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Cyrus Smith aveva raggiunto i compagni e narrava loro l’accaduto.
— Sì, vi ha un mistero nella vita di quest’uomo, disse Gedeone Spilett, e pare ch’egli non sia ritornato nella umanità se non per la via dei rimorsi.
— Io non so che razza d’uomo abbiamo portato con noi... disse il marinajo; egli ha dei segreti...
— Che rispetteremo, rispose vivamente Cyrus Smith. Se egli ha commesso qualche colpa, l’ha crudelmente espiata, ed agli occhi nostri è assolto.
Per due ore l’incognito stette solo sulla spiaggia, evidentemente sotto l’influenza dei ricordi che gli risuscitavano tutto il suo passato – Un passato funesto senza dubbio, — ed i coloni, senza perderlo di vista, non cercarono di turbarne l’isolamento.
Pure, dopo due ore egli parve aver preso una risoluzione, e venne a trovare Cyrus Smith. Gli occhi suoi erano rossi di lagrime versate, ma non piangeva più. Nella sua faccia era l’impronta di una profonda umiltà; pareva timoroso, vergognoso, si faceva piccino, teneva continuamente lo sguardo abbassato a terra.
— Signore, disse egli a Cyrus Smith, i vostri compagni e voi siete inglesi?
— No, rispose l’ingegnere, siamo americani.
— Ah! disse l’incognito, e mormorò queste parole: “lo preferisco.”
— E voi, amico mio? chiese l’ingegnere.
— Inglese, rispose egli rapidamente.
E come se quelle poche parole gli fossero costate gran fatica, s’allontanò dal greto, che percorse dalla cascata fino alla foce della Grazia agitatissimo: poi, essendosi trovato a passare vicino ad Harbert, si fermò e gli chiese con voce soffocata:
— Che mese?
— Dicembre, rispose Harbert.
— Che anno?
— 1866.