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–IV–


1. Quando si sa dopo quali parole quel raddoppiamento dee aver luogo (e questo dev’essere compito della grammatica), mi sembra che sia inutile l’esprimerlo colle lettere sulla carta. È appunto lo stesso caso degli accenti greci, che non possono essere altri che quelli che sono, che la grammatica insegna quali debbano essere, e che quindi sono assolutamente inutili.

2. Anche in italiano accade qualche cosa di simile. La Crusca avverte che a ciascuno, a lei, a me, si pronunziano acciascuno, allei, ammè, e che cosi si trova scritto dagli antichi; ma nessuno oggidì pensa a raddoppiare nella scrittura quelle consonanti. In ispagnuolo le consonanti semplici poste fra due vocali sulla prima delle quali cada racconto tonico, si pronunziano come doppie, ed intanto nella scrittura non si raddoppiano.

3. Le più antiche edizioni non hanno questi raddoppiamenti, nè molte delle moderne. Ricorderò quelle del Cortese, dell’Agnano zeffonnato, della Tiorba, del Fedro del Mormile, dei sonetti del Capasso. È vero che talvolta se ne vede in esse spuntare qualcuno, come pure nelle edizioni che gli ammettono non vengono talvolta osservati. Ma a me piacciono i metodi generali e per quanto è possibile senza eccezioni. Per la stessa ragione non seguo il Serio, che nella prefazione alla raccolta del Porcelli disse di voler conservare i raddoppiamenti pei soli plurali femminili. Per me, o tutti o nessuno.

4. Si dice che tali raddoppiamenti facilitano la lettura ai non Napoletani. Il Serio afferma il contrario. «La nostra pronunzia accenna spesso a raddoppiamento di consonanti: il voler seguir ciò che praticò il Fasano nella sua magnifica edizione della Gerusalemme Liberata, avrebbe gittati in maggior confusione i forestieri». Ed in vero, se questa considerazione dovesse aver valore, quante altre varietà ortografiche si dovrebbero inventare in servizio degli stranieri per far loro pronunziar bene il nostro dialetto! E dopo tutto ciò, per quanti segni s’inventino, chi non è napoletano e vissuto in Napoli per lunghi anni e in contatto del popolo, non riuscirà mai a ben pronunziare il dialetto nostro. Se non volete credere a me, uditelo dalla voce autorevole di Pompeo Sarnelli. Costui si addossò l’incarico di procurare una buona edizione del Pentamerone, e gli fu rimproverato appunto di avere trascurato quei raddoppiamenti. Egli si difende col dire che si è attenuto alla prima stampa (oggi non reperibile), dove in luogo del raddoppiamento, in quelle voci che non l’hanno per natura, trovasi messo innanzi alla consonante un apostrofo; e conchiude col dire, che senza cotesti raddoppiamenti be lo, sa lejere chi è napoletano; ca chi è forestiere, miettece chelle lettere che buoje, ca maje lo lejarrà buono se no lo sente lejere a quacche napoletano o ad autro che sia pratteco a sto parlare. Tanto più che per questo particolare basta apprendere quella breve lista di parole che portan con se il raddoppiamento della consonante iniziale nella parola seguente.

Vero è che oltre a questo, accadono alcuni altri cambiamenti nel cominciar delle parole, i quali se poche volte sono una difilcoltà pel vocabolarista, molte volte son tale