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CXXVIII

AD UNA CANTATRICE IN TRIESTE

Bella è costei per nereggiante ciglio,
pieno di grazie e di lusinghe ignote;
bella è costei per amorose gote,
in cui l’idalio fiore è misto al giglio.

Ché se dal giovami labbro vermiglio
ella disciolga armoniose note,
qual rigido Zeno n resister puote?

Ah ! che il piú freddo core è in gran periglio.

Io certo arsi gran tempo, e sempre fido
ardo tuttor, benché lontan da lei
che de la scabra Illiria or molce il lido.

Perché il frapposto mare, o sommi dèi,
non è si breve come quel di Abido,
ch’emulo di Leandro esser vorrei?

CXXIX

GL’INCANTI AMOROSI «

— Dov’è, dov’è la portentosa e bruna
verga che adopri, o Ismen, ne le tue grotte,
quando or con segni ed or con interrotte
parole annebbi il sol, fermi la luna?

Se ti destano in cor pietade alcuna
queste eh’ io verso lagrime dirotte,
dammela, ti scongiuro. — Ecco la notte:
non si lasci fuggir l’ora opportuna.

Mentre l’ infida che per Niso langue
aspetta il mio rivale a l’aer fosco,
trar vogl’io con gl’incanti il lupo e l’angue.

La strazi un’ugna, l’avveleni un tosco;
muoia quella spergiura, e l’ombra esangue
perdasi tra i fantasmi atri del bosco.

(1) Recitato in un’accademia che aveva per argomento GV incanti amorosi.