Pagina:Vittorelli - Poesie, 1911 - BEIC 1970152.djvu/208

202

POKMETTI E STANZE

16

Anche natura stupida e smarrita
restò in quel giorno di suo stato in forse,
qualor d’avere movimento e vita
fin gli obelischi inanimati scòrse;
e con la faccia mesta ed impaurita
al fulminante Giove in ciel ricorse,
ma sorridendo le rispose il dio:

— Rivivono i giganti, e temo aneli’ io. —

17

O de’ pensieri miei subbietto e scopo,
inaccessibil zazzera sublime,
perché a I’etadi che verranno dopo,
ritraiti non poss’ io ne le mie rime?

Una cetera tal sariami d’uopo
che non fosse minor de le tue cime,
e udrebbe allora i versi miei rotondi
la stessa ancor pluralitá dei mondi.

18

Poi vedrebbemi al suoli di simil cetra
l’intonso Febo e la pendice ascrea
non giá far camminare o tronco o pietra,
come il cantor di Rodope solea;
ma invogliar colassi! nel lucid’etra
e Pallade e Giunone e Citerea
d’aver sul capo quell’aerea mole,
che adeguar mal poss’ io con le parole.

19

Né tu, gran madre degli dèi celesti,
che a noi rammenti la saturnia ghianda,
né tu soltanto di muraglie avresti
sul raro crin turrigera ghirlanda;
ma le tue figlie passeggiar vedresti
co le divise tue per ogni banda,
ed usurpare i sagrifizi e i voti
de’ truci Coribanti a te devoti.