sotto il vento che veniva dalle finestre tremolavano e si struggevano, e le farfalle notturne aleggiavano nell’aria riscaldata dall’odore dei cibi, ogni tanto attraversata da soffi gelati.

— Come si divertono, eh! — diceva Paolina tutt’assorta su certo pesce marinato ch’ella asseriva squisito.

Si chinò per aggiungere:

— L’avete visto voi, il signor Alberto, laggiú?

Era davvero il Lhomme in mezzo a tre donne: una vecchia col cappello giallo che aveva tutta l’aria di una mezzana, e due giovanissime, bambinucce di tredici o quattordici anni, senza fianchi, d’una sfacciataggine da sbalordire. Lui, di già ubriaco fradicio, dava del bicchiere sulla tavola e diceva di voler pigliare a scappellotti il


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