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insofferente di indugi, animato da un cieco desiderio di incontrare il proprio fato, e di sfidarlo.

Il suo era quello stato mentale che rende possibile di compiere atti arditi con apparente tranquillità.


CAPITOLO VI.


Ben Hur s’inoltrò insieme alla processione. Non aveva la curiosità di chiedere ove si andava, e bastava, per appagarlo, la vaga impressione che fossero tutti avviati verso i templi, magnifici centri d’attrazione.

Ad un tratto, egli tornò a mormorare: — «Meglio essere un verme e nutrirsi delle more di Dafne che essere ospite d’un Re,» — e ripetendo quelle parole come un ritornello chiese fra sè: — «Era poi così dolce la vista nel Bosco? In che consisteva l’incanto? Forse in quella dottrina filosofica spiegata dai sacerdoti dei templi? O era essa una realtà, non percettibile ai sensi? Ogni anno migliaia d’esseri rinunciavano al mondo per entrare qui. Lo trovavano essi il fascino? E quando lo avevan trovato bastava esso a generare un oblìo tale da escludere dalla mente tutti i tedi e i dolori della vita? Se il Bosco era loro così benefico perchè non lo sarebbe anche a lui? Egli era Ebreo: possibile che le cose buone del mondo fossero per tutti fuorchè pei figli d’Abramo?

Le sue facoltà si concentrarono per sciogliere il quesito, senza badare ai canti degli oblatori nè ai motteggi dei suoi compagni.

Volse gli occhi al cielo come per trovarci una soluzione; era turchino, sì molto turchino; l’aria risuonava dei garriti delle rondini; ma lo stesso colore aveva il cielo sovrastante alla città.

Più in là, fuori dei boschi, a destra, una deliziosa brezza, carica di profumi, lo accarezzò per un istante, ed egli, insieme agli altri, si fermò a guardare la direzione donde la brezza proveniva.

— «Forse da quel giardino laggiù?» — chiese ad un suo vicino. — «Piuttosto da qualche cerimonia sacerdotale: un sacrificio in onore di Diana, di Pane o di qualche Divinità silvestre.» —