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la propria curiosità, la quale — e mi guardò severamente — è, in casi come questi, peggiore di un delitto. In pena della colpa commessa son stati resi ciechi e muti e dovranno rimanere tali per la vita. Non dovranno ricevere che cibo e bevande attraverso un buco che troverete nel muro. Comprendete, Gesio?» —

Gli risposi di aver capito.

— «Sta bene» — continuò — «un’altra cosa non dovete dimenticare» — e mi fissò con cipiglio minaccioso — «la porta della loro cella — cella numero V sul medesimo piano — questa qui, Gesio — » e mise il dito sopra il disegno della cella perchè mi rimanesse impressa — «non dovrà mai esser aperta per qualsivoglia motivo, nè per lasciar entrare o sortire alcuno, neppur voi stesso.» —

— «Ma se essi muoiono?» — chiesi. —

— «Se muoiono — rispose — la cella sarà a loro tomba. La cella è infetta di lebbra. Capite?» —

Detto ciò, mi congedò.

Gesio tacque e dalla sua tunica estrasse tre pergamene tutte ingiallite dal tempo e dall’uso; scegliendone una la stese sul tavolo innanzi al tribuno dicendo semplicemente:

— «Questo è il primo piano.» —

Tutti quelli che eran li presenti osservarono la pianta:


CORRIDOIO
V IV III II I


— «Questa è, precisamente, o tribuno, la pianta così quale la ricevetti da Grato. — Guarda: qui è la cella numero V» — disse Cesio. —

— «Vedo,» — rispose il tribuno — «Prosegui. La cella è infetta di lebbra....» —

— «Desidererei chiederti una cosa» — interruppe il carceriere.

Il tribuno fece un segno d’incoraggiamento.

— «Non avevo io il diritto, date le affermazioni fattemi, di presumere che la pianta fosse esatta?» —