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mizia ancor rara, per paura di far salire troppo in su il conto.

— E ora che si fa? — domandò il Baugé quando fu portato il caffè.

Le altre volte lui e Paolina tornavano a Pacontentando Dionisia, risolsero di rimanere a rigi per desinare e finir la giornata al teatro. Ma, Joinville; sarebbe stata una cosa nuova; si sarebbero ingolfati nella campagna fino agli occhi. Infatti non fecero che passeggiare su e giú pei campi. Fu messa innanzi la proposta d’andare in barca, ma il Baugé remava tanto male, che la misero da parte subito. Passeggiarono dunque, e la loro passeggiata li riconduceva sempre sulle rive della Marna: la vita del fiume li divertiva con tutte quelle barche e canotti che vi s’incrociavano. Il sole s’avvicinava al tramonto; ed essi tornavano a Joinville, quando due barchette, venendo giú con la corrente e gareggiando di velocità, si lanciarono scariche d’insolenze, fra le quali si udiva ripetuto il grido di merciai e di sgobboni.

— To’! — disse Paolina. — È il signor Hutin.

— Già, — rispose il Baugé parandosi il sole con la mano. — Riconosco la lancia gialla... In quell’altra ci devono essere degli studenti.

E si mise a spiegare l’odio antico che faceva spesso azzuffare gli studenti con i commessi. Dionisia, a sentire il nome dell’Hutin, s’era di colpo fermata; e seguiva la fragile lancia, che volava come una freccia, cogli occhi fissi cercandovi tra i rematori il giovane: ma non distingueva piú che il bianco di due donne, una delle quali con un cappello rosso stava al timone. Le voci si dispersero nel gran frastuono del fiume.


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