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(610-611-612) pensieri 91

niente d’infinito, non piú che quello di qualsivoglia animale. E cosí non si può dedur nulla in questo proposito dalla infinità dei nostri desideri, conseguenza della sopraddetta e spiegata  (611) infinità dell’amor proprio; né dalla nostra infinita o vogliamo dire indefinita capacità di amare, cioè di essere piacevolmente affetti e inclinati verso gli oggetti conseguenza dell’infinito amor del piacere, il quale deriva immediatamente e necessariamente dall’amor proprio infinito o senza limiti né misura (4 febbraio 1821).


*    Alla p. 112. Prima di Gesú Cristo, o fino a quel tempo, e ancor dopo, da’ pagani non si era mai considerata la società come espressamente e per sua natura nemica della virtú, e tale che qualunque individuo il piú buono ed onesto trovi in lei senza fallo e inevitabilmente o la corruzione o il sommo pericolo di corrompersi. E infatti, sino a quell’ora, la natura della società non era stata espressamente e perfettamente tale. Osservate gli scrittori antichi e non ci troverete mai quest’idea del mondo nemico del bene, che si trova a ogni passo nel Vangelo e negli scrittori moderni, ancorché profani. Anzi (ed avevano  (612) ragione in quei tempi) consideravano la società e l’esempio come naturalmente capace di stimolare alla virtú, e di rendere virtuoso anche chi non lo fosse; e insomma il buono e la società non solo non parevano incompatibili, ma cose naturalmente amiche e compagne (4 febbraio 1821).


*    Alla p. 535, fine. Cosí anche il piacere della speranza non è mai piacere presente, nemmeno in quanto speranza; cioè l’atto del piacere della speranza cammina in quel medesimo modo che ho notato nell’atto del piacere presente o della rimembranza o considerazione del piacere passato (5 febbraio 1821).