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I


A mostrare il posto che la Scienza nuova occupa nella produzione filosofica del Vico, basta non tanto il fatto che egli stesso ebbe parecchie volte a manifestare il desiderio che tutte le sue opere si perdessero e soli gli sopravvivessero quei «cinque libri d’intorno alla comune natura delle nazioni», quanto l’altro fatto, assai più significativo, che la vita spirituale di lui può dividersi in due periodi: l’uno, che va su per giù dal 1694 al 1717 o 1718, dedicato a meditare l’opera sua capitale; l’altro, dal 1718 al 1739 o 1740, consacrato a scriverla.

Non è nostro compito di studiare il primo periodo. La preistoria della Scienza nuova, che, se avessimo maggior copia di documenti, darebbe luogo a un lavoro assai suggestivo, esce fuori dal campo di una modesta introduzione bibliografica, ohe deve limitarsi a narrare la storia quasi meramente estrinseca di quel libro maraviglioso.

Fu dunque nel 1720 che Giambattista Vico, dopo venticinque anni di «aspra e continova meditazione», credette d’essere stato alfine condotto dalla divina Provvidenza a ritrovare quella nuova scienza che doveva rivoluzionare tutto lo scibile umano. Ebbro di gioia, pensò di annunciare il gaudium magnum ai suoi concittadini, che, nella sua ingenua fede di filosofo, immaginava ansiosi di apprendere il verbo novello. Ma, ahimè, la Sinopsi del Diritto universale1, come si suol chiamare quella specie di manifesto, lasciò gli animi freddi e indifferenti. Fu molto se qual-

  1. Croce, Bibliografia vichiana (Bari, Laterza, 1911), p. 12.