Pagina:Verne - Racconti fantastici, 1874.pdf/49


capitolo xi. 51

tori, li appassionò adoperando le espressioni e le metafore che si usano in tali occasioni. Rammentò il delitto, rammentò il torto fatto al comune di Quiquendone e per il quale una nazione gelosa de’ suoi diritti non poteva ammettere prescrizione; mostrò l’ingiuria sempre viva, la piaga sempre sanguinosa; parlò di certi crollamenti di testa propri degli abitanti di Virgamen e che indicavano in quale dispregio essi avessero gli abitanti di Quiquendone; supplicò i suoi compatrioti, i quali inconsciamente forse avevano sopportato per lunghi secoli quella mortale ingiuria; scongiurò i figli della vecchia città a prendersi una rivincita luminosa. Finì facendo appello a tutte le forze vive della nazione! Con quale entusiasmo queste parole così nuove ad orecchie Quiquendonesi fossero accolte, è cosa che si sente, ma non si può dire.

Tutti gli uditori si erano levati in piedi e colle braccia levate, domandavano la guerra a grandi grida. L’avvocato Zitto non aveva mai avuto un tal trionfo, e bisogna dire che egli era stato veramente splendido.

Il borgomastro, il consigliere, tutti i notabili che assiste vano alla memorabile adunanza avrebbero inutilmente cercato di resistere allo slancio popolare. D’altra parte, essi non ne avevano alcuna voglia e gridavano forte quanto gli altri, se non più forte:

«Alla frontiera! alla frontiera!

Ora, siccome la frontiera distava tre soli chilometri dalle mura di Quiquendone, è certo che i Virgamenesi correvano grave rischio, poichè potevano essere invasi prima di aver avuto il tempo di radunarsi.

Nondimeno l’onorevole farmacista Josse Liefrinck, che solo fra tutti aveva conservato il senno in questa occasione, volle far comprendere che si mancava di fucili, di cannoni, di generali.

Gli fu risposto, non senza qualche scapezzone, che generali, cannoni e fucili si improvviserebbero; che il buon diritto e l’amore della patria bastano a rendere un popolo irresistibile.