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i divoratori 27


Lo zio Giacomo si fermò con un sospiro davanti al ritratto della sua nipote prediletta, ch’egli aveva un giorno sperato di chiamare figlia.

— Stolta creatura, — brontolò, fissando il gaio visino vacuo, — stolta creatura che è andata a sposare quel pover’uomo d’inglese, quando poteva invece sposare quel cretino ingrato di mio figlio!

Qui un altro profilo di Nunziata Villari gli saltò agli occhi, e poi ancora Nunziata Villari tutta capigliatura e sorriso...

Egli ebbe il tempo di imparare a memoria ogni lineamento di quella strana faccia ardente, prima che il portone di casa si aprisse e i rapidi passi di suo figlio echeggiassero sulla scala.


Antonio, che già dalla strada aveva visto il lume in camera sua, entrò con baldo sorriso.

— Ciao, papà! Perchè non sei a letto?

Accolse l’inevitabile contro-domanda con una scrollatina di spalle e un gesto d’ambe le mani un po’ meridionale (un gesto che piaceva tanto a Theodora!).

— Ma babbo mio! io ho ventitrè anni, e tu... no. — E battè con gesto affettuoso e irritante sulla spalla tonda di suo padre.

— «Jeune homme qui veille, vieillard qui dort, sont tous deux près de la mort», — citò suo padre, tetro e severo.

— Eh, babbo mio! — E Antonio rise (di quel suo riso arguto e sottile che Cleopatra trovava irresistibile!). — Se la vita è breve, che sia almeno bella! — E accese una sigaretta.

Giacomo fremeva. Aveva anche freddo ai piedi, e la sua veste da camera gli era stretta. Suo figlio, gaio e soddisfatto di sè, lo esasperava.