Pagina:Zibaldone di pensieri VI.djvu/35

30 pensieri (3561-3562-3563)

del cinquecento, siccome nel trecento il Boccaccio, davano nel poetico sconveniente  (3562) alla prosa, adoperando a ribocco e senza giudizio le voci, le significazioni, le metafore, le frasi, gli ornamenti, l’epitetare ec., sí di Dante e Petrarca, sí de’ poeti del cinquecento stesso. E ciò per la medesima ragione per cui i detti poeti adoperavano le frasi e voci ec. della prosa, come a pagg. 3414, segg. Ciò era perché i termini fra il linguaggio della poesia e della prosa non erano ancora ben stabiliti nella nostra lingua. Onde come noi non avevamo ancora un linguaggio propriamente poetico bene stabilito e determinato (p. 3414, 3416), cosí né anche un linguaggio prosaico. Nella stessa guisa (ma però molto meno) che i francesi non hanno quasi altra prosa che poetica, perché appunto non hanno lingua propriamente poetica, distinta e determinata, e assegnata senza controversia alla poesia (veggansi le p. 3404-5, 3420-1, 3429 e il pensiero seguente). Nessun buon autore del seicento, del sette e dell’ottocento dà nel poetico come molti buoni e classici del cinquecento (non ostante nel seicento la gran peste dello stile derivata appunto dal cercare il florido, il sublime, il metaforico, lo straordinario modo di parlare e di esprimere checchessia, il fantastico, l’immaginoso, l’ingegnoso; e consistente in queste qualità ec., peste  (3563) che nel cinquecento ancor non regnava, eppur tanto regnava il florido e il poetico nella prosa, quanto non mai nelle buone e classiche prose del seicento: segno che quel vizio nel cinquecento veniva da altra cagione, e ciò era quella che si è detta). Nessuno oggi (né nei due ultimi secoli), per poco che abbia, non pur di giudizio, ma sol di pratica nelle buone lettere, sarebbe capace di peccare,


    tono al talento. Non si sa ben dire se sia piú del verso che della prosa. Vedilo benissimo usato dallo Speroni ne’ Dialoghi, Venezia, 1596, p. 69, fine.