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artisti da strapazzo. 177

e telegrammi sudici, correndo sull’uscio, ogni volta che s’apriva, per vedere se giungeva un fattorino del telegrafo. Il domani di san Stefano erano tutti lì dalle sette, davanti la porta del Caffè, sotto la pioggia, coll’ombrello aperto, ansiosi, guardandosi in cagnesco fra di loro, delle facce nuove che si vedevano soltanto nelle grandi occasioni, pastrani senza pelo e stivaloni infangati, scialli messi a guisa di pled, cappelloni di donna e sottane che sgocciolavano sul marciapiedi.

Alcuni dei vecchi mancavano: il tenore, un basso, rimorchiatovi da poco dal Silvani, e due o tre altri, di cui i rimasti dicevano corna. Attraverso l’usciale si udiva come un brontolío sordo di rivoluzione nello stanzone vuoto, dove il Lupi beveva a piccoli sorsi un caffè caldo, schizzando la testata di un giornale davanti al garzone in maniche di camicia che gli si buttava addosso per vedere, col ventre sul tavolino.

Assunta, rimasta a casa, stava facendo cuo-