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un bel pezzo, siffattamente prodigiosa era la loro rapidità.

Quanto alle traccie lasciate dai deportati nella foresta, non ne furono ancora viste alcune.

Vicino ad un fuoco, che sembrava essere stato spento di fresco, i coloni notarono pedate che furono osservate con estrema attenzione; misurandole l’una dopo l’altra per lungo e per largo, si trovarono facilmente le traccie di cinque uomini. I deportati si erano evidentemente attendati in quel luogo, ma e questo era l’oggetto dell’attento esame — non si potè discernere una sesta impronta, che doveva essere quella di Ayrton.

– Ayrton non era con essi! disse Harbert.

– No, rispose Pencroff, e se non era con essi segno è che l’hanno ucciso. Ma quei cenciosi non hanno una tana in cui si possa circondarli come tigri?

– No, rispose Gedeone Spilett, è più probabile che vaghino alla ventura fino a che siano padroni dell’isola.

— Padroni dell’isola! ripetè il marinajo, padroni dell’isola! e la sua voce era strangolata come se una mano di ferro l’avesse afferrato alla gola.

Poi, con voce più pacata, disse:

— Sapete, signor Cyrus, qual’è la palla che ho messo nel mio fucile?

– No, Pencroff.

– È la palla che ha attraversato il petto di Harbert, e vi prometto che non andrà fallita.

Ma queste giuste rappresaglie non potevano ridonare la vita ad Ayrton, e da quelle pedate rimaste sul suolo si doveva, ahi! conchiudere che non vi era speranza di rivederlo più mai.

Quella sera l’attendamento fu posto a quattordici miglia dal Palazzo di Granito, e Cyrus Smith reputò che non si dovesse essere a più di cinque miglia dal promontorio del Rettile.