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solo, riuscì a ricondurre il suo Nautilus verso uno dei porti sottomarini che gli serviva di punto di fermata. Uno di questi porti, scavato sotto l’isola Lincoln, era appunto quello che dava asilo in questo momento al Nautilus.

Da sei anni il capitano era là, non navigando più ed aspettando la morte, vale a dire l’istante in cui sarebbe riunito ai suoi compagni, quando il caso lo fece assistere alla caduta del pallone, che portava i prigionieri dei Sudisti. Rivestito del suo scafandro, passeggiava sotto le acque a poche gomene dalla spiaggia dell’isola, quando l’ingegnere fu gettato in mare. Sentì un impeto generoso: salvò Cyrus Smith.

Sulle prime voleva fuggire i cinque naufraghi, ma il suo porto di rifugio era chiuso in seguito ad un innalzamento del basalto avvenuto per influenza delle azioni vulcaniche, e non poteva più passare nell’entrata della cripta. Dove era ancora tant’acqua perchè un leggiero battello potesse passare la sbarra, più non ve n’era bastante per il Nautilus, il cui peso era relativamente grande.

Il capitano Nemo rimase adunque, poi osservò quegli uomini gettati senza mezzi in un’isola deserta, ma non volle essere veduto.

A poco a poco, vedendoli onesti, energici, congiunti da amicizia fraterna, s’interessò ai loro sforzi. Quasi suo malgrado, penetrò tutti i segreti della loro esistenza. Eragli facile, a mezzo dello scafandro, giungere fino in fondo al pozzo interno del Palazzo di Granito, e ajutandosi colle sporgenze della roccia arrivare fino all’orifizio superiore, dove udiva i coloni raccontare il passato, studiare il presente e l’avvenire. Apprese da essi l’immenso sforzo dell’America per abolire la schiavitù.

Sì, quegli uomini erano degni di riconciliare il capitano Nemo con quella umanità che avevano rappresentata tanto onestamente nell’isola!