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dendosi destramente, andò a collocare l’estremità delle sue lenze armate di ami presso ai nidi di tetras, poi tornò a prendere l’altro capo e si nascose con Harbert dietro un grosso albero. Entrambi allora aspettarono pazienti, sebbene Harbert, giova dirlo, non contasse gran fatto sulla riuscita dell’invenzione di Pencroff.

Trascorse una buona mezz’ora, ma, come avea preveduto il marinajo, molte copie di tetras tornarono ai loro nidi; saltellavano beccavano il suolo, non sospettando in alcuna maniera la presenza dei cacciatori, che del resto avevano avuto cura di collocarsi sottovento ai gallinacei.

Certo il giovinetto si sentì allora vivissimamente interessato; tratteneva il respiro, intanto che Pencroff, sbarrando tanto d’occhi, a bocca aperta, colle labbra tese come se stesse per assaggiare un boccone di tetras, respirava appena.

Frattanto i gallinacei passeggiavano fra gli ami senza molto inquietarsene. Pencroff allora diede picciole scosse che agitarono l’esca in guisa da far credere che i vermi fossero tuttavia viventi.

Senza dubbio il marinajo provava allora una commozione ben altrimenti intensa di quella del pescatore alla lenza, il quale non vede mai venire la sua preda attraverso le acque.

Le scosse svegliarono l’attenzione dei gallinacei e gli ami furono assaliti a beccate. Tre tetras, voracissimi in vero, inghiottirono insieme l’esca e l’amo. Pencroff diede una strappata improvvisa, e lo starnazzare delle ali lo avvertì che gli uccelli erano presi.

— Evviva! esclamò egli precipitandosi verso la selvaggina, di cui s’impadronì in un istante.

Harbert aveva battute le mani. Era la prima volta che vedeva prendere gli uccelli colla lenza; ma il marinajo, modestissimo, gli affermò che non era già