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chi, che la faceva divenire una polvere bianca diffusa e quasi sospesa per l’aria, sotto la quale la sezione delle sete pareva dormisse in mezzo a un silenzio da chiesa che faceva rabbrividire. Il passo d’un commesso, delle parole sussurrate, un fruscio di sottane, vi mettevano soli qualche leggiero rumore, soffocato dal caldo del calorifero. Delle carrozze, nondimeno, arrivavano; si sentiva il fermarsi dei cavalli, poi il richiudersi brusco delle portiere. Dal di fuori saliva un lontano frastuono dei curiosi che stavano a guardare le vetrine, e delle vetture che eran ferme in Piazza Gaillon: si sentiva l’avvicinarsi della gente. Ma vedendo i cassieri starsene in panciolle dietro i finestrini, e osservando che le tavole restavano vuote senza null’altro sopra che scatolette da spago e risme di carta da involtare, al Mouret, sdegnato d’aver paura, pareva sentire la sua macchina grande divenir fredda e immobile.

— Dite un po’, Favier — mormorò l’Hutin — guardate il padrone lassú... Che faccia da miserere, Dio ce ne scampi e liberi!

— Ma che questo si chiama un magazzino! — rispose il Favier. — Non ho venduto nemmeno un capo di spillo!

Aspettando i clienti, tutt’e due sussurravano cosí, senza guardarsi, a brevi frasi. Gli altri impiegati della sezione stavano riscontrando i cartellini, secondo gli ordini del Robineau; e il Bouthemont intanto, tutto in discorsi con una signora giovine e magra, pareva prendesse a bassa voce una commissione importante. Intorno a loro, su mobili di fragile eleganza, le sete, piegate in lunghi involti di carta color crema, si ammucchiavano quasi opuscoli d’insolito for-


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