Pagina:Verne - L'isola misteriosa, Tomo II, Milano, Guigoni, 1890.pdf/269


I coloni non erano più che quattro, e per così dire alla mercè dei deportati.

In tutto quel tempo i deportati non lasciarono la caverna, ed anzi, dopo aver saccheggiato l’altipiano di Lunga Vista, non credettero prudente abbandonarlo.

I maltrattamenti inflitti ad Ayrton raddoppiarono.

Le sue mani ed i suoi piedi portavano ancora la sanguinosa impronta dei lacci che lo legavano giorno e notte. Ad ogni istante aspettava una morte, alla quale non gli sembrava poter sottrarsi.

Fu così fino alla terza settimana di febbrajo. I deportati, spiando sempre un’occasione favorevole, lasciavano raramente il loro ricovero, e fecero solo qualche escursione di caccia nell’interno dell’isola e sulla costa meridionale. Ayrton non aveva notizie degli amici e non sperava più di rivederli.

Finalmente il disgraziato, indebolito dai maltrattamenti, cadde in una prostrazione profonda, che più non gli permise nè di vedere, nè di intendere. Così da quel momento, vale a dire da due giorni, non poteva dire neanche che fosse accaduto.

— Ma, signor Smith, aggiunse egli, poichè ero imprigionato in quella caverna, come avviene che mi trovo al ricinto?

— E come avviene che i deportati siano là, morti, in mezzo alla cinta? interrogò l’ingegnere.

— Morti! esclamò Ayrton, il quale, malgrado la sua debolezza, si sollevò a mezzo.

I compagni lo sorressero. Egli volle levarsi, e fu lasciato fare, poi tutti insieme si diressero verso il rigagnolo.

Era giorno chiaro.

Colà, sull’argine, nella posizione in cui li aveva colti una morte che aveva dovuto essere fulminante, giacevano i cinque deportati.

Ayrton era come atterrito. I coloni lo guardavano senza proferir parola.